Dopo 4 giorni di navigazione dalla costa del Cile arriviamo nella rada di Rapa Nui. La vediamo emergere sulla destra dal nostro balcone e fotografiamo la classica alba con corredo di qualche Moai minore tra i tanti che sono disseminati sull’isola.
È stata una terra sfortunata Pasqua. Colonizzata forse dai Polinesiani, alcuni dicono dai cileni, dopo un periodo abbastanza fiorente conobbe una profonda regressione demografica intorno al 1600 che portò la popolazione a soli 3000 abitanti rispetto ai 15000 del secolo prima. Nel 1877 arrivarono alla punta minima di 111 abitanti. Praticamente un condominio. Come mai? La prima immane decimazione fu dovuta alla loro imprevidenza. La terra era coperta di alberi, era una terra ricca e, visto il clima, rigogliosa e fertile, ma loro la disboscarono per creare superfici di rotolamento per trascinare i Moai. Questo durò a lungo finché la stessa popolazione che doveva provvedere al trasporto e alla deforestazione insorse contro i capi e a quel tempo risale l’abbattimento di alcuni Moai come possiamo vedere in alcuni siti.
Teste staccate cappelli rotondi a terra e busti proni. Un ammasso di queste pietre le possiamo vedere a Vinapu, un sito interessante anche perché si può con facilità osservare che il modo di tagliare la pietra è simile a quello utilizzato a Cuzco (questo farebbe pensare a una colonizzazione proveniente dall’America meridionale anziché dall’Indonesia). Un dubbio ancora irresoluto.
La popolazione comunque ha tratti somatici decisamente polinesiani e polinesiano è anche il loro sfrenato amore per il mare. Li vediamo nuotare impavidamente lontanissimi dalla riva senza il minimo timore in un oceano blu cobalto infestato da squali.
Anche nella guida sono decisamente sportivi e il nostro autista che ci dà di gas per superare sterrati e salite a un certo punto manda k.o. il pulmino. Ci guardiamo un po’ preoccupati e ancora più ci preoccupiamo quando sentiamo un acre odore di fumo. Sulle prime pensiamo venga dal motore e io impaurita guadagno l’uscita un po’ scorrettamente scavalcando, non senza difficoltà perché il pulmino è pieno zeppo, un discreto numero di persone. Invece il fumo si rivela provenire da un incendio nelle vicinanze da cui si vedono salire alte fiamme. Medito una fuga in discesa ma l’autista mi rassicura con un serafico “No problem No problem”, sostiene che è una cosa abituale, e quanto al pulmino dobbiamo solo aspettare, presto ne arriverà un altro.
In questi paesi aspettare è la regola e la guida è molto meravigliata che io non apprezzi nell’attesa le sue spiegazioni sul ben di Dio che ci aspetta: i Moai in fila a Ahu Ahivi, Orongo il villaggio in cui è nata la leggenda dell’uomo uccello, il vulcano Rano Kau e altro. Quando Dio vuole ci arriva un funzionante pulmino e supplico il guidatore di fare retromarcia e di invertire l’ordine della visita visto che passare in mezzo al fuoco, anche se assolutamente innocuo come afferma l’indigeno, non rientra tra le mie passioni.
Il paesaggio che si gode dal vulcano Rano Kau di cui percorriamo la sommità del cratere è veramente eccezionale.
Da un lato il villaggio di Orongo con le sue case trogloditiche, il fondo del cratere occupato parzialmente da un lago e una palude di canne e in lontananza il blu cobalto dell’oceano con gli isolotti popolati da uccelli il cui uovo deposto dagli uccelli sugli isolotti aguzzi doveva, nell’antica tradizione del luogo, essere preso e portato – legato sulla testa – durante una non breve nuotata nelle acque turbolenze del Pacifico.
L’unico paese dell’isola, Hanga Roa, è un paese di poco più di 3000 abitanti che costituiscono peraltro la complessiva popolazione di Pasqua perché nella parte rimanente non ce ne sono più di un centinaio. Ci sono negozietti dove acquistiamo alcuni souvenir, qualche ristorante, un piccolo market, una spiaggia minuscola dove gli abitanti del luogo si gettano nelle onde impavidi e c’è anche una specie di piscina ritagliata nel mare dove si può nuotare tranquilli in compagnia di grandi esemplari di tartaruga.
Gli abitanti del luogo che come dicevo hanno una grande confidenza con l’oceano, si spingono anche con delle tavole di legno pagaiando vicino alla nostra nave al largo, dove siamo alla fonda, e fanno il giro e talvolta si tuffano per farsi una nuotatina.
Dopo un giorno di navigazione passiamo vicino all’isola di Pitcairn famosa per aver ospitato parte degli ammutinati del Bounty. Una storia non molto edificante. I marinai stanchi di un capitano malvagio si impossessarono delle armi e lo costrinsero a imbarcarsi con altri 16 in una scialuppa di 7 metri. Gli lasciarono un sestante e un orologio e lui riuscì a mettersi in salvo e a ritornare in Occidente. Gli ammutinati, che non volevano essere scoperti, si spostarono da Tahiti che era sulle rotte inglesi a Pitcairn, che nessuno conosceva, e che era anche mal segnata sulle carte nautiche dell’epoca. Avevano tutta per loro una terra vergine ricca d’acqua e di frutta e si erano portati dietro alcune donne di Tahiti da cui ebbero numerosi figli. Poteva sembrare una condizione di vita idilliaca e invece in breve si decimarono e si diedero all’alcool. Pare che per l’ uomo non sia fatto il paradiso. Potevano godersi quella meraviglia ma la felicità talvolta può essere ingombrante. Tra gli ammutinati rimase solo uno un certo John Adams, gli altri si uccisero tra loro.
Dopo Pitcairn nella nostra navigazione solitaria vediamo qualche raro atollo e passiamo alla distanza di 17 miglia da Moruroa nell’arcipelago delle Tuamotu, isola sciagurata dove i francesi tra il 1966 e il 1996 fecero 138 esplosioni nucleari all’interno del vulcano estinto la cui radice sprofonda nel mare ben 3000 metri.