Lettera da Aquileia (4)

In primavera dunque vorrei venire a trovarti a Roma. Non sai quanto il clima sia rigido in queste contrade. Quando a Roma si è già nella bella stagione, qui si continua a indossare il mantello, e sembra che la pioggia e il vento non debbano lasciarci mai. Mi piacerebbe inebriarmi della primavera romana, dell’aria limpida, del venticello che cala dai colli, ma soprattutto mi piacerebbe frequentare qualche uomo di cultura, percorrere in tua compagnia qualche pista di studi e di pensiero, acquistare dei manoscritti da portare ad Aquileia.
Ma che fine avranno fatto dopo le ultime violenze molti manoscritti? È strano come la violenza dei popoli colpisca spesso i luoghi del pensiero, i luoghi della memoria e della consapevolezza. Forse si vuole spogliare il nemico del suo passato, del suo pensiero, della sua identità per poter più facilmente prendere possesso dei suoi territori…
Nelle lunghe notti in cui veglio mi chiedo se la nostra cultura sarà spazzata via, se inizierà un lungo periodo di buio. Ci saranno cittadini romani tra un secolo o due? Ci sarà qualcuno che conoscerà gli scritti di Cicerone o la filosofia greca tra duecento o trecento anni? Chi lo può sapere, caro Marco. Già adesso la razionalità di cui i greci furono paladini lascia perplessi i tanti seguaci del misticismo orientale.
Intanto le scorrerie e gli orrori lungo la penisola fino a Roma non si contano, abbiamo perduto le regioni più importanti che ci davano immense ricchezze in prodotti naturali, la provincia d’Africa, le Gallie, l’Aquitania. Il confine del Reno è sempre più minacciato. Anche il sistema degli stati cuscinetto non ha funzionato a dovere. Ma noi fingiamo di non sapere che degli alleati ci si può fidare fino a un certo punto e che il tradimento e la ribellione sono all’ordine del giorno.
E soprattutto abbiamo perduto quella coesione e quella forza che ci avevano resi nel passato inattaccabili per cedere a un’insana e scriteriata smilitarizzazione che ci espone agli orrori che abbiamo visto. L’errore è stato illudersi che quella pax, durata quasi un secolo, forse per sempre. Per sempre… che follia! Ci è sembrata stoltamente un punto d’arrivo, un momento di non ritorno.
Ma nulla è scontato nella vicenda umana… Forse il nostro grande impero che dai confini estremi della Spagna si estendeva fino in profondità nell’Asia e abbracciava le regioni settentrionali dell’Africa e gran parte dell’Europa era arrivato alla sua maturità. Ci aspettava inevitabilmente la decadenza, come è accaduto ad altri popoli… Ma cosa dico? Forse semplicemente abbiamo preso decisioni sbagliate, abbiamo lasciato che gli imperatori o aspiranti tali combattessero tra di loro, abbiamo scarsamente motivato i giovani, abbiamo lasciato che dilagasse la corruzione, insomma nei secoli di maggior benessere ci siamo giocati il futuro.
E ora, caro Marco, siamo inchiodati qui. Anche le merci non circolano molto, si consuma solo quello che la terra produce. Mangio un cibo che farebbe inorridire i nostri amici, specie Julio che era un buongustaio. Mia moglie prepara delle gallette di mais con cui accompagna la selvaggina del luogo, talvolta fa con il latte una sorta di budino sostanzioso e poco saporito accompagnato da involtini di mele. Per fortuna da queste parti si beve un ottimo vino, il Pucino, che già la moglie di Augusto apprezzava.
Le mie notti insonni, le mie lunghe passeggiate, le ore nel mio studio sono la parte migliore della mia vita. Quando partecipo alla vita politica, – e devo recitare la mia parte, – tutti dobbiamo recitare il nostro ruolo, e così discutiamo, facciamo finta di impegnarci a risolvere i mille insolubili problemi, – mi sento impotente e inutile. Il tempo dedicato al negotium mi sta diventando insopportabile. Da quando l’imperatore, con il mio consenso, certo, – ma ero giovane allora, – mi mandò ad Aquileia, concedendomi una carica che all’epoca mi diede molta gioia, ho dovuto partecipare all’amministrazione della città. Non ne ho tratto molte soddisfazioni. Forse non sono adatto a questi impegni.
Talvolta mi lamento con mia moglie dicendo che i nostri tempi sono bui, ma lei sorride e dice che per ipotesi la vita non è mai una passeggiata, è una prova per un’esistenza ben più lunga e importante che condurremo nei cieli.
Scuoto il capo. Come siamo diversi. Lei è serena, io invece penso a come saremo travolti, penso a che cosa si potrebbe fare per evitarlo. La grandezza di Roma, la meravigliosa pax del secondo secolo era frutto della nostra prudenza, della nostra forza. Avevamo eserciti che tutto il mondo temeva. I nostri soldati avevano la consapevolezza di stare combattendo per permettere a tanti di vivere sicuri all’interno di confini sterminati e protetti. Certo, c’era un benessere notevole, forse eccessivo, le navi da tutto il mondo ci portavano merci lussuose che andavano ad abbellire le nostre domus e il benessere, si sa, fa inevitabilmente rilassare i costumi. Lì forse iniziò la decadenza…
Mah, il mondo non è mai stato perfetto, filosofeggia mia moglie che vuol smussare le mie posizioni estreme. Poi aggiunge, L’impero romano era fondato sulla schiavitù e questo non è moralmente accettabile.
Sulla schiavitù lei è intransigente. Forte di quello che ha imparato dai suoi correligionari sostiene che nessuno può essere reso schiavo, che siamo tutti liberi, uguali e figli dello stesso padre.
Sinceramente la schiavitù l’ho sempre ritenuta normale e necessaria, qualcosa di cui non si può fare a meno, qualcosa che in fondo non lede nulla, perché uno schiavo alle dipendenze di un padrone onesto può vivere molto bene e rendergli la vita più vivibile. Non tutti siamo fatti per occuparci della quotidianità. Lasciare che qualcuno vada al mercato e faccia per noi gli acquisti oppure spazzi il giardino perché noi possiamo in santa pace leggere, scrivere e comporre opere, – speriamo degne di memoria, – non mi è sembrato mai una grande colpa.

m.t.t (continua)