Bombardamento | Trieste. La resa dei conti

Suonarono le sirene. Abbandonai l’ufficio in fretta e raggiunsi mia moglie: la giornata era splendida. Sulle pendici del colle di San Luigi abitava un’amica comune; l’avremmo raggiunta e in sua compagnia avremmo atteso il segnale del cessato pericolo, forse nel suo giardino o passeggiando al sole nelle vicinanze. Tranquilli, senza alcuna preoccupazione, c’incamminammo verso la verde collina, felici per la chiarezza del cielo azzurro, dell’aria pura. Ma giunti davanti all’Ospedale Maggiore mia moglie si fermò improvvisamente. “Gli aerei!” gridò afferrandomi una mano. Il rombo dei motori si avvicinava con un crescendo pauroso. Guardai verso l’alto: stava passando un bombardiere a bassissima quota. I sibili delle bombe e gli scrosci tremendi si confusero. Afferrai per la vita mia moglie e la spinsi di slancio nel più vicino portone mentre alle sue spalle il manto stradale si copriva di uno strato di vetri frantumati. Una testa umana saldata ancora nel suo elmetto di vigile del rifugio accanto, rotolava lontano. Una bomba aveva colpito lo stabile attiguo a quello in cui ci eravamo rifugiati. Molte donne addossate al muro del portone piangevano e pregavano terrorizzate. I bimbi strillavano tra le braccia delle loro madri; degli uomini fissavano impietriti la volta dell’atrio convinti di vederla crollare da un momento all’altro.

L’ondata era passata: le bombe cadevano ancora, ma lontano. Guardai fuori e pensai di raggiungere uno stabile vicino che mi sembrava più massiccio. Correndo, tenendo sottobraccio mia moglie, m’infilai nell’altro portone. Trovai la stessa scena. Donne e bambini che piangevano, uomini atterriti che aspettavano il peggio. La nostra abitazione distava una cinquantina di metri: desideravamo raggiungerla. I nostri mobili, le suppellettili, il vestiario, tutto in quel momento poteva già essere scomparso sotto un cumulo di macerie.

(…)

Un soffio caldo e acre penetrò nel portone e ci avvolse improvviso: stava passando la seconda ondata. Forse in quel momento possedevamo soltanto ciò che avevamo indosso. Attesi che l’acre nube si dileguasse e guardai verso casa: appariva illesa. La terza ondata ci colse mentre ci precipitavamo nel nostro portone. Altre bombe caddero nelle immediate vicinanze, altri scrosci orrendi, altri sibili si alternarono sopra le nostre teste, poi sembrò fosse calata improvvisa la notte. Poco dopo le sirene segnalarono il cessato pericolo. Salire in casa era inutile; ci avviammo verso piazza Garibaldi. Gli incendi divampavano, le autoambulanze e i mezzi dell’UNPAcorrevano per le strade. Guardavamo incapaci di credere ai nostri occhi. Era successo ciò che di più assurdo, di più crudele ed insensato potesse succedere. Una dimostrazione di palese e criminale barbarie a cui nessuno in città si sarebbe sognato di dover assistere. Tutte le bombe erano state deliberatamente sganciate il più lontano possibile da qualsiasi anche supposto obiettivo militare. Erano state sganciate di proposito sui rioni più popolosi, sulla gente inerme. Nel rione di San Giacomo, quasi interamente abitato dalle famiglie degli operai dei cantieri e del porto, su Cittavecchia, su Barriera e su altri rioni ancora, dove né caserme, né accantonamenti nemici potevano fornire una giustificazione. Anzi, proprio la zona centrale della città, dove i germanici avevano i loro uffici e comandi principali, era stata del tutto risparmiata. Duecentottantasei furono le prime salme estratte dalle macerie fumanti. Molte di queste, ammucchiate sanguinolente sui furgoncini dell’UNPA passarono davanti ai nostri occhi. Erano orribili. Le vesti a brandelli, qualcuna quasi nuda e tutte imbrattate dalla polvere dei calcinacci. “Gangsters dell’aria” si udì qualcuno imprecare e quell’espressione mi sembrò così appropriata che la ripetei. “Vorrei dire a chi ci ha colpito” disse il vescovo dopo le preghiere per i caduti “che queste non sono le imprese della civiltà, che queste azioni sono perfettamente inutili ai fini della guerra e che quindi la coscienza degli uomini le deplora e si alza solenne a chiedere che cessi lo strazio della nostra povera città.” Un numero forse doppio di salme venne estratte dalle macerie pericolanti nei giorni successivi e negli ospedali furono accolti oltre un migliaio di invalidi e di feriti.