Rileggendo l’epistolario di Cesare Pavese

cesare-paveseAl suicidio di Pavese è stato dato sempre molto spazio e molti hanno cercato di spiegarlo con motivazioni legate alla sua insoddisfacente vita amorosa o a disturbi di natura sessuale. Per capire l’animo di Cesare Pavese e il percorso che lo portò al suicidio sono di indubbia utilità l’epistolario e il diario Il mestiere di vivere. Sono loro a farci luce sui meandri più oscuri e meno pubblici del suo pensiero e del suo percorso umano. Nel ricchissimo epistolario viene spontaneo andare alla ricerca di quell’incrinatura dell’animo che lo portò a scegliere la morte. Ci sono nelle lettere, e in particolare nelle lettere dell’ultimo periodo, molte interessanti indicazioni; particolari inquietanti che, scritti appena qualche mese e in alcuni casi qualche giorno prima del suicidio, inquietano ancora di più. Nell’ultimo anno di vita Pavese ebbe una storia d’amore breve ma intensa con l’ attrice americana Constance Dowling e a lei e alla sorella sono indirizzate parecchie lettere. Frugando tra le sue parole si possono scoprire le tracce di un percorso mentale, che peraltro non coinvolge solo l’ultimo periodo della vita di Pavese, perché se, come è noto, lo scrittore si suicidò il 27 agosto del 1950, in realtà egli corteggiò l’idea del suicidio fin dalla giovinezza. All’attrice Constance Dowling lo lega non solo un rapporto d’amore, che Pavese spera possa concretizzarsi in un matrimonio, ma anche un progetto artistico: Pavese tenta la via difficile del cinema e prova a scrivere una sceneggiatura per un film. Alla Dowling invia anche le sue ultime opere I dialoghi con Leucò e La luna e i falò. Le promette di sceneggiare La bella estate che proprio in quell’anno aveva ricevuto il premio Strega, le comunica che nell’ultima settimana di giugno sarà a Roma per riceve il premio e spera di incontrarla. Il 6 luglio scrive a Doris, la sorella di Connie “ Mi stanno festeggiando come un piccolo Cesare e io mi comporto più graziosamente che posso. Il guaio di queste cose è che arrivano sempre quando uno le ha superate e sta inseguendo dei strani e diversi”. È questa la risposta a una cartolina dal New Mexico di Connie. L’idea che Connie non tornerà più in Italia è per lui una notizia fatale. “Mi sentivo come un uomo a cui tortuosamente si dice che ha il cancro” scrive. Nell’epistolario dell’ultimo mese di vita ci sono anche delle lettere indirizzate a una ragazza di Bocca di Magra chiamata Pierina. Lettere strane e significative per comprendere il suo stato d’animo. Ne estrapoliamo alcuni passi. “C’è una tale sproporzione di stati d’animo tra noi due che le mie stesse parole mi tornano in bocca e mi feriscono”…”Penso che sia la musica in cui tu balli a scavarmi dentro a scrollarmi il sangue a farmi fare la faccia feroce (ma è la faccia feroce di un suicida, non altro)”… e ancora “Il motivo immediato è il disagio di questa rincorsa dove, non ballando e non guidando, resto sempre perdente. Io sono, come si dice, alla fine della candela” “Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello che io ero a 28 anni quando, risoluto a uccidermi per non so qual delusione, non lo feci… La vita mi era parsa orribile, ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda, ma che io ne sono tagliato fuori… Posso dirti che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo?” e infine “ Non si può bruciare la candela da due parti, e nel caso mio l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto”.
Pavese è tra gli autori più significativi del Novecento, “ha espresso quella fondamentale riluttanza alla vita quell’interna lacerazione e consunzione di tutti gli affetti e ideali quella primordiale vocazione alla morte che è alle radici di tanta parte della nostra civiltà”(Sapegno). L’antinomia città-campagna, la solitudine esistenziale, la difficoltà di rapporti con la donna sono tra i temi che ricorrono più spesso nelle sue opere. Pochi autori sono riusciti a rendere così potentemente i loro nodi esistenziali in termini artistici e a comunicare attraverso i personaggi angosce e inesprimibili antinomie. Se la vita in qualche modo influisce sulla pagina di un autore possiamo indubbiamente ricercare nella precoce perdita del padre e nella presenza talvolta un po’ troppo austera della madre una delle ragioni dei certe pagine in cui echeggia disperata l’idea di una comunicazione impossibile e di una solitudine senza riscatto. Eppure gli anni della maturità di Pavese furono pieni di amicizie, e con persone di alto spessore intellettuale come N. Bobbio o G. Einaudi o Leone Ginzburg. La sua attività fu davvero febbrile, si pensi agli anni in cui tradusse autori come Defoe, Melville, Dickens, Steinbeck e collaborò con la casa editrice Einaudi, svolgendo un’opera di organizzatore di cultura molto importante e contribuendo con Vittorini a creare il mito della letteratura americana.
La fama di Pavese è legata soprattutto alla sua narrativa ma anche la produzione di poesia non è da poco né di poco valore. Con la raccolta Lavorare stanca, la prima opera pubblicata, imbocca coraggiosamente, in un periodo ancora dominato dall’ermetismo, una strada del tutto diversa scegliendo la poesia-racconto e preferendo a toni aulici quelli colloquiali. I temi presenti nelle sue liriche ritornano anche nei romanzi. Ne I mari del Sud, la prima lirica di Lavorare stanca, è presente il tema dell’uomo che ritorna e si ritrova sradicato dal proprio mondo, tema che sarà poi il filo portante del suo capolavoro La luna e i falò. Ad esso è legato anche il tema della contrapposizione città/paese. Il paese è visto come un’entità positiva. “ Paese vuol dire non esser soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che quando non ci sei resta ad aspettarti”. Le Langhe, l’ambiente cioè della sua infanzia, contrapposto a Torino, dove trascorre buona parte della sua esistenza, assumono la valenza di un mito, mito che si collega all’infanzia quando la percezione delle cose non è razionale ma simbolica.
Il mito ha grande importanza nell’opera di Pavese e lo troviamo con grande evidenza anche in quell’originale e forse non ancora abbastanza valorizzata opera che sono i Dialoghi con Leucò, rielaborazione dei miti classici sostanziati dalle sue ossessioni. Ma anche l’infanzia è per Pavese un mito ed esprime la presenza delle cose “albero casa vite nella loro assolutezza prima che la coscienza le nomini, le identifichi, le carichi di valenze positive o negative”). Senza mito non c’è poesia e senza poesia non c’è chiarificazione del fondo più oscuro della psiche.
Ma, ritornando al suicidio e al percorso che lo portò ad esso, possiamo osservare che l’ossessione dominante nella vita e nell’arte di Pavese fu la donna. Nella sua vita si succedettero numerosi amori impossibili: dall’adolescenziale vicenda in cui Pavese attese per sei ore sotto al pioggia una cantante-ballerina che si esibiva in un caffè torinese e si prese una polmonite, all’amore per l’attrice Constance Dowling. Anche nelle sue opere si riflette questa impossibilità di stabilire un contatto con l’altro sesso: non ci sono vicende d’amore felici e in generale le storie si concludono sempre con uno scacco, una sconfitta spesso immotivata. Dai primi racconti – che rimasero inediti a lungo – Il carcere e La bella estate (quest’ultimo scritto nel 40, ma pubblicato molti anni dopo e che ebbe solo nel 50 la consacrazione dello Strega) a Paesi tuoi, il primo racconto stampato (scritto nel 39 e pubblicato nel 41) e a La spiaggia che uscì nel 42 ed ebbe un’accoglienza abbastanza freddina.
Solo dopo la guerra iniziarono i consensi per l’arte di Pavese.
Nell’arco di tre anni vennero pubblicate le sue opere più significative. Nel 47 esce Il compagno, scritto anni prima e quell’anno premiato, nel 49 viene pubblicato Prima che il gallo canti che raccoglie Il carcere e La casa in collina. A ridosso di queste pubblicazioni, e a un ritmo incalzante, escono anche La bella estate che comprende – oltre al racconto omonimo – anche Il diavolo sulle colline e Tra donne sole e infine – composto in soli tre mesi – nel 50 La luna e i falò. Un fuoco di fila di successi che accompagnano un triennio intensissimo di vita.
Cesare Pavese sembra raccogliere finalmente il frutto di una vita di fatiche. I consensi fioccano. I premi ne coronano e consacrano il nome.
La sua ultima opera pubblicata è La luna e i falò, considerata dalla critica il suo capolavoro. In essa troviamo la sintesi dei principali temi della sua narrativa: il desiderio di ritorno e l’impossibilità di ritornare, la nostalgia di un mondo che è cambiato e da cui si è voluto sì staccarsi ma a cui si vorrebbe far ritorno per mostrare il cammino che si è percorso. Un libro denso e sofferto che in qualche modo suggella il suo percorso artistico, un libro che si chiude con una desolante visione di una sconfitta senza appello. E poco dopo anche la vita di Pavese cessa in un’anonima e impersonale una camera di albergo di Torino.
Eppure molto gli rimaneva ancora da pubblicare: la bellissima raccolta di poesie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, un saggio sulla letteratura americana, Il mestiere di vivere, il romanzo Fuoco grande e il romanzo giovanile Ciau Masino che usciranno tutti postumi. Perché scegliere di morire in quel momento?
Leggendo alcune lettere che risalgono a pochi giorni prima del suicidio troviamo indizi inquietanti che spiegano il suo gesto estremo e la lucida preparazione dello stesso. Una morte lucidamente voluta. Su questo ci sono anche altre importanti testimonianze ne Il mestiere di vivere, il diario che accompagna come una lucida riflessione su se stesso e sul suo lavoro artistico gran parte dell’esistenza di Pavese. Il suicidio è definito una “calma e stanca rinuncia” “accettazione di un destino scontato” “un gesto che rappresenti un modo di contare per sé e per gli altri”. Pavese scrive: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla…” e aggiunge “La mia parte pubblica l’ho fatta, ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”.
Era il 16 agosto, undici giorni prima del suicidio. E qualche giorno dopo, il 21 aggiunge: “Non parole. Un gesto. Non scriverò più.”
A noi rimangono dubbi inquietanti; il gesto di un suicida non chiude nulla ma vuol aprire una sorta di dialogo con chi rimane. Non a caso molti artisti sono morti suicidi; spesso all’apice del loro successo o nel momento in cui, dopo un lunghissimo sforzo di anni, cominciavano a raccogliere i frutti del loro lavoro. Un’ipotesi – che potrà sembrare strana – è che l’arte, dono d’amore sommo per gli uomini, ha la capacità di svuotare, di prosciugare le risorse intime di un uomo. L’artista attinge alla vita, attinge all’amore degli altri, spesso con spregiudicatezza e disordine, ma lo fa proprio per rimpinguare quelle fragili riserve che l’arte ha distrutto dentro di lui. L’arte è una violazione, uno sguardo su una realtà che in qualche modo è al di là della portata dell’umano. E si paga. Il prezzo è l’infelicità esistenziale e, talvolta, la scelta autodistruttiva – come nel caso di Pavese – che in un albergo di Torino mise fine al suo passaggio terreno lasciando ai posteri le fragili piste dei suoi inquietanti percorsi mentali.

m.t.t