Archivi autore: Marina Torossi Tevini
Vivien, il rimorso di Eliot
Chiara Mattioni: Anatomia di un tramonto
Anatomia di un tramonto | Antico Caffè San Marco
Evento con la collaborazione del P.E.N. Trieste e della Associazione Culturale Altamarea
Introduzione di Rina Rusconi
Versi di Marina Torossi Tevini | Roberto Dedenaro
Anatomia di un tramonto | Libreria Ubik
Anatomia di un tramonto
Alcune poesie
Ho avuto una vita tranquilla
Che insolita stagione quest’autunno
Il vento del’est ci porta
La vita la vivo di corsa
Presentazioni
Libreria Ubik: Roberto Dedenaro, Enzo Santese
Antico Caffè San Marco: Lina Morselli, introduzione di Rina Rusconi
Recensioni
Il Piccolo Redazione Cultura: “Anatomia di un tramonto” di Tevini
Roberto Dedenaro: Versi di Marina Torossi Tevini
Chiara Mattioni: Anatomia di un tramonto
Luca Menichetti: Anatomia di un tramonto
Il Piccolo Redazione Cultura: “Anatomia di un tramonto” di Tevini
Generazioni
“Guarda un po’qua” disse Antonio mettendogli davanti un giornale che aveva tenuto in serbo per mostrarlo all’amico: “Questo articolo mi ha aperto gli occhi”.
“Di che cosa si tratta? chiese Alessandro consegnano il suo piatto a Giulia perché ci posasse sopra l’insalata.
“Tante volte mi sono chiesto perché noi siamo sempre stati in dubbio su quello che facevamo”.
“In che senso?”
“La nostra mi è sempre sembrata una generazione che ha avuto molti dubbi. Sul mondo, sulla giustizia, sui valori, su di sé, in primo luogo”. Continua a leggere
Afgani
Alessandro, Antonio e Paolo arrivarono all’autoporto di Fernetti a mezzanotte per mettere il camper nel rimessaggio.
“Lo lascio sempre qui, – disse Antonio – è comodo. Poi quando mi serve vengo a riprenderlo”.
“Ma guarda che confusione a quest’ora. Non vi pare strano?” esclamò Paolo meravigliato.
Davanti all’autoporto c’era un’autoblinda della polizia, una volante e un crocchio di camionisti.
“Hanno fatto fuori uno” disse laconico il maresciallo.
“Dobbiamo entrare nel campeggio”.
“Potete passare tranquilli, se il custode è ancora sveglio”. Continua a leggere
Siamo buoni. Ci odiamo tutti.
Credo che in nessuna civiltà si sia stati così sensibili alle discriminazioni di ogni tipo come nell’Occidente del dopoguerra. Dopo gli orrori di una scelta, quella tedesca, di eliminare dalla società gli elementi che potevano indebolire la razza, dagli ebrei agli zingari agli omosessuali, la società occidentale fu bene attenta a ricostruire la sua identità sulla proclamazione ad abundantiam della assoluta uguaglianza di tutti gli uomini. Mai nessuna civiltà del passato, men che meno la civiltà greco latina di cui ci vantiamo discendenti, l’aveva fatto. Per il mondo classico c’erano gli uomini liberi e gli schiavi, c’erano i greci e i barbari. Tutti uguali? Col fischio. Continua a leggere
L’equivoca eredità di una rivoluzione lontana
Il nostro mondo, il mondo delle disuguaglianze in quantità, fonda uno dei suoi cardini di pensiero sul concetto che siamo tutti uguali. Idea nata al tempo della rivoluzione francese. Liberté, égualité, fraternité inneggiavano i rivoluzionari mentre la ghigliottina faceva cadere le teste. Ci sono però degli equivoci. Si inizia con l’equivocare le cause della rivoluzione. Continua a leggere
La vita vera
La vita vera, la grande assente delle grigie città dell’Occidente pulsa nelle colline coltivate a riso, nei fiumi circondati dalle mangrovie, nelle isole sperdute della Polinesia non ancora raggiunte dal turismo di massa. I ritmi lenti, il clima, la natura con le sue violenze, – terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni o tsunami, – e la sua straordinaria bellezza – mari blu profondo, animali selvatici, tramonti e cieli stellati – ne determinano i ritmi, i tempi. Sono zone dove i bambini difficilmente crescono davanti a videogiochi o a schermi giganti, sono luoghi dove un adolescente non preferisce rimanere a casa sdraiato nel suo mondo fittizio piuttosto che confrontarsi con la realtà. Sono posti violenti, pericolosi, eppure i bambini giocano tranquilli per strada e hanno sempre un sorriso per gli sconosciuti. Continua a leggere
In crociera per terre lontane
Quando il blu dell’Oceano tocca i colori più diversi
Bluoceano Il Ponte rosso
Intervista di Gianluca Massimini
Lankenauta – Bluoceano Appunti di viaggio – intervista all’autrice (link)
Bluoceano Appunti di viaggio
Prima del botto
Oggi si dice spesso che il lavoro manca, ma in realtà lo potremmo affermare solo se ci trovassimo in una società ben funzionante che non fa mancare servizi, che offre a tutti i cittadini il miglior confort. Non è la condizione di tutte o quasi tutte le società occidentali dove le quotidiane lamentele degli utenti per le lungaggini, i disservizi, le attese infinite sono la palese dimostrazione che molto si potrebbe ottimizzare. Manca però una volontà in questo senso, manca una programmazione, mancano delle menti che pilotino in una direzione o nell’altra le forze lavoro. Perché non ci sono? Perché tutto è lasciato all’improvvisazione e all’iniziativa, spesso miope, dell’individuo? Continua a leggere
Una società diversa? Perché no?
Certo, tutti speriamo di ritornare prima possibile alla vita di prima. Ma forse tornare indietro, oltre che impossibile, non è quella gran meraviglia. Guardare avanti e non rimpiangere il passato è sempre meglio. Cosa ci offriva prima il nostro mondo? Disoccupazione giovanile a limiti insostenibili e moralmente inaccettabili, debito pubblico esorbitante e classe politica da decenni piuttosto deboluccia, scuola concepita come intrattenimento e generatore di titoli difficilmente spendibili, sordo livore tra generazioni che si rinfacciavano lo stato delle cose, Continua a leggere
Bluoceano | Caffè Tommaseo
Nel “Bluoceano” di Marina Torossi appunti di viaggio in cinque
Bluoceano – Appunti di viaggio
“È nel movimento il senso della vita non nella stasi. Quelli che vogliono creare stati ordinati impongono regole che costringono alla sedentarietà e allora i problemi si snaturano, assumono altre proporzioni, si rendono assurdi e astratti” scrive Olga Tokarczuk in Vagabondi “Se fai una pausa diventerai di pietra, chi si arresta sarà infilato come un insetto”. “Tu invece muoviti, vai, beato è colui che parte”.
Dagli anni 90 il viaggiare è diventato una prassi comune, in quella democratizzazione e banalizzazione che, anche in questo settore, ne evidenzia le aberrazioni. Il mondo globalizzato ha dato per scontato la mobilità e, nel bene e nel male, ne ha fatto la sua bandiera. Migliaia di aerei ogni giorno sorvolano i cieli e inquinano alla grande, le automobili rendono spesso invivibili i centri urbani e solo pochi stati hanno iniziato seriamente un percorso virtuoso verso una mobilità sostenibile. Fino al 2020 spostarsi nel mondo era facile, anche se lo spirito non era certo quello auspicato dalla Tokarczuk.
I cinque racconti che costituiscono questa raccolta, dal primo “Ai confini sud del mondo: la Patagonia, e non solo” all’ultimo “Giro del mondo ai tempi della pandemia” sono al contempo appunti di viaggi transoceanici e anche riflessioni sulle trasformazioni profonde che molti stati extraeuropei hanno avuto negli ultimi anni e sui problemi di fondo dell’Europa.
Alcuni brani
da “Ai confini sud del mondo. La Patagonia e non solo” – Patagonia
da “Ontarie, balene e umani dei vari continenti” – Nuova Caledonia
da “Ontarie, balene e umani dei vari continenti” – Aqaba
da “Giro del mondo ai tempi della pandemia” – Sydney
Recensioni
Francesca Schillaci: Nel “Bluoceano” di Marina Torossi appunti di viaggio in cinque racconti
Luca Menichetti: Bluoceano Appunti di viaggio
Marina Silvestri: Bluoceano
Enzo Santese: Quando il blu dell’Oceano tocca i colori più diversi
Giovanna Mozzillo: In crociera per terre lontane
Presentazioni
Caffè Tommaseo – Lina Morselli, Roberto Dedenaro
Il canto del castrato di Giovanna Mozzillo
In tempi in cui la cronaca dei quotidiani femminicidi ci induce a riflettere sul percorso degli ultimi decenni nei rapporti tra generi, ben a proposito arriva il libro di Giovanna Mozzillo Il canto del castrato (Marlin, 2019, pp. 231) che sposta l’ottica dell’osservazione al passato, a storie di sopraffazione e di riscatto. Le due protagoniste del romanzo, – un romanzo dai toni decisamente femministi, – Ippolita e Lucrezia, madre e figlia, sono vittime di una società che vede la donna solo nella sua funzione riproduttiva. Continua a leggere
Agamben e dintorni
Certo che lo scontro attuale tra capitalismo liberale, quello dell’Occidente, e capitalismo autoritario, quello che si è sviluppato in estremo Oriente, darà come risultato la fine del nostro mondo e la sconfitta dell’ Occidente. Ma questo è evidente per motivi numerici e poi per l’ovvia ragione che un mondo profondamente demotivato e isterilito nel suo intimo come il nostro non può competere con un altro in crescita demografica economica e culturale. Sono i corsi e ricorsi della storia. Continua a leggere
Quello che neghi ti sottomette
Quello che neghi ti sottomette, così diceva uno dei padri della psicoanalisi, non pensando forse che questa verità, riferita alle dinamiche dell’inconscio, potrebbe ben essere applicata anche alla realtà attuale. In effetti quello che neghi ti sottomette e quello che credi di eliminare – non prendendone atto e cercando di minimizzare i danni con comportamenti razionali ma soltanto ignorandolo e negando la sua esistenza – ti distrugge. Continua a leggere
Trieste, due anni terribili | Giovanna Mozzillo
Intrattenimento scolastico con mascherina
Improvvisamente il problema inquinamento, riscaldamento globale, clima impazzito non esiste più. Fornire 11 milioni di mascherine al giorno per la pagliacciata del quotidiano intrattenimento scolastico diventa la priorità, eh sì, perché le mamme hanno da lavorare chattare scopare gestirelapropriavitaeilpropriotempo mica occuparsi dei marmocchi. Il bambino deve ritornare a casa ben nutrito dalla scuola, e guai se la mensa disattende le norme della corretta alimentazione, e così la mamma al ritorno gli può dare due barrette di monodigliceri che gli piacciono tanto e spararsi una serata in giro per bar ristoranti e se è estate anche un po’ di disco all’ aperto, oppure una cenetta tra amici con corredo di pargoli vocianti e assonnati. Continua a leggere
Intervista di Ornella Serafini
Rai FvG – rubrica Sconfinamenti Continua a leggere
Trieste. La resa dei conti (recensione di Gianluca Massimini)
Quello che subito emerge in quest’ultimo libro di Marina Torossi Tevini (Trieste. La resa dei conti, Campanotto Editore, 2019) è senza ombra di dubbio la grande abilità messa in campo dall’autrice nel gestire una materia narrativa così articolata, così ricca di temi e di riflessioni, di spunti, di episodi privati e storici che coprono incredibilmente un arco temporale molto lungo. Il romanzo, infatti, ripercorre gran parte delle vicende politiche giuliane e italiane degli ultimi ottant’anni, riuscendo felicemente nell’intento di calarci nella vita quotidiana di una nazione e di una città, a suo modo unica per gli avvenimenti di cui è stata protagonista nel corso del Novecento, giungendo a toccare persino i fatti della più stretta attualità, e questo sempre coi giusti tempi, con le giuste pause, con un ritmo che non conosce mai passi falsi o cadute di tono. Continua a leggere
Linuccia Saba e il cinema, un sogno negato
Se il mondo fa schifo
“Allora, signor idealista, cosa ti è successo a Ravenna? chiese Giacomo mentre Luca si sprofondava in un’altalena che tra le piante e i tavolini arredava la terrazza.
“Ho conosciuto una puttanella”.
“Bene”.
“Bene un corno. Sono stato maltrattato psichicamente”.
“È inevitabile, mio caro. Ti riprenderai presto”.
“Mi sono già ripreso, – disse Luca, – e per dir la verità sono anche contento di quest’esperienza”.
“Mi piace quando parli così, signor idealista”. Continua a leggere
Trieste. La resa dei conti (lettura di Chiara Mattioni)
Ci sono almeno tre modi di raccontare la Storia. Il primo è quello ufficiale, quello dei libri di studio che, ricostruito a posteriori, se pure rigoroso, perde l’anima degli avvenimenti. Il secondo, preziosissimo e insostituibile, è quello della testimonianza diretta, che aggiunge dettagli ricchi e tumultuosi e tuttavia ha sempre un’angolazione in qualche misura soggettiva. Il terzo, sono le parole di chi, per legame acquisito o di sangue, è stato gomito a gomito con i protagonisti dei grandi eventi storici, molto spesso donne: madri, mogli, sorelle, figlie. Sovrapponendoli e incrociandoli probabilmente ci si può avvicinare alla realtà dei fatti. L’ultimo libro di Marina Torossi Tevini, “Trieste. La resa dei conti” (Campanotto, 2019), ha anzitutto questo grande pregio. Tecnicamente è un romanzo, per altro di lettura filata e godibilissima nonostante le 450 pagine, ma non è solo questo. Continua a leggere
Trieste. La resa dei conti | Chiara Mattioni
Trieste. La resa dei conti, di Marina Torossi Tevini (link al sito LA poesia e lo spirito)
Linuccia Saba e il cinema
“Linuccia Saba e il cinema, un sogno negato. Due soggetti ritrovati” con un saggio introduttivo di Marina Silvestri (pubblicato dall’Eut, pagg 109, euro 12) offre agli appassionati di storia e letteratura triestina interessanti squarci su un mondo, quello in cui visse Saba, e su una figura, quella di Linuccia, che per molti aspetti ci fa pensare a certi personaggi di grande fascino e personalità come Anna Fano o Anita Pittoni, personalità femminili concepibili solo nell’ambiente triestino dell’epoca. Continua a leggere
Trieste. La resa dei conti | Antico Caffè San Marco
Bombardamento | Trieste. La resa dei conti
Suonarono le sirene. Abbandonai l’ufficio in fretta e raggiunsi mia moglie: la giornata era splendida. Sulle pendici del colle di San Luigi abitava un’amica comune; l’avremmo raggiunta e in sua compagnia avremmo atteso il segnale del cessato pericolo, forse nel suo giardino o passeggiando al sole nelle vicinanze. Tranquilli, senza alcuna preoccupazione, c’incamminammo verso la verde collina, felici per la chiarezza del cielo azzurro, dell’aria pura. Ma giunti davanti all’Ospedale Maggiore mia moglie si fermò improvvisamente. “Gli aerei!” gridò afferrandomi una mano. Il rombo dei motori si avvicinava con un crescendo pauroso. Guardai verso l’alto: stava passando un bombardiere a bassissima quota. I sibili delle bombe e gli scrosci tremendi si confusero. Afferrai per la vita mia moglie e la spinsi di slancio nel più vicino portone mentre alle sue spalle il manto stradale si copriva di uno strato di vetri frantumati. Una testa umana saldata ancora nel suo elmetto di vigile del rifugio accanto, rotolava lontano. Una bomba aveva colpito lo stabile attiguo a quello in cui ci eravamo rifugiati. Molte donne addossate al muro del portone piangevano e pregavano terrorizzate. I bimbi strillavano tra le braccia delle loro madri; degli uomini fissavano impietriti la volta dell’atrio convinti di vederla crollare da un momento all’altro.
L’ondata era passata: le bombe cadevano ancora, ma lontano. Guardai fuori e pensai di raggiungere uno stabile vicino che mi sembrava più massiccio. Correndo, tenendo sottobraccio mia moglie, m’infilai nell’altro portone. Trovai la stessa scena. Donne e bambini che piangevano, uomini atterriti che aspettavano il peggio. La nostra abitazione distava una cinquantina di metri: desideravamo raggiungerla. I nostri mobili, le suppellettili, il vestiario, tutto in quel momento poteva già essere scomparso sotto un cumulo di macerie.
(…)
Un soffio caldo e acre penetrò nel portone e ci avvolse improvviso: stava passando la seconda ondata. Forse in quel momento possedevamo soltanto ciò che avevamo indosso. Attesi che l’acre nube si dileguasse e guardai verso casa: appariva illesa. La terza ondata ci colse mentre ci precipitavamo nel nostro portone. Altre bombe caddero nelle immediate vicinanze, altri scrosci orrendi, altri sibili si alternarono sopra le nostre teste, poi sembrò fosse calata improvvisa la notte. Poco dopo le sirene segnalarono il cessato pericolo. Salire in casa era inutile; ci avviammo verso piazza Garibaldi. Gli incendi divampavano, le autoambulanze e i mezzi dell’UNPAcorrevano per le strade. Guardavamo incapaci di credere ai nostri occhi. Era successo ciò che di più assurdo, di più crudele ed insensato potesse succedere. Una dimostrazione di palese e criminale barbarie a cui nessuno in città si sarebbe sognato di dover assistere. Tutte le bombe erano state deliberatamente sganciate il più lontano possibile da qualsiasi anche supposto obiettivo militare. Erano state sganciate di proposito sui rioni più popolosi, sulla gente inerme. Nel rione di San Giacomo, quasi interamente abitato dalle famiglie degli operai dei cantieri e del porto, su Cittavecchia, su Barriera e su altri rioni ancora, dove né caserme, né accantonamenti nemici potevano fornire una giustificazione. Anzi, proprio la zona centrale della città, dove i germanici avevano i loro uffici e comandi principali, era stata del tutto risparmiata. Duecentottantasei furono le prime salme estratte dalle macerie fumanti. Molte di queste, ammucchiate sanguinolente sui furgoncini dell’UNPA passarono davanti ai nostri occhi. Erano orribili. Le vesti a brandelli, qualcuna quasi nuda e tutte imbrattate dalla polvere dei calcinacci. “Gangsters dell’aria” si udì qualcuno imprecare e quell’espressione mi sembrò così appropriata che la ripetei. “Vorrei dire a chi ci ha colpito” disse il vescovo dopo le preghiere per i caduti “che queste non sono le imprese della civiltà, che queste azioni sono perfettamente inutili ai fini della guerra e che quindi la coscienza degli uomini le deplora e si alza solenne a chiedere che cessi lo strazio della nostra povera città.” Un numero forse doppio di salme venne estratte dalle macerie pericolanti nei giorni successivi e negli ospedali furono accolti oltre un migliaio di invalidi e di feriti.
Conversazione | Trieste. La resa dei conti
“Almeno in senso materiale devi ammettere che abbiamo fatto molti progressi, – disse Alessandro mentre addentava dell’ottimo prosciutto cotto, quello che solo a Trieste si trova, cotto nella crosta di pane, gustosissimo – quando andavamo alle elementari non avevamo neppure il riscaldamento, mi ricordo che uscire dal letto la mattina era un’impresa. La casa era fredda, la temperatura non superava mai i 17 gradi. Adesso nessuno dei nostri figli vivrebbe in condizioni così poco confortevoli. Sono abituati bene. Li abbiamo viziati.” “Bisognerà vedere fin quando se le potranno permettere tutte le comodità” interloquì Giulia che passava con il primo. “La vita com’era ai tempi della nostra infanzia era molto diversa – intervenne Antonio. – Per tanti aspetti migliore, per altri peggiore. Ad esempio poche donne lavoravano quasi tutte erano casalinghe. Mia madre cucinava e cucinava. Cosa vuoi da mangiare oggi? Mi diceva e mi preparava degli stufati magnifici… Quale donna oggi vivrebbe così?” “Anche mia madre era casalinga – disse Alessandro. – Aveva lasciato il suo lavoro per occuparsi della casa e di me. Si viveva di poco quella volta, in fondo non era neanche una brutta vita.” “Non sono d’accordo – intervenne Giulia. – Non era una bella vita. Quando ero giovane l’idea di diventare come mia madre, una semplice donna di casa, mi sembrava spaventosa. Avevo altre ambizioni, volevo lavorare, avere la mia indipendenza, scalpitavo in una famiglia che mi andava stretta. Per questo ai miei figli ho voluto lasciare libertà di scelta, indipendenza…” “Però tua figlia dopo essersi laureata brillantemente si arrabatta e non è soddisfatta del suo lavoro ed è sempre depressa” mugugnò Antonio. “Non è depressa per il lavoro. Almeno non credo. Comunque con l’altro figlio, Andrea, non abbiamo avuto problemi.” “Dici?” fece meditabondo Antonio. Aveva sempre diffidato di quel figlio troppo zelante e sempre inappuntabile, un figlio che non dava pensiero, che non si lamentava mai, ma che pure non lo persuadeva per la mancanza di sinceri slanci, di errori, di ritorni di fiamma, insomma di umanità.
“Con Andrea non abbiamo mai avuto problemi” ribadì Giulia che aveva sempre avuto un debole per quel figlio così gentile, forse un po’sulle sue, certo, poco presente ma sempre cortese e mai apertamente ostile com’era spesso Carla. Antonio prese in mano un bicchiere. “Forse abbiamo sbagliato tutto. Abbiamo costruito un mondo nuovo, ci sembrava di fare bene, ci sembrava che il mondo dei nostri padri fosse orribile e adesso ci troviamo davanti dei figli che abbiamo educato diversamente da come noi siamo stati educati, che dovrebbero essere felici e invece sono infelici e depressi.” “Però non ci odiano come noi abbiamo odiato i nostri genitori” esclamò la moglie di Antonio. “Chissà, forse ci odiano e non ce lo dicono, oppure non ci odiano solo perché siamo stati bravi a non stringere troppo il cappio. Poi si è inserito il problema lavoro, ma quello è un altro discorso.” I discorsi cominciarono a sovrapporsi. Le parole si inanellavano, complice un buon Merlot Felluga che Antonio aveva messo sul tavolo. “I politici hanno fatto per anni un lavoro clientelare e miope…” “In malafede hanno lasciato che tutto andasse a rotoli…” “Le cose sono più complicate, siamo in un mondo interconnesso, la classe politica non è stata in grado di arginare la deriva.” “Politici di merda.” “Il morale delle generazioni giovani è a terra.” “Non di tutti. Alcuni se la spassano alla grande.” “Ma va!” Le frasi si sovrapponevano, ognuno aveva qualcosa da dire, da ripetere, da ribadire. Giulia lasciò i due uomini a sbraitare e andò a sdraiarsi sul letto. Era stanca. Tutto il giorno al lavoro e poi, da quando Antonio aveva ritrovato l’amico di infanzia, un piatto in più a cena. Aquesto si aggiungeva Carla, sua figlia, che, verso sera, veniva a prendere qualcosa per cena e sua madre, che viveva con una badante, ma che voleva che l’amata figlia passasse da lei almeno una volta al giorno. Lei ci andava volentieri, anche perché preferiva dare un’occhiata, visto che le badanti che si erano susseguite non erano sempre affidabili, ma era un impegno anche quello. E le ore volavano. Ricordava che una badante l’aveva piantata nel momento peggiore con sua madre ammalata. Per qualche settimana non aveva saputo come risolvere, ma aveva tenuto duro. Non voleva mettere sua madre a morire di depressione in una casa di riposo. Ma si sentiva stanca, senza forze. Dalla stanza vicina le arrivavano sfumate le parole dei due uomini. “Leggevo sul giornale – “ diceva Antonio – “che se gli abitanti dei paesi più poveri rimanessero a casa loro nel giro di vent’anni aumenterebbero di quasi 850 milioni, dato che crescono al ritmo spaventoso di 42 milioni l’anno. Non avrebbero le risorse necessarie per vivere. Cazzo pensò Giulia nel dormiveglia. “Spostandosi hanno qualche chances. Però così l’inflazione demografica arriverà da noi. Non cambieranno certo le loro abitudini.” “Qui siamo in pochi. – riprese Alessandro – “ Sembra che sia necessaria una iniezione di nuova umanità.”
“Comunque le ripercussioni sul nostro mondo saranno enormi anche e soprattutto a livello di welfare. Niente rimarrà come prima.” Era Antonio con la sua solita voce sconfortata e un po’roca. “Il problema di base è sempre lo stesso. Si generano molti lavori a bassa professionalità che noi non vogliamo fare. Servono manovalanze e si assumono stranieri. Gli industriali sono contenti perché gli extracomunitari nei loro paesi sono abituati a ricevere dieci volte di meno e accettano qualsiasi condizione. Li pagano poco e licenziano gli italiani che vogliono troppe garanzie.” “O fanno lavorare in nero gli stranieri.” “Meglio che lavorino in nero che non lavorino affatto. Tanti vengono costretti per più di un anno a oziare mentre si fanno le pratiche di riconoscimento e nel frattempo o vengono assoldati dalla malavita o scappano.” “Eh sì. È una situazione complicata.”
Incipit | Trieste la resa dei conti
1
La sosta a Trieste di Alessandro si protraeva più del previsto. Era entrato in punta di piedi in una casa che, nel silenzio calato dopo la morte di sua madre, appariva inquietante. All’inizio aveva cercato di inventariare le condizioni dell’appartamento, ripromettendosi che lo avrebbe venduto e sarebbe ritornato prima possibile a Roma. Ma doveva ammettere che l’idea di staccare il cordone ombelicale che lo univa a Trieste, nonostante da decenni vivesse altrove, lo angosciava. Non è una città, Trieste, da cui ci si separi facilmente. È una città che si può sentire come un cappio sul collo – e così lui in effetti l’aveva sentita negli anni lontani della sua giovinezza – ma che continua a viverti sottopelle. È una città strana, che non si riesce a decifrare, una città che ognuno si porta addosso come un marchio indelebile.
Da quando era entrato nell’appartamento – e aveva cominciato a percorre il corridoio, il lungo balcone che si affacciava sulla città vecchia e s’era messo a guardare il ciuffo d’alberi superstite tra le costruzioni che avevano invaso, negli anni Cinquanta e Sessanta, il rione di san Vito, dopo le distruzioni della guerra, – una strana sensazione s’era impossessata di lui. Certo, negli anni precedenti era venuto molte volte assieme alla sua famiglia a trovare sua madre, in quello stesso terrazzo avevano cenato tutti assieme, serate monotone, che si concludevano sempre con baci e abbracci e la sensazione di avere detto poco o nulla. Ora invece, mentre vagava per le stanze un po’stranito o si sedeva sulla poltrona che era stata di suo padre, aveva la sensazione di star per comprendere qualcosa che gli era sempre sfuggita. Aveva l’impressione che tra le svolte e i non sensi della sua vita ci fosse un filo conduttore, un abbozzo di trama, un nesso che in qualche modo stava per emergere.
Nebbia sulle doline. Così era scritto sulla copertina di un manoscritto che aveva scoperto casualmente nello studio. Lo rigirò per un po’tra le mani. Era la calligrafia di suo padre. La riconosceva. Piccola e curata. Le calligrafie di una volta, piene di personalità e di forza.
Lo scartabellò e vide che parlava di guerra, di quella tragica guerra che aveva trascinato Trieste in un film dell’orrore. Suo padre a suo tempo non aveva mai parlato volentieri di quegli anni, solo accenni brevissimi, qualche episodio isolato, che peraltro Alessandro ascoltava malvolentieri, mentre rincorreva i suoi pensieri e i suoi progetti. Ascoltava, ma non ascoltava davvero, come fanno spesso i giovani quando sentono il racconto di un mondo che li ha preceduti di poco, ma che sembra lontano anni luce. Suo padre alla fine batteva il pugno sulla tavola e sbraitava che tutte le generazioni prima o poi hanno la loro guerra, che tutti devono confrontarsi con la lotta della vita, che lui doveva imparare. Che cosa avrebbe dovuto imparare? Che cos’era la lotta per la vita? Perché la vita avrebbe dovuto essere una lotta? Alessandro aveva sedici anni ed era tutto intento a ritagliarsi i suoi spazi, a mettere tasselli di felicità e di possibile comunicazione, ma si imbatteva nei suoi genitori che incombevano dall’alto della loro insensibilità e della loro forza. Le sue idee di un’esistenza pacifica, basata su rapporti di giustizia e di collaborazione facevano ridere suo padre che continuava ad affermare che in natura il più forte mangia il più debole, che l’uomo è un animale e non si può sottrarre alle regole del gioco, e che lui, Alessandro, nella lotta della vita sarebbe stato un soccombente se non si fosse esercitato a non avere paura di nulla, a dare pugni all’occorrenza e a non tirarsi mai indietro. Alessandro era un ragazzo tranquillo, passava più ore sui libri che in strada e suo padre non cessava mai di prenderlo in giro. Nel campo delle idee poi non si incontravano affatto. Le parole del padre,– inneggianti alla forza e talvolta alla violenza,– erano lontane mille milia dalla sua sensibilità. Era il tempo dei Beatles e dei Rollingston, di quelli che, a torto o a ragione, volevano un mondo di fiori e d’amore. Così per lo più si tappava le orecchie, non ascoltava le critiche paterne, cercava una ragione o l’altra per uscire.
Da Roma telefonò sua moglie chiedendogli se aveva contattato l’agenzia. I tempi erano quelli che erano, non si poteva sperare di vendere subito. Prima si metteva la casa sul mercato, meglio era. Alessandro non aveva nessuna intenzione di fare in fretta. Non aveva voglia di svuotare l’appartamento, distruggere quello che rimaneva della vita di sua madre, chiudere in qualche scatola gli oggetti che avevano abitato indisturbati per tanto tempo quelle stanze. In quella casa, dove sua madre aveva trascorso molti decenni, era ancora presente il rumore dei suoi passi, l’eco della sua voce. Gli oggetti che quotidianamente usava continuavano a parlare della sua vita. Era troppo presto per annientare quelle presenze, far piazza pulita di tutto, distruggere anche il suo fantasma. E poi aveva il manoscritto di suo padre da leggere. Uscì sulla terrazza, si sistemò su una vecchia poltrona di vimini e iniziò.
2
Nei primi mesi dell’anno 1943, quando ero ormai certo di non ricevere alcuna chiamata alle armi, mi arrivò la cartolina precetto che mi ingiungeva di presentarmi subito alla capitaneria di porto. Nell’ufficio di reclutamento trovai una situazione inaspettata. Chi sedeva a quei tavoli non apparteneva alla Regia Marina. Rimasi per un attimo sbigottito. “Vi arruoliamo nella Milizia Marittima di Artiglieria” mi disse un seniore della milizia fascista che presiedeva pomposamente quel consiglio di leva. In un angolo, quasi appartato, sedeva un unico ufficiale che indossava la divisa della Marina. “Non mi arruolo nella Milizia Marittima di Artiglieria” dissi con calma. Non sapevo neanch’io perché avessi risposto così e con tanta freddezza. Non erano tempi in cui si poteva controbattere le parole di un seniore della milizia fascista. L’ufficiale in camicia nera, carico di nastrini, decorazioni e orpelli trasecolò. Un borghese, un semplice ex marinaio, osava rispondere a quel modo? “Non posso accettare questo arruolamento!” ripetei con convinzione. “Ho presentato due domande di arruolamento volontario nella Regia Marina: attendo il richiamo.” “Tu sei una persona colta, hai un diploma, noi ti mandiamo al corso ufficiali della Milizia Marittima,” mi disse un Ufficiale che passava in quel momento e aveva visto non so come la mia pratica. “Voglio indossare la mia divisa da marinaio e non altre” replicai io. “Su una nave ti possono assegnare ai lavori più umili. Sei un uomo anziano.” In effetti avevo quasi trentasette anni ed ero convinto di aver scapolato il richiamo. “Se debbo fare il mio dovere, voglio farlo con il solino sulle spalle” ribadii serio. “Siete testardo e incosciente, basta!” urlò il seniore quasi balbettando per lo sdegno. “Non si sceglie il modo di servire la Patria. Uscite!” Nel corridoio mi sentii mancare. Il pavimento vacillava sotto di me. Dopo un quarto d’ora circa, un milite che prima non avevo notato, forse uno scritturale, si affacciò all’uscio e mi fece cenno di entrare. “Ti diamo un mese di licenza” mi disse l’ufficiale di Marina. “Riceverete l’ordine di raggiungere la vostra destinazione” aggiunse il seniore della milizia. Uscii facendo un lieve cenno col capo, senza alzare il braccio nel saluto romano e guardando soltanto l’ufficiale di Marina che cautamente mi sorrideva. “Un mese. Ottimo. Quante cose possono accadere in un mese” pensai oltrepassando l’uscio. Mi sentivo stranamente leggero.
Arrivò inaspettata anche per me, che pur prevedevo la disfatta, il 25 luglio. Benito Mussolini aveva perduto la guerra ed anche il diritto di governare l’Italia. Il Gran Consiglio del Fascismo, l’organo supremo da lui stesso voluto e ideato, lo aveva destituito ridando al re, Vittorio Emanuele III, la guida della nazione ormai stremata e in piena rovina. Intanto gli anglo-americani già sbarcati in Sicilia inasprivano i loro attacchi. Qualche giorno dopo, aprendo il giornale sopra il mio tavolo di lavoro, appresi che il generale Badoglio aveva formato il nuovo governo. Sulle stesse pagine veniva riportato il primo proclama. Com’ero stato preveggente nella mia incoscienza! Laggiù, nel profondo sud dell’Italia, avrei potuto trovarmi a quell’ora con le armate alleate di fronte e il caos alle spalle.
Iniziai a leggere il proclama: Il dovere degli italiani. Roma 26 luglio 1943 Il Capo del Governo Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, ha diretto alla Nazione il seguente appello: “Italiani! Dopo l’appello di S.M. il Re Imperatore agli Italiani e il mio proclama, ognuno riprenda il suo posto di lavoro e di responsabilità. Non è il momento di abbandonarsi a dimostrazioni che non saranno tollerate. L’ora grave che volge impone ad ognuno serietà, disciplina, patriottismo fatto di dedizione ai supremi interessi della Nazione. Sono vietati gli assembramenti e la forza pubblica ha l’ordine di disperderli inesorabilmente.” A Trieste la tutela dell’ordine pubblico era stata assunta dal generale Alberto Ferrero che disponeva per prima cosa il divieto di circolare, dalle ore 22 alle 5 in gruppi superiori a tre persone. Per le strade intanto i carabinieri, con molto tatto, invitavano i cittadini a togliersi dall’occhiello il distintivo del partito fascista.
3
Alessandro strinse tra le mani il manoscritto. Prima di iniziare la lettura lo aveva scartabellato un po’. Era il diario della lotta partigiana sul Carso triestino, lotta a cui suo padre aveva partecipato. Un diario fitto, centinaia e centinaia di pagine ingiallite dal tempo, il resoconto di quegli anni e il racconto di cos’erano stati quegli anni per suo padre. Si sentiva emozionato, sudato. Forse quelle pagine gli avrebbero consentito di comprendere meglio la sua famiglia, la sua città. Forse avrebbe potuto fare pace con la sua infanzia, con la sua giovinezza piena di insoddisfazioni e di lotte. Quanto si erano scontrati, lui e suo padre, talvolta per futilità, per motivi banali, ma più spesso per questioni di principio, per idee diverse, per una diversa sensibilità. Cosa divide una generazione dall’altra? Alle volte poco, – in fondo le coordinate della vita sono sempre le stesse, – ma qualcosa nell’aria cambia, la sensibilità è diversa, il modo di intendere la vita non è più lo stesso. Spesso si finisce col non capirsi. Oppure ci si rifugia in una comunicazione superficiale che lascia ampi spazi all’autonomia. Si vive da intimi estranei. La famiglia diventa un disperato luogo di non comunicazione, unita da monotoni riti che la fanno sembrare serena. Ma nel suo caso c’era di più. Tra la vita sua e quella di suo padre c’era stata una guerra. Una guerra dura e fratricida. C’era stato, negli anni che avevano preceduto la sua nascita, un massacro immane che aveva sconvolto i paesi dell’Europa. A Trieste, in modo speciale, la guerra aveva lasciato strascichi pesanti. Negli ultimi anni del conflitto e nel dopoguerra la città era stata sede di uno scontro feroce che l’aveva ferita profondamente. I tedeschi vi avevano esteso dal 43 la zona di operazioni dell’alto Adriatico, l’Adriatischer Küstenland, e la zona era direttamente sottoposta all’amministrazione tedesca; Trieste era l’unica città in Italia che avesse un campo di concentramento, la Risiera; inoltre le rivendicazioni degli slavi erano ben note: Trieste doveva far parte della Jugoslavia. Per quelli che auspicavano una Trieste italiana le alternative e le possibilità di azione erano piuttosto risicate. Il CVL, praticamente una prosecuzione del fronte democratico nazionale, a cui suo padre gli aveva raccontato di aver aderito, aveva avuto vita difficile e stentata. Non aveva certamente le possibilità degli altre associazioni partigiane sparse per l’Italia, che godevano dell’appoggio e dei contributi di tutti i partiti, in special modo del partito comunista.
A Trieste i partiti della sinistra erano vicini all’ideologia che voleva Trieste parte della Jugoslavia ed erano organizzati e appoggiati da oltre confine dai partigiani jugoslavi, molto più agguerriti e numerosi dello sparuto gruppo dei triestini, e, oltre a ciò, con supporti internazionali notevoli. La scelta di suo padre di quegli anni non era stata facile né indolore.
Trieste. La resa dei conti | Gianluca Massimini
Trieste. La resa dei conti (Lankenauta)
Trieste. La resa dei conti | Libreria Minerva
Norvegia, tra rorbuer e troll
Trieste. La resa dei conti | Roberto Dedenaro
Trieste. La resa dei conti | Hotel Letterario Victoria
Presentazione Trieste. La resa dei conti, Hotel Letterario Victoria, Trieste 2019
La resa dei Conti a Trieste. Ritratto di tre generazioni dalle guerre ai millenial
Trieste. La resa dei conti
“Cosa rende Trieste diversa dalle altre città? Cos’ha questa città dove gli affetti non si manifestano con l’ingenua esuberanza del resto della penisola, dove gli odi prevalgono sulle amicizie, dove l’ambizione si scontra con una strana indolenza e inettitudine? Se lo chiede un triestino vissuto per molti anni a Roma che, al suo ritorno nella città, scopre attraverso i diari del padre gli anni bui della guerra. Può così conoscere aspetti inediti della storia locale e ripercorrere i suoi rapporti con la famiglia e la città. Il contrastato rapporto padre-figlio è uno dei temi cardine del romanzo. All’educazione permissiva dei nostri giorni si contrappone un tempo in cui i rapporti familiari erano improntati alla lotta. Ma il romanzo è soprattutto l’analisi impietosa di una generazione che durante la giovinezza ha vissuto i sogni del 68 e che poi ha visto i suoi cascami negli decenni successivi trasformarsi in posizioni che hanno paralizzato l’evoluzione della società.”
Alcuni brani
Incipit
Conversazione
Bombardamento
Recensioni
Paolo Marcolin: La resa dei conti a Trieste. Ritratto di tre generazioni dalle guerre ai millenial
Gianluca Massimini: Trieste. La resa dei conti
Roberto Dedenaro: Bilanci al Confine Orientale
Chiara Mattioni: Trieste. La resa dei conti, di Marina Torossi Tevini
Giovanna Mozzillo: Trieste, due anni terribili
Presentazioni
Hotel Letterario Victoria: Roberto Dedenaro, Enzo Santese, Gabriella Valera
Libreria Minerva: Marina Silvestri
Antico Caffè San Marco: Enzo Santese
Tra narrativa, poesia e letteratura di viaggio
Il compito di chi scrive è sempre quello di generare dubbi. Questa è l’unica arma dei poeti, il cui compito, comunque, non è cambiare il mondo. Marina Torossi Tevini, narratrice e poetessa triestina tra pochi mesi in uscita con un nuovo romanzo incentrato sui contrasti generazionali e le derive sociali, si racconta a Valentina Di Cesare in Succedeoggi del maggio 2019 in una sorta di itinerario a ritroso attraverso le sue esperienze letterarie. Continua a leggere
La follia che proviene dal dio è assai più bella di ogni saggezza umana
Platone diceva che l’arte si serve degli uomini anche da poco per realizzarsi. Persone di scarso valore e di discutibili doti umane possono partorire delle opere di grande valore. Questo lo possiamo constatare anche passando in rassegna la vita di alcuni grandi del passato che nell’arte raggiunsero vette insuperate e nella vita furono delle persone di grande banalità. Alcuni furono malvagi o gretti, altri si diedero a tutti quei vizi che nelle loro opere bollavano, altri ebbero vite spericolate e sgangherte, molti morirono suicidi. Continua a leggere
L’anno che Bartolo decise di morire
Il nostro è mondo dell’indifferenza, il mondo dell’adesione superficiale, il mondo della sete di notizie sensazionali, un mondo in cui “le disgrazie sono il nostro passatempo, il pane quotidiano.” “Che saremmo senza le nostre lamentele?” si chiede un personaggio de L’anno che Bartolo decise di morire, romanzo di Valentina Di Cesare da poco edito da Arkadia Continua a leggere
Infiniti"idiani (omaggio a Ferlinghetti)
ho avuto una vita tranquilla
quando sono nata c’era la guerra fredda
e russi e americani erano intenti
a prendersi le misure
per piantar giuste le loro bombe. Continua a leggere
Lettera da Aquileia (7)
Tempi nuovi, dice mia moglie, tempi in cui tutti gli uomini saranno fratelli, tempi in cui si deporranno le armi e la pace sarà garantita dalla non violenza. Porgi l’altra guancia, non replicare all’offerta, offriti indifeso e gli altri non ti assaliranno e, se lo faranno, ne dovranno rendere conto, perché tu sei un figlio di Dio e il tuo regno non è di questa terra. Continua a leggere
Lettera da Aquileia (6)
Ma non ti voglio annoiare. Conosci bene il mondo delle lettere e delle arti, che anche in questi secoli bui mantiene i suoi cultori. Certo non sono sommi, forse non c’è nessuno così pazzo così disperato così assoluto da creare qualche capolavoro, forse siamo corrosi dalla decadenza, non c’è più spazio per la luce. Continua a leggere
Lettera da Aquileia (5)
Il concetto di completa uguaglianza, ti confesso, mi sembra persino strano e ingiusto. Gli uomini sono per natura diversi: alcuni volenterosi e intelligenti, altri scioperati e incapaci; alcuni eccellenti nelle arti, altri nei mestieri manuali; alcuni dotati di facondia, altri portati per i calcoli; alcuni amanti della filosofia altri incapaci di sostenere la più elementare argomentazione. Continua a leggere
Lettera da Aquileia (4)
In primavera dunque vorrei venire a trovarti a Roma. Non sai quanto il clima sia rigido in queste contrade. Quando a Roma si è già nella bella stagione, qui si continua a indossare il mantello, e sembra che la pioggia e il vento non debbano lasciarci mai. Continua a leggere
Lettera da Aquileia (3)
Ma eravamo stati noi, imprudenti, ad esporci ai loro attacchi. Chi può aggredire una società sana, che ha solide basi di governo, che crede in se stessa? Chi può distruggere un impero che ha confini sicuri ed educa i suoi figli al rispetto e al coraggio?
Certo, a un certo punto noi stessi ci trovammo ad aver bisogno dei barbari. I nostri costumi con il benessere si erano rilassati e corrotti. Le nostre donne erano tutte dedite a una vita brillante, i figli erano sempre meno numerosi, i soldati non erano più quelli di un tempo. Continua a leggere
Lettera da Aquileia (2)
Ormai è troppo tardi. Per molti secoli abbiamo sottovalutato il fenomeno, abbiamo pensato che l’impero fosse troppo forte perché la presenza anche massiccia di altri popoli lo facesse crollare. Così ora combattiamo in una situazione di svantaggio. Il secolo scorso gli imperatori hanno sperperato molte sostanze lottando l’uno contro l’altro per il potere. Poi hanno cominciato a tagliare fondi sulla difesa per cercare di far quadrare il bilancio, senza peraltro riuscirci, – la macchina dello stato fa acqua da tutte le parti. Continua a leggere
Lettera da Aquileia
Lettera da Aquileia
Aquileia, 4 novembre 411 d. C
(quarto giorno prima delle None di novembre del 1164 ab Urbe condita)
Caro Marco,
non so se questa mia lettera ti arriverà, sono tempi duri, e la facilità con cui, secoli addietro, si comunicava con i cittadini di tutto l’impero è un lontano ricordo. Le città che sorgono lungo la nostra penisola in buona parte sfuggono al potere di Roma. Popolazioni di varie etnie ormai da tempo si sono insediate entro i confini di quella che un tempo era una compagine vasta e potentissima. Continua a leggere
La necessaria sottrazione
Forse dovremmo imparare a sottrarre, a non accumulare sempre, – sensazioni immagini parole, – ma a selezionare, a togliere di mezzo quello che ci sta trasformando l’anima in un magazzino, con le informazioni accatastate, e a fare ordine. Forse dovremmo imparare a strutturare, a porci dei centri di gravità, a togliere quello che non è significativo, a scegliere con giudizio. Continua a leggere
Se fossi padre di Pietro Spirito
Tra i rapporti che la nostra società occidentale ha ridiscusso e trasformato in modo profondo e sostanziale è il rapporto padre-figlio, rapporto da sempre articolato su una forte conflittualità, mitigata però dall’affetto e da un attaccamento viscerale. Negli ultimi decenni questo rapporto, per il mutare veloce della società e per un certo ammorbidimento dei costumi ha avuto delle trasformazioni su cui hanno appuntato la loro attenzione diversi scrittori, tra cui Pietro Spirito. Continua a leggere
Di sé con gli altri di Stelio Mattioni
Nel suo ultimo libro “Di sé con gli altri” che esce per i tipi della casa editrice Vydia, dopo esser rimasto inedito per più di vent’anni, Stelio Mattioni ritorna alla dimensione favolistica e alla narrazione surreale che avevano connotato la sua produzione migliore, da “Il re ne comanda una” a “Il richiamo di Alma”, abbandonando il tono realistico che aveva caratterizzato alcune opere degli anni 90 (da “Il mondo di Celso” a “Sisina e il lupo”), senza peraltro rinunciare all’attenzione per la società e alla critica marcata nei confronti della sua involuzione che era presente nella produzione di quegli anni. Continua a leggere
Di sé con gli altri
Amatriciana
Giacomo aveva prenotato nel solito ristorante di Trastevere.
“Eccoti qua” disse vedendo arrivare Luca trafelato.
“Scusami, sono sempre in ritardo, sempre di fretta”.
“Per questo combini poco, – rise Giacomo. – Non bisogna mai avere fretta”.
Luca rimase per un po’ pensieroso, poi disse: “Il fatto è che ho tante idee, tante rabbie”.
“Non prendertela, il mondo andrà per la sua strada qualsiasi cosa tu faccia e pensi”. Continua a leggere
Palabra en el mundo
Allegretto andante for a trio (4)
Francesca’s room is bright spacious. Two large windows with embroidered curtains give it the feel of the light-thirsty rooms of northern Europe. It is furnished with a bed and a sofa. On the floor are lots of rugs and cushions. Francesca goes from the room to the adjoining wardrobe, choosing garments and stopping pensively now and again.
From the doorway, Giulio continues to observe her in silence. She looks at him and walks over to stroke him. – When I was little I had a teddy bear with the same name as you. Giulio the bear. He was my favourite. Continua a leggere
Poesia contemporanea 5
al cupo sventolio delle bandiere
un’ansia di parola ch’è cauterio
e insieme il desiderio di cadere.
Pierluigi Cappello Continua a leggere
Allegretto andante for a trio (3)
In her room she rummages through the things she has already packed. Meanwhile, Giulio comes through and leans on the door frame. He silently watches her fiddling with her case, then he comments: – So you’re going tomorrow!
– It’s work, mumbles Francesca tersely, without lifting her head.
Giulio wanders about the room, then runs a hand through his hair and continues, with some embarrassment: – Did I miss an opportunity last night?
Francesca does not spare him the icy words: – Today too, come to that.
Giulio presses her further: – An opportunity that may not arise again?
Francesca smiles: – I don’t know about that.
Giulio looks at her: – I’m struggling to understand your conditions. Continua a leggere
Poesia contemporanea 4
La vita dei bicchieri e delle stelle,
tutta gentile e tutta risplendente
brillante di gas elio o detergente,
è quello che noi siamo e non sappiamo,
bagliore nello spazio quotidiano,
l’immediato presente e il più lontano,
è l’esistenza senza alcun confine
nell’universo, il gesto luminoso
della mano, il raggio che ci sfiora Continua a leggere
Momento (versione romena di Geo Vasile)
Il tempo sa anche smetter di passare
il mondo addormentato sopra gli assi
l’ieri l’oggi il domani
e finalmente è concentrico il cerchio
tutto respira piano l’universo
Ma è solo un momento
la maschera sul volto della storia Continua a leggere
Allegretto andante for a trio (2)
Monica stands up and starts to lay cushions out on the floor. She takes off her shoes, commenting: – I couldn’t resist them when I saw them in the shop window, but they are incredibly uncomfortable. She lies on the floor. Francesca sits down next to her and leans on the back of an armchair. Giulio lies down in the middle. Francesca starts caressing his neck and shoulders.
– That’s bliss, chirrups Giulio. I really needed this massage. Continua a leggere
Poesia contemporanea (3)
Ai giardini pubblici il freddo dell’aria
appoggia la sua parte sbagliata
sulle gemme degli alberi
spuntate fuori stagione, nell’inganno
del sole caldo.
Sotto i rami bassi i merli sono
i ciuffetti neri con una virgola di giallo,
saltano sulle foglie e sull’erba corta. Continua a leggere
La serena indifferenza (versione romena di Geo Vasile)
Aspettavo di trovare
con gli anni
un senso probabile
del non senso
di vivere
frugando tra le rabbie
e le noie
frugando tra la vita
e la mia sempre troppo pallida
idea della vita. Continua a leggere
Allegretto andante for a trio
Giulio rings the bell and waits in front of the entrance to Monica’s apartment block.
Monica comes down (dress with a plunging neckline, high heels, long skirt with a split up the side. Over her dress, a skimpy cape to keep the November fog at bay).
– Always discreetly dressed, you.
– Don’t you like my look?
– I like it. Sometimes I like it a bit too much. But aren’t we going to see Francesca today?
Monica laughs and leads the way. Continua a leggere
Poesia contemporanea 2
In fondo al labirinto quale verità?
Il suono più alto più basso chiamato
silenzio. È lì che il mondo inizia a ruotare
e ci trascina via insetti senza ali
controvento? È uguale per me il punto
da cui cominciare: là ritornerò
di nuovo. Continua a leggere
Un tempo avevamo la coda (Nekeda smo imali rep)
Ana je gledala i prou?avala planski prikaz ku?e koji joj je dala agencija za nekretnine, i prepustila se sanjarenju o detaljima. Ta ku?a, ku?a na selu, je upravo ona koju je oduvek želela. Bila je sigurna u to da ?e i ostali biti oduševljeni. Stigla je ku?i ostavši bez daha, i po?ela da obasipa porodicu bujicom re?i. Zelenilo, svežina leta, miris sela. Nema ni?eg boljeg! Bašta, roštilj, ljuljaška za ?ulija i jedna ku?ica za psa Pipa. Continua a leggere
Poesia contemporanea (1)
Il silenzio scorreva tra lievi
sfarfallamenti del tempo:
ad ogni stanza, perdevo un abito
una gonna, una giacca, una memoria –
dai vetri accostati delle finestre
penetrava una polvere di note – Continua a leggere
Francesca’s Trieste
In autumn, as the days grow dark early, she has never liked being on her own. A flock of birds in a semi-park near her home makes her think of her own departure. What she is leaving and what she will find. She is leaving a semi-relationship with her best friend’s best friend. She smiles. In an age where people jump into bed together and ask each other’s names later, they are among the few to have been seeing each other for months, who want each other, but have never made love. Continua a leggere
The kinder bueno man
A supermarket in Trieste. Rattling trolleys whizz by. The meeting place for souls roving in pursuit of all the unnecessaries indispensable to life. Hands reach out towards shelves in a spasmodic and compulsive quest. Odourless food is everywhere. Oh, for the life of a souq with all its foul smells!, thinks Francesca, pushing her trolley hurriedly. Continua a leggere
Commemorazione 70^ morte Umberto Saba
Meneghello: solo donne
La nostalgia degli altri di Federica Manzon
Spiazza il lettore Federica Manzon con il suo ultimo romanzo La nostalgia degli altri (Feltrinelli 2017, pp 210, € 16) che racconta una storia di amicizia e di amore che coinvolge due giovani, Lizzie e Adrian, e un amico comune che funge da io narrante e testimone. Ma è una storia d’amore? Sembra piuttosto una storia di potere. O ancor meglio una storia di svelamento di una fantomatica verità. E la verità è una verità paradossale.
Ma andiamo per gradi. Lizzie è un ragazza sicura di sé, proviene dal nord est, – sullo sfondo troviamo una città di Trieste con i suoi paradisi un po’ inquietanti e i suoi angoli appartati o chiari – e lavora in un’altra città, in un fantomatico Aquario, luogo dove si progetta intrattenimento e giochi vari per una società annoiata del reale. Continua a leggere
Rotte d’Europa, FIDAPA Storica TRIESTE
La letteratura in pericolo di Tzvetan Todorov
Della gran quantità di libri che l’oggi inquieto produce che cosa rimarrà? È una domanda che viene da porsi dato che ogni epoca ha fatto le sue cernite, le sue selezioni. Ma la selezione sui libri di oggi su quali basi si fonderà?
Chi riuscirà a valutarne la qualità? Forse sarà una selezione legata alla quantità, alla presenza, più che alla qualità. Forse rimarranno gli autori più scafati, quelli che si sanno vendere meglio e un giusto criterio di selezione sarà pura utopia. Che ne sarà del futuro? Se lo chiede anche Todorov nel suo bel saggio La letteratura in pericolo che condanna lo spostamento dell’attenzione dal senso globale che un’opera trasmette a dettagli tecnici, abilità letterarie, giochi e virtuosismi che non rendono di necessità un libro una grande opera. Continua a leggere
Rotte d’Europa, Poesia e Solidarietà
Lina Galli, una poetessa da ricordare
La memoria ha la vita corta. Incalzati dalle novità in ogni campo si tende presto a dimenticare il passato. A Trieste una poetessa che negli anni Settanta e Ottanta era molto nota oggi è pressoché dimenticata: Lina Galli.
Ebbi modo di conoscerla negli anni Novanta quando lei era molto vecchia, aveva superato la novantina, e io avevo appena pubblicato il mio primo libro di poesie. Mi sembrò una persona molto entusiasta della poesia e della vita e questo mi piacque. Continua a leggere
InterPEN Book n. 3-2016
Tre poesie di Gabriella Valera
In un tempo ormai lontano
hai lasciato la tua maschera
restando senza volto:
il vuoto
di un volto che non ha
memoria né segni
In un tempo ormai lontano
hai lasciato la tua maschera Continua a leggere
Funamboli
mancano gli appigli qualche volta
per questo funambolico contatto
tu volteggi
e io tento lo slancio,
ma la fune esile sui bordi
di libellule e di parole scadute
geme impacciata
e ci consiglia
altro Continua a leggere
Intervista a Marina Torossi Tevini di Matea Petrovi?
Intervista pubblicata nella tesi di laurea di Matea Petrovi? su “Donne senza volto” (Zara 2015)
1. Quando ha cominciato a scrivere? Quando è nata la sua passione per la scrittura?
Ho scritto da sempre anche perché nella mia famiglia sia mio padre, Lino Torossi, – che lasciò alcuni libri inediti, che in parte ho pubblicato – sia sua sorella, Eleonora Torossi, – autrice di alcuni romanzi per l’infanzia pubblicati nei lontani anni 30, lo facevano. L’accesso però alla prima pubblicazione è avvenuto relativamente tardi.
2. Qual è la sua poetica e come descriverebbe se stessa come poeta?
Una poetica vera e propria l’ho definita solo nel corso della stesura del secondo volume di poesie, “L’unicorno”, uscito nel 1997 con delle indicazioni di poetica che pubblicai come premessa al libro con il titolo di “Istruzioni, intenzioni (e presunzioni)” che riporto in parte: “Che cosa possono fare i poeti in questo mondo, terra desolata, da cui gli dei sono fuggiti, in cui siamo quotidianamente sommersi da parole inautentiche ed effimere? Continua a leggere
Quattro poesie di Marina Raccanelli
notti di solstizio ambiguo e lune sfatte,
al franare dei sensi rispondono
segnali di tarlo –
piegata nel vano della finestra
trema la tua figura:
s’apre alla nebbia notturna il vetro
un ricordo ti avvolge, ridi
stelle di neve al suolo
cadono polverizzate Continua a leggere
Rileggendo l’epistolario di Cesare Pavese
Al suicidio di Pavese è stato dato sempre molto spazio e molti hanno cercato di spiegarlo con motivazioni legate alla sua insoddisfacente vita amorosa o a disturbi di natura sessuale. Per capire l’animo di Cesare Pavese e il percorso che lo portò al suicidio sono di indubbia utilità l’epistolario e il diario Il mestiere di vivere. Sono loro a farci luce sui meandri più oscuri e meno pubblici del suo pensiero e del suo percorso umano. Nel ricchissimo epistolario viene spontaneo andare alla ricerca di quell’incrinatura dell’animo che lo portò a scegliere la morte. Ci sono nelle lettere, e in particolare nelle lettere dell’ultimo periodo, molte interessanti indicazioni; particolari inquietanti che, scritti appena qualche mese e in alcuni casi qualche giorno prima del suicidio, inquietano ancora di più. Continua a leggere
La Patagonia
Da Buenos Aires scendiamo alla volta della penisola di Valdes nella parte alta della Patagonia argentina.
Lì una guida dalla testa simile a quella di un guanaco ci porta a visitare la vasta penisola dove ci sono colonie sterminate di pinguini e di leoni marini. Almeno sessantasei mila pinguini e duemila leoni marini. C’è anche qualche sporadico elefante marino. La strada percorre l’interno della landa per duecento chilometri, duecento chilometri di strada sterrata che ci consentono di vedere molti animali allo stato brado (guanachi, lepri, armadilli). Poi facciamo sosta in un’Estancia (una sorta di agriturismo) in cui si allevano gigantesche pecore e si arrostiscono le carni a riverbero secondo l’uso argentino. Continua a leggere
Ho giù un aereo al cancello (poesie di Giorgio Maimone)
Ho giù un aereo al cancello che mi aspetta
Ho nuove rotte e un mazzo di carte
Se trovo spade o se trovo bastoni
So che non mi pensi e non parti con me.
Ho un traghetto alla porta che suona
La sirena canta un motivetto per me,
giro una carta e trovo fante di coppe,
forse mi pensi ed hai un biglietto per me. Continua a leggere
Pace violenza e letteratura noir
È diffusa la convinzione che la nostra società sia una società violenta e che la letteratura noir in tutte le sue varianti, fino all’estremo del polar, sia il genere letterario che meglio la rappresenti; ne sia insomma la rielaborazione artistica più adatta. Non ne sono del tutto convinta. Penso che la Londra in cui viveva Shakespeare fosse una città più violenta, una città in cui si poteva incontrare la morte con maggior facilità che nelle nostre metropoli. Continua a leggere
La Polinesia: Tahiti, Bora Bora e Pago Pago
Le previsioni del tempo non sono molto favorevoli quando sbarchiamo a Papeete. Se qui la variabilità è la regola, la stagione delle piogge, che corrisponde alla loro estate, regala un orrendo clima caldo e umidità in abbondanza, favorevole al proliferare delle zanzare. Muniti di tutti i possibili presidi ci accingiamo a scendere per visitare l’isola. Tahiti è parecchio occidentalizzata – d’altronde la presenza francese risale alla fine del Ottocento – ma ha anche parecchio colore locale come un vastissimo mercato dove si vendono frutta e prodotti del luogo, piccolo artigianato, conchiglie, le mitiche coroncine di fiori. Continua a leggere
Isola di Pasqua – Easter Insland
Dopo 4 giorni di navigazione dalla costa del Cile arriviamo nella rada di Rapa Nui. La vediamo emergere sulla destra dal nostro balcone e fotografiamo la classica alba con corredo di qualche Moai minore tra i tanti che sono disseminati sull’isola. Continua a leggere
Il Sosia da L’Occidente e parole
La crisi tocca soprattutto noi, ventenni e trentenni, noi plasmati da una società dei consumi noi allevati come consumer-addicted, diceva il Sosia – lo avevamo soprannominato così perché nel suo look ricordava Robert Pattinson, quello di Twilight, – noi tagliati improvvisamente fuori dal sogno di quel miglioramento sociale che hanno sperimentato le generazioni precedenti. Siamo i primi ad essere esclusi. Via, non c’è più posto. Il mondo è saturo e tu sei superfluo. Non è allegro, che dite? Continua a leggere
Bicchieri di plastica
In quarant’anni il nostro impatto negativo sulla biosfera è triplicato, e non smette di crescere. Sembra impossibile. In fondo, non mangiamo il triplo, non viviamo il triplo, non abbiamo che parzialmente migliorato la qualità della nostra vita e in certi settori si vive per certi aspetti peggio. E allora? Come mai? Continua a leggere
Marinare la vita di Claudio Magris
Giornata grigia. Nebbia sottile che sloga i contorno delle cose. Trieste era famosa per la bora ma ultimamente d’inverno qui dominano pioggia e nebbia. L’appuntamento con Claudio Magris è al Caffè San Marco, sotto le maschere che lo scrittore ha immortalato in Microcosmi, l’opera che vinse nel 1997 il premio Strega. “Non è male riempire i fogli sotto le maschere che ridacchiano e tra l’indifferenza della gente seduta intorno. Continua a leggere
Hai una bocca di cartone
Hai una bocca di cartone
in una pioggia notturna arrivasti.
dicevi La luna ha spiegazzato il mio nome
le unghie hanno scavato il mio ventre
e sono affondato in una nave carica di neve e di sogni Continua a leggere
La bambina in rosso di Antonio della Rocca. Recensione di Juan Octavio Prenz
Arduo compito, dal quale lo vediamo uscire vittorioso, è quello che si è imposto Della Rocca, affrontando la scrittura di un romanzo basato sulla vita di Egon Schiele.
Romanzo familiare? Romanzo sull’arte? Romanzo sul commercio dell’arte? Tutto questo e molto altro s’intreccia in un’intricata trama vitale, risolta con una tecnica narrativa chiara ed efficace. Continua a leggere