Conversazione | Trieste. La resa dei conti

“Almeno in senso materiale devi ammettere che abbiamo fatto molti progressi, – disse Alessandro mentre addentava dell’ottimo prosciutto cotto, quello che solo a Trieste si trova, cotto nella crosta di pane, gustosissimo – quando andavamo alle elementari non avevamo neppure il riscaldamento, mi ricordo che uscire dal letto la mattina era un’impresa. La casa era fredda, la temperatura non superava mai i 17 gradi. Adesso nessuno dei nostri figli vivrebbe in condizioni così poco confortevoli. Sono abituati bene. Li abbiamo viziati.” “Bisognerà vedere fin quando se le potranno permettere tutte le comodità” interloquì Giulia che passava con il primo. “La vita com’era ai tempi della nostra infanzia era molto diversa – intervenne Antonio. – Per tanti aspetti migliore, per altri peggiore. Ad esempio poche donne lavoravano quasi tutte erano casalinghe. Mia madre cucinava e cucinava. Cosa vuoi da mangiare oggi? Mi diceva e mi preparava degli stufati magnifici… Quale donna oggi vivrebbe così?” “Anche mia madre era casalinga – disse Alessandro. – Aveva lasciato il suo lavoro per occuparsi della casa e di me. Si viveva di poco quella volta, in fondo non era neanche una brutta vita.” “Non sono d’accordo – intervenne Giulia. – Non era una bella vita. Quando ero giovane l’idea di diventare come mia madre, una semplice donna di casa, mi sembrava spaventosa. Avevo altre ambizioni, volevo lavorare, avere la mia indipendenza, scalpitavo in una famiglia che mi andava stretta. Per questo ai miei figli ho voluto lasciare libertà di scelta, indipendenza…” “Però tua figlia dopo essersi laureata brillantemente si arrabatta e non è soddisfatta del suo lavoro ed è sempre depressa” mugugnò Antonio. “Non è depressa per il lavoro. Almeno non credo. Comunque con l’altro figlio, Andrea, non abbiamo avuto problemi.” “Dici?” fece meditabondo Antonio. Aveva sempre diffidato di quel figlio troppo zelante e sempre inappuntabile, un figlio che non dava pensiero, che non si lamentava mai, ma che pure non lo persuadeva per la mancanza di sinceri slanci, di errori, di ritorni di fiamma, insomma di umanità.

“Con Andrea non abbiamo mai avuto problemi” ribadì Giulia che aveva sempre avuto un debole per quel figlio così gentile, forse un po’sulle sue, certo, poco presente ma sempre cortese e mai apertamente ostile com’era spesso Carla. Antonio prese in mano un bicchiere. “Forse abbiamo sbagliato tutto. Abbiamo costruito un mondo nuovo, ci sembrava di fare bene, ci sembrava che il mondo dei nostri padri fosse orribile e adesso ci troviamo davanti dei figli che abbiamo educato diversamente da come noi siamo stati educati, che dovrebbero essere felici e invece sono infelici e depressi.” “Però non ci odiano come noi abbiamo odiato i nostri genitori” esclamò la moglie di Antonio. “Chissà, forse ci odiano e non ce lo dicono, oppure non ci odiano solo perché siamo stati bravi a non stringere troppo il cappio. Poi si è inserito il problema lavoro, ma quello è un altro discorso.” I discorsi cominciarono a sovrapporsi. Le parole si inanellavano, complice un buon Merlot Felluga che Antonio aveva messo sul tavolo. “I politici hanno fatto per anni un lavoro clientelare e miope…” “In malafede hanno lasciato che tutto andasse a rotoli…” “Le cose sono più complicate, siamo in un mondo interconnesso, la classe politica non è stata in grado di arginare la deriva.” “Politici di merda.” “Il morale delle generazioni giovani è a terra.” “Non di tutti. Alcuni se la spassano alla grande.” “Ma va!” Le frasi si sovrapponevano, ognuno aveva qualcosa da dire, da ripetere, da ribadire. Giulia lasciò i due uomini a sbraitare e andò a sdraiarsi sul letto. Era stanca. Tutto il giorno al lavoro e poi, da quando Antonio aveva ritrovato l’amico di infanzia, un piatto in più a cena. Aquesto si aggiungeva Carla, sua figlia, che, verso sera, veniva a prendere qualcosa per cena e sua madre, che viveva con una badante, ma che voleva che l’amata figlia passasse da lei almeno una volta al giorno. Lei ci andava volentieri, anche perché preferiva dare un’occhiata, visto che le badanti che si erano susseguite non erano sempre affidabili, ma era un impegno anche quello. E le ore volavano. Ricordava che una badante l’aveva piantata nel momento peggiore con sua madre ammalata. Per qualche settimana non aveva saputo come risolvere, ma aveva tenuto duro. Non voleva mettere sua madre a morire di depressione in una casa di riposo. Ma si sentiva stanca, senza forze. Dalla stanza vicina le arrivavano sfumate le parole dei due uomini. “Leggevo sul giornale – “ diceva Antonio – “che se gli abitanti dei paesi più poveri rimanessero a casa loro nel giro di vent’anni aumenterebbero di quasi 850 milioni, dato che crescono al ritmo spaventoso di 42 milioni l’anno. Non avrebbero le risorse necessarie per vivere. Cazzo pensò Giulia nel dormiveglia. “Spostandosi hanno qualche chances. Però così l’inflazione demografica arriverà  da noi. Non cambieranno certo le loro abitudini.” “Qui siamo in pochi. – riprese Alessandro – “ Sembra che sia necessaria una iniezione di nuova umanità.”

“Comunque le ripercussioni sul nostro mondo saranno enormi anche e soprattutto a livello di welfare. Niente rimarrà come prima.” Era Antonio con la sua solita voce sconfortata e un po’roca. “Il problema di base è sempre lo stesso. Si generano molti lavori a bassa professionalità che noi non vogliamo fare. Servono manovalanze e si assumono stranieri. Gli industriali sono contenti perché gli extracomunitari nei loro paesi sono abituati a ricevere dieci volte di meno e accettano qualsiasi condizione. Li pagano poco e licenziano gli italiani che vogliono troppe garanzie.” “O fanno lavorare in nero gli stranieri.” “Meglio che lavorino in nero che non lavorino affatto. Tanti vengono costretti per più di un anno a oziare mentre si fanno le pratiche di riconoscimento e nel frattempo o vengono assoldati dalla malavita o scappano.” “Eh sì. È una situazione complicata.”