La letteratura in pericolo di Tzvetan Todorov

Della gran quantità di libri che l’oggi inquieto produce che cosa rimarrà? È una domanda che viene da porsi dato che ogni epoca ha fatto le sue cernite, le sue selezioni. Ma la selezione sui libri di oggi su quali basi si fonderà?
Chi riuscirà a valutarne la qualità? Forse sarà una selezione legata alla quantità, alla presenza, più che alla qualità. Forse rimarranno gli autori più scafati, quelli che si sanno vendere meglio e un giusto criterio di selezione sarà pura utopia. Che ne sarà del futuro? Se lo chiede anche Todorov nel suo bel saggio La letteratura in pericolo che condanna lo spostamento dell’attenzione dal senso globale che un’opera trasmette a dettagli tecnici, abilità letterarie, giochi e virtuosismi che non rendono di necessità un libro una grande opera.
E questo, sostiene Todorov, nasce anche da come i programmi sono impostati nella scuola – lo studioso si riferisce alla scuola francese, ma molti aspetti sono comuni nelle scuole europee – dove spesso vengono imposti programmi che privilegiano uno studio analitico, una minuziosa disamina di quanto la critica ha prodotto riguardo ai capolavori del passato piuttosto che la lettura degli stessi, incentrando il lavoro quasi solamente su elementi tecnici – i registri di linguaggio, le figure retoriche, la focalizzazione interna ed esterna – e trascurando gli elementi legati al pensiero dell’autore, al suo messaggio, al senso complessivo della sua opera.
La letteratura non è mero esercizio retorico ma esperienza di vita, arricchimento e ampliamento dei confini dell’esistente, come sostiene giustamente Claudio Magris, perché esplora le zone d’ombra, le riflette, ce le fa conoscere nei loro paradossi e nella loro complessità.
Il suo compito è di arricchirci di nuove esperienze, di consentirci di gettare il nostro sguardo in campi complessi che per lo più sfuggono alla nostra esperienza diretta.
Ma molto spesso l’abitudine che la scuola impone a una lettura troppo rivolta alla forma, la tendenza degli scrittori di oggi a concentrare l’attenzione su di sé e l’interesse indirizzato più verso gli autori contemporanei che verso i classici fanno sì che la passione letteraria scarseggi nelle giovani generazioni.
Non la passione dello scrivere che anzi – ahimé – abbonda, ma la passione per la lettura, la passione di conoscere attraverso i libri aspetti dell’animo umano e ambiti del passato e del presente che altrimenti ci rimarrebbero preclusi.
La concezione riduttiva della letteratura che si respira nelle aule scolastiche e universitarie – osserva Todorov – fa sì che gli studenti non interiorizzino quello che hanno appreso, non si educhino attraverso la conoscenza umanistica e diventino o dei frustrati aspiranti cattivi insegnanti oppure delle persone poco interessate ai libri e alla cultura nel senso più ampio del termine. Grave danno nel suo complesso. Danno davvero inestimabile se pensiamo che i giovani rappresentano sempre il futuro.
E anche quelli tra loro che per vari motivi – ambizione, vanità, noia, presunzione – vorranno dire la loro e diventare scrittori, spesso cadranno in un desolato solipsismo o nel nichilismo, mali fondamentali della nostra letteratura perché, come osserva Todorov “anziché vedere nella letteratura un discorso sul mondo, la tendenza è a non voler trasmettere alcunché… Il testo può trasmettere una sola verità, che la verità non esiste o resterà comunque inaccessibile”.
La letteratura quindi diventa autoreferenziale, parla solo di sé, non dà messaggi per ipotesi e così nichilismo e formalismo vanno a braccetto in un penoso esito. In un delirio di autoreferenzialità gli scrittori fanno un’unica eccezione a questo nulla parlando a profusione di un sé autentico o falso, ma comunque di un proprio mondo e descrivendone minuziosamente le più minute emozioni, le più futili reminiscenze, le più insignificanti esperienze sessuali.
Non cambia molto se l’autore, più smaliziato, non narra di sé ma si cimenta nella recente variante dell’autofiction godendo di una supposta indipendenza di invenzione, ma rimanendo sempre assorbito nell’unico piacere perverso della reductio dell’universo intero al proprio sé.
Mentre questi mali imperversano nella letteratura, la critica cosa fa?
Ai critici dovrebbe essere demandato di porre degli argini, di mettere dei paletti e soprattutto di definire il valore di un’opera. Ma in quest’epoca dove i dettami dell’economia penetrano in ogni aspetto della vita questo raramente succede e domina “l’idolatria del bestseller”.
Certo succedeva anche in passato che libri di valore mediocre vendessero molto di più che libri di alta qualità ma “ciò, – come osserva giustamente Claudio Magris, – non induceva nessuno ad attribuir loro un valore estetico o un significato epocale superiore”. Ora invece si assiste a un’equazione inaccettabile tra successo e valore.
Questa è una situazione culturalmente piuttosto discutibile. “Anche nel passato c’erano autori, – sono sempre parole di Magris, – di valore come Dickens o Tolstoj molto noti, e altri di grande spessore che erano letture di nicchia, ma nessuno – e soprattutto nessun critico – si sognava di dire che libri popolari, ma di mero intrattenimento, fossero culturalmente significativi. Ora sembra invece che si sia persa la capacità di distinguere e di riconoscere la qualità e ci troviamo affondati in una quantità dove merito e demerito, valore e non valore, spesso si confondono”.
Costruire un solido bagaglio culturale che in qualche modo ci radichi a un contesto che non sia limitato a quest’oggi svolazzante e ondivago sarebbe un bene. Mai come oggi se n’è sentita la necessità, visto che ciascuno di noi è chiamato a definire la propria identità con maggiore libertà che nel passato e per ciò stesso con maggiore difficoltà e inquietudine.
I riferimenti simbolici che sostanziavano le società del passato sono stati polverizzati dalle velocissime trasformazioni che hanno percorso gli ultimi decenni nelle società occidentali: mutamenti demografici, globalizzazione economica, maggiore mobilità sociale, nuove tecnologie. Tutto questo impone all’individuo di collocarsi in modo più autonomo e critico nei confronti del mondo.
Sono proprio le radici culturali a definire l’identità di una persona e, se un percorso serio venisse fatto dalla scuola e dal mondo culturale in questo senso, l’architettura del sé, questa nuova costruzione di un individuo, liberato sì da molte pastoie del passato ma anche costretto a un maggior lavoro di definizione del proprio io, sarebbe agevolata.
La lettura – non come evasione dal reale, ma come guida a una miglior lettura della realtà nei suoi significati più profondi – migliorerebbe di molto lo spessore dei giovani e non giovani che spesso si sentono inquieti e frastornati da un oggi troppo vorticoso.
Il passato ha in sé elementi di stabilità e la sua naturale lentezza, il suo trasformarsi con i tempi lunghi della storia apporta un po’ di serena consapevolezza alle giovani menti e la certezza che tutto muta certamente, ma non in modo così radicale e frastornante come talvolta siamo indotti ad arte a pensare, ci consentirebbe di educare le nuove generazioni a un maggior equilibrio.

m.t. t. pubblicato su Stilos 2011