Generazioni

“Guarda un po’qua” disse Antonio mettendogli davanti un giornale che aveva tenuto in serbo per mostrarlo all’amico: “Questo articolo mi ha aperto gli occhi”.
“Di che cosa si tratta? chiese Alessandro consegnano il suo piatto a Giulia perché ci posasse sopra l’insalata.
“Tante volte mi sono chiesto perché noi siamo sempre stati in dubbio su quello che facevamo”.
“In che senso?”
“La nostra mi è sempre sembrata una generazione che ha avuto molti dubbi. Sul mondo, sulla giustizia, sui valori, su di sé, in primo luogo”.
“ Non ho capito di cosa parli, ma penso che avere dubbi sia positivo,– disse Alessandro – ho sempre paura di quelli che non ne hanno. Sono capaci delle maggiori castronerie”.
“Certo, il dubbio è un bene, ma anche un male. Alle volte bisogna tagliare la testa al toro e andare avanti – sentenziò Antonio. – Però io intendevo qualcosa di diverso. Leggi qua”. E gli mise sotto gli occhi un pezzo del giornale che aveva messo in serbo per l’amico, ma non lo lasciò neppure scorrere con gli occhi la pagina e gli chiese impaziente: “Tu sei stato felice nella tua infanzia?”
Alessandro rise. “Invece di lasciarmi vedere di cosa si tratta continui a farmi domande. Comunque no, non lo sono stato affatto, e penso che nessuno della nostra generazione lo sia stato”.
“Appunto. Proprio così. E così dice anche l’articolo. Uno studio ha assodato che quelli della nostra generazione considerano gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza come i peggiori della loro vita”.
“Proprio così. Ed è strano. Di solito uno mitizza la sua infanzia, la considera un periodo magico, ritiene di esser stato felice solo allora. Per noi non è stato così. Gli anni migliori sono venuti dopo, quando finalmente abbiamo potuto creare un nostro mondo. Ma cosa dice l’articolo? Me lo lasci leggere o mi riassumi cosa sostiene esattamente?”
“Si tratta dello studio di un certo Jeremy Rifkin che ha paragonato generazioni diverse. Sostiene che negli anni Sessanta l’autostima dei ragazzi era bassissima. La nostra era una giovinezza sfigata. Poi il massimo dell’autostima si è avuta invece negli adolescenti degli anni Ottanta. Pare che quelli si sentissero speciali. E felici”.
“I nostri figli…– mormorò sovrappensiero Giulia. – E poi guarda…”
“Otto ragazzi su dieci negli anni Ottanta, – continuò Antonio, – secondo questo studio si sentivano importanti, capiti, amati”.
“Buon per loro” commentò Alessandro.
“No, non è così – riprese Antonio – perché secondo lo studioso sarebbero cresciuti senza il paracadute dell’autoironia e dell’autocritica e col tempo sarebbero diventati sempre meno tolleranti, meno permeabili alle critiche, meno abituati ad affrontare i fallimenti”.
“Cazzo va giù duro il tuo studioso. Che stroncatura di una generazione!” commentò Alessandro.
“Mi sembra eccessivo – brontolò Giulia – Non tutti sono così”.
“È uno studio scientifico” disse secco Antonio, sventolando il giornale.
“Ma le persone sono diverse. Insomma non mi piacciono le generalizzazioni” ribadì Giulia.
“Forse però spiega molte cose” commentò Alessandro dopo qualche attimo di silenzio, regalando qualche carezza la cane che, come al solito, si era rannicchiato tra le sue gambe.
“Cosa cosa?” fece Giulia un po’ seccata.
“Intanto personalmente mi ritrovo nell’analisi della scarsa felicità degli anni Sessanta”.
“Quanto a questo, anch’io – confermò Giulia. – Le mie obiezioni riguardavano gli anni Ottanta”.
“Non ho esperienza diretta. Mio figlio Luca è troppo giovane per fare testo. Lui appartiene alla generazione successiva. I figli di mia moglie, gli olandesi, poi sono un caso a sé. Li ho sempre considerati diversi e strani, ma pensavo che questo fosse dovuto al fatto che appartenevano a una razza nordica. Sono persone equilibrate, molto concrete e limitate. Sicuri di sé fino alla nausea, anche perché hanno la famiglia del padre molto benestante alle spalle. Persone spregiudicate per certi aspetti e poco sensibili. Mille miglia lontane da me. Comunque dai venticinque anni in poi vivono in Olanda, hanno successo nel lavoro, così dice mia moglie. Io li vedo poco. Potrebbero essere un esempio di quanto diceva l’articolo…”
“Secondo me – disse Antonio serio – i nostri figli rientrano benissimo nel discorso”.
“Ma no! Cosa dici?! I nostri figli? si inalberò Giulia.
“Forse tu non vuoi guardare la realtà in faccia”.
“Mi sembra di essere sempre stata obiettiva”.
“E invece spesso non lo sei”.
“Ragazzi, lasciamo perdere – tagliò corto Alessandro. – È inutile discutere. Solo il futuro ci farà capire come stanno le cose. Allora potremo tirare le somme e vedere cos’abbiamo seminato”.
Giulia lo guardò con aria pensierosa poi concluse “ Certo. È meglio se finiamo di mangiare”.

dal mio “Trieste. La resa dei conti” Campanotto, 2019