Lettera da Aquileia

mosaico aquileiaLettera da Aquileia
Aquileia, 4 novembre 411 d. C
(quarto giorno prima delle None di novembre del 1164 ab Urbe condita)
Caro Marco,
non so se questa mia lettera ti arriverà, sono tempi duri, e la facilità con cui, secoli addietro, si comunicava con i cittadini di tutto l’impero è un lontano ricordo. Le città che sorgono lungo la nostra penisola in buona parte sfuggono al potere di Roma. Popolazioni di varie etnie ormai da tempo si sono insediate entro i confini di quella che un tempo era una compagine vasta e potentissima. Se due secoli fa era possibile viaggiare in piena sicurezza dalla penisola iberica ai confini dell’India, dalle sponde dell’Egitto al regno di Palmira, dalla Cirenaica all’Illiria e le comunicazioni arrivavano veloci e sicure, oggi siamo nel caos più totale.
Non sai quante volte ho pensato negli ultimi anni di venirti a trovare a Roma, di rivedere te, mio fratello Gaio e il gruppo di discepoli di quel grande maestro che è stato il nostro Sempronio, – a cui devo l’amore per i libri e per la filosofia, passioni che mi hanno consentito di vivere relativamente sereno anche in questi tempi bui. Ma specialmente adesso, dopo la notizia che mi è arrivata di quello che ha passato Roma lo scorso anno, – saccheggi incendi distruzione – dato che non riesco ad avere notizie dirette da mio fratello, ho deciso che mi metterò in viaggio all’inizio della primavera, per quanto sappia bene che di questi tempi spostarsi è un’avventura e un pericolo.
Anche Aquileia è stata più volte minacciata e messa sotto assedio dai barbari ma grazie alle mura, che già nel secondo secolo le avevano consentito di resistere agli attacchi dei Quadi e dei Marcomanni, non è stata distrutta. Ancora. Qui in città però circolano le voci più disparate, come anche quelle di un aruspice che profetizza il suo saccheggio e la sua distruzione nel 452 ad opera di Attila. Non so se credere o no a queste dicerie… Comunque il 410 è stato un anno terribile. Ci ha lasciati tutti sconvolti.
Ripenso spesso alle giornate che trascorrevamo sull’Appia. Ricordi le nostre infinite e dotte dissertazioni se fosse meglio anteporre il bene comune o i diritti del singolo, e in quali proporzioni? Ricordo che tu sostenevi con forza la tesi che vedeva in primo piano le garanzie del singolo mentre io obiettavo che, laddove le garanzie date – e giustamente – a ogni singolo individuo finiscano coll’inceppare la macchina del bene comune, queste garanzie devono essere limitate.
Lo pensavo ieri mentre discorrevo con mia moglie – sai che ho sposato una donna di queste terre, una donna intelligente e coraggiosa, che ha vedute diverse dalle mie, ma con cui converso a lungo, anche perché qui, diciamolo francamente, non ci sono molti validi interlocutori. Io e Sigismonda dunque – così si chiama mia moglie – discutevamo di questi argomenti, diritti e doveri, garanzie per gli individui e bene comune. Lei mi ricorda un po’ le tue posizioni, certo molto più estreme, perché lei – ti confesso – si è fatta battezzare e professa la nuova e paradossale fede venuta da Oriente. Ritiene che tutti gli uomini siano fratelli e che si debba amare anche l’ultimo di questa terra con lo stesso entusiasmo con cui si apprezza una mente somma. A me riesce difficile accettare questo rovesciamento di valori. Mi chiedo Perché dovrei amare ogni uomo? Anche un malvagio? Anche un incapace? Anche un nemico? Riserbo il rispetto e l’affetto, che spesso sono congiunti alla stima, alle persone che ritengo migliori, a quelli che hanno una mente aperta e capacità di comprendere. Amo gli amici, il mio popolo, i miei congiunti… E così, mentre mia moglie si dedica a opere di carità, io cerco invano qualche compagno per discutere sulle idee di Aristotele o di Platone oppure – ed è quello che faccio ormai da mesi – mi rinchiudo nel mio studio in compagnia dei testi che ho portato da Roma, che sto leggendo e rileggendo, e sono diventati per me i compagni migliori.
Ho scritto qualche tempo fa a Tiberio e speravo che me ne mandasse degli altri, ma non è mi arrivato ancora nulla. Tutto è diventato difficile. Siamo circondati da barbari, c’è un costante massiccio spostamento di popolazioni incalzate da popoli più feroci, che lasciano le loro terre per sfuggire alla distruzione e alla morte. Hanno diritto di fuggire, poverini, dice mia moglie. E – pensa tu! – da qualche settimana mi ha portato a casa un soldato visigoto e lo ha sistemato nella stanza che era del mio giovane Tullio, che ora combatte sul fronte del Reno.
Tu lo sai, caro Marco, non avrei mai voluto che mio figlio diventasse soldato, avrei preferito che si dedicasse come me a insegnare e praticasse la vita politica, vivendo in mezzo ai libri e alle parole, ma lui, da quando era ragazzo, è sempre stato attratto dalla rude vita del soldato. Non ho potuto impedirgli di arruolarsi. Temo però che abbia succhiato un po’ del mio folle idealismo e che si ponga delle mete impossibili, frenare i barbari, ridare potenza a Roma, ripristinare la grandezza di un tempo.
(continua)
m.t.t.