L’anno che Bartolo decise di morire

Il nostro è mondo dell’indifferenza, il mondo dell’adesione superficiale, il mondo della sete di notizie sensazionali, un mondo in cui “le disgrazie sono il nostro passatempo, il pane quotidiano.” “Che saremmo senza le nostre lamentele?” si chiede un personaggio de L’anno che Bartolo decise di morire, romanzo di Valentina Di Cesare da poco edito da Arkadia nella collana senza rotte (pp 108, euro 13). “Ogni volta che accade qualcosa di grave la città si rianima… soltanto quando c’è un incidente, una sciagura, un furto la gente si affaccia, esce, somiglia alle bestie nei campi di transumanza, perché solo quello è importante, il cibo…perché non c’è nutrimento migliore per gli uomini della rovina altrui”. Con penna graffiante Valentina Di Cesare tratteggia un mondo, il mondo con cui veniamo quotidianamente in contatto, facendo fuoco su un gruppo di amici, amici che si conoscono da una vita, che hanno condiviso esperienze e percorsi dal tempo della loro adolescenza e che ora, divenuti adulti, hanno sì ciascuno il proprio vissuto, ma rimangono comunque in stretto contatto. Non sono percorsi di vita i loro che soddisfino molto, sia in campo lavorativo che in campo affettivo, ognuno si confronta con i propri fallimenti, ma fondamentalmente l’amicizia che grazie anche alla frequentazione facile di una piccola città e posto che uno è giornalaio, l’altro gestisce un bar, il terzo è bibliotecario e così via, consente uno scambio di contatti quasi quotidiano, regge e si mantiene inalterata. Ma che cosa significa davvero amicizia? La loro è una vera amicizia? Secondo gli antichi l’amicizia doveva essere un rapporto incondizionato, libero, che dà valore e spazio all’altro, in fondo il rapporto più completo, ancor più dell’amore perché basato sul rispetto sulla schiettezza e sul supporto in qualsiasi situazione. Ma la nostra società non crea individui che possano nutrire un sentimento di questo livello. La nostra società crea omuncoli autoreferenziali, che nel momento del bisogno si defilano. Uomini che non hanno il coraggio di prendere posizione se intravvedono anche lontanamente un possibile danno o rischio. Pavese diceva “paese è non essere mai soli”. Ma questa microcittadina non è “paese”. Certo, non ha la dimensione anonima e tentacolare delle metropoli ma non ha neppure la compattezza di un paese d’anime. In essa un gruppo di giovani adulti che sono e si considerano da sempre amici viene messo in discussione dalla morte di uno di loro, Lucio, che ha deciso di suicidarsi, forse per motivi legati al suo lavoro. Bortolo, l’idealista, vorrebbe che di fronte alle malignità che si dicono sul suicida tutti uniti prendessero posizione, difendessero l’amico a spada tratta. Ma uno dopo l’altro gli amici si defilano, considerano che difendere un morto è in fondo una battaglia persa e rischiosa, che è meglio lasciar perdere. E così la depressione strisciante che ha accompagnato Bartolo in tutto il suo ultimo anno di vita, unita all’evidente esperienza che quelli che ha sempre considerato come la sua famiglia sono in realtà dei piccoli egoisti, lo induce prendere la decisione di suicidarsi. Ecco, il cerchio si chiude. Quello che l’autrice ha anticipato già nelle prime pagine trova realizzazione. Ne dà comunicazione il maestro, unica voce fuori del coro e rappresentante di una generazione diversa, che commenta sempre in modo intelligente e anticonvenzionale i fatti. Il maestro vive per conto proprio, non si mescola agli altri, ma in qualche modo sa sempre tutto. È lui che dà agli amici la notizia che Bartolo, che da un po’ non vedono in giro, “finalmente” ha deciso di morire. A ognuno il compito di elaborare il lutto, comprendere e forse ridiscutere la sua vita.

m.t.t.