Il compito di chi scrive è sempre quello di generare dubbi. Questa è l’unica arma dei poeti, il cui compito, comunque, non è cambiare il mondo. Marina Torossi Tevini, narratrice e poetessa triestina tra pochi mesi in uscita con un nuovo romanzo incentrato sui contrasti generazionali e le derive sociali, si racconta a Valentina Di Cesare in Succedeoggi del maggio 2019 in una sorta di itinerario a ritroso attraverso le sue esperienze letterarie. Viaggiatrice curiosa e instancabile, nel corso della sua carriera la Torossi ha firmato anche interessanti diari di viaggio, ricchi di riflessioni e aneddoti, misurandosi così, anche se in maniera minore, con la scrittura di viaggio. «Ogni genere ha avuto un particolare significato per me» afferma la scrittrice «a seconda delle varie fasi della mia vita. Negli anni ‘90 ho amato in modo speciale la poesia, allora per me scrivere poesie significava soprattutto esercitare una sorta di militanza contro la società, e la poesia era la mia arma nei confronti di queste derive. Ho pubblicato nel ‘90 e nel ‘97 due libri di poesia, Donne senza volto e L’unicorno. Né allora né oggi mi sento di affermare che i poeti salvino il mondo: la realtà è andata avanti, prendendo le vie aberranti che abbiamo attualmente sotto gli occhi. La poesia resta comunque il primo amore e mi riprometto sempre di pubblicare gli inediti che ho accumulato in questi anni».
Non solo poesia però, neanche agli inizi della sua carriera: già dagli anni Novanta infatti, contemporaneamente alle sue poesie, Marina Torossi aveva dato alle stampe la sua prima raccolta di racconti Il maschio ecologico, manifestando così una vocazione alla narrativa breve. «A questa prima prova narrativa» prosegue la Torossi «sono seguiti nel primo decennio del 2000, Il migliore dei mondi impossibili e il romanzo Il cielo sulla Provenza, e i romanzi brevi contenuti ne Le parole blu insieme ai racconti de L’Occidente e parole. Amo sia la forma del romanzo, che consente di seguire per lungo tempo i propri personaggi ed accompagnarli, almeno sino ad un certo punto, sia la narrativa breve, così ingiustamente trascurata… Quanto alla narrativa di viaggio, è un genere che nella mia produzione ha un’importanza minore. Ho pubblicato sinora due soli libri, Viaggi a due nell’Europa di questi anni, una sorta di mia autobiografia anche letteraria, e Rotte d’Europa, un insieme di articoli di viaggio e di osservazioni culturali. Adoro viaggiare e questo, oltre che nei due libri di racconti di viaggio, si riflette anche nei miei romanzi dove i personaggi quasi tutti si spostano frequentemente per lavoro o per piacere. Penso che il viaggio sia soprattutto una forma di messa a punto del proprio io che, trovandosi in situazioni diverse e in ambienti sconosciuti deve ridiscutere se stesso, rimettersi in gioco».
Nella sua vita, Marina Torossi ha sempre coniugato viaggi e letteratura, non disgiungendoli mai, poiché ambedue anche se attraverso percorsi differenti, fanno luce sulle diversità umane. «Ho sempre pensato che lo scopo di ogni scrittore e, se vogliamo, in senso lato anche di ogni uomo, è generare dubbi. Viaggiare permette di mettere in discussione il modo di pensare della società a cui apparteniamo, ci libera da ciò che è scontato e ci regala più elasticità. Tutti dovrebbero viaggiare. Non però rifugiandosi in qualche villaggio turistico a guardare il proprio ombelico ma con gli occhi sgranati su realtà diverse. Negli ultimi anni ho avuto maggior disponibilità di tempo e così ho potuto fare viaggi abbastanza lunghi e impegnativi, ho conosciuto la Patagonia, l’India, alcuni stati del Sud-est asiatico e del Medioriente e sono venuta in contatto con realtà molto diverse, che hanno ampliato le mie conoscenze e mi hanno spinta a ridiscutere molte idee che ritenevo fino a quel momento scontate.» Al ritorno da ogni viaggio però Marina è ogni volta approdata a Trieste, la sua città, da sempre polo culturale attivo e vivace, con cui la scrittrice confessa di avere un rapporto contraddittorio. «Da un lato la amo per il suo passato letterario» rivela la Torossi « e anche come luogo di vita, ma ci sono anche aspetti meno noti e nascosti che non permettono di avere con questo centro un rapporto facile. È tra le città italiane quella meno italiana, costantemente a contatto con altre popolazioni, appesantita dal ricordo del periodo terribile che visse alla fine della seconda guerra mondiale e nel dopoguerra. Ai tempi della guerra fredda era l’ultimo baluardo del mondo occidentale prima dell’Est comunista e durante la guerra degli anni ‘90 nell’ex Jugoslavia era l’ultimo avamposto da dove partivano i giornalisti di guerra per narrare l’orrore. Trieste è una città inquieta e inquietante da cui è difficile staccarsi e che si ama in un modo meno solare e assoluto rispetto ad altre città».
Ma dalla sua Trieste, anche grazie “l’invasione” dei social, Marina può condividere con lettori e colleghi scrittori la sua attività letteraria, insieme a idee, passioni, opinioni. «I social non sono da demonizzare in toto » conclude Marina «esistono aspetti positivi e negativi che emergono nel loro utilizzo. Il lavoro dello scrittore è un lavoro di indagine su di sé e sulla società, una ricerca che presuppone profondità e non superficialità, conoscenza del passato e paziente lavoro di lettore. Spesso il nostro mondo letterario è un mondo di scrittori intenti più ad autopromuoversi che a cercare di raggiungere vette di significato. Gli abissi di alcuni grandi del passato oggi sono impensabili. In questo senso i social costituiscono un regresso e un vero pericolo.»
intervista di Valentina Di Cesare per Succedeoggi del 28 maggio 2019