Il Sosia da L’Occidente e parole

L'Occidente e parole_copertinaLa crisi tocca soprattutto noi, ventenni e trentenni, noi plasmati da una società dei consumi noi allevati come consumer-addicted, diceva il Sosia – lo avevamo soprannominato così perché nel suo look ricordava Robert Pattinson, quello di Twilight, – noi tagliati improvvisamente fuori dal sogno di quel miglioramento sociale che hanno sperimentato le generazioni precedenti. Siamo i primi ad essere esclusi. Via, non c’è più posto. Il mondo è saturo e tu sei superfluo. Non è allegro, che dite?
Il Sosia aveva ventinove anni e da due aveva smesso di cercare lavoro. Era arrabbiato con il mondo, non era come me o Mattia integrato alla meno peggio, era uno ai margini, uno che passava le sere a cercar liti a fare a pugni o a ubriacarsi. Oppure a leggere libri di filosofia, se ne aveva voglia.
Lo guardavamo un po’ come un ufo, ma la regola era accogliere tutti. Anche lui aveva diritto di sedere tra noi. Alle volte arrivava tutto sporco e diceva che aveva passato la notte e il giorno fuori casa. In realtà passava quasi sempre il tempo fuori casa perché non sopportava i suoi e loro non lo sopportavano più. Tornava ogni tanto a prendere soldi ma di solito si faceva ospitare da amici o si arrangiava alla meno peggio. I genitori, che palle. Lui era una delusione per loro e loro erano una delusione per lui.
I sogni dei suoi, vent’anni di sogni, si erano incrinati quando lui aveva lasciato la scuola dopo il diploma, si erano un po’ risollevati quando aveva iniziato a lavorare in un negozio di informatica, erano tracollati quando a ventiquattro anni aveva detto “Ne ho abbastanza di questa società del cazzo, l’avete fatta voi, mantenetemi”.
Così aveva iniziato a coltivare i suoi hobby, a girare il mondo con amici, ad arrangiarsi, tornando ogni tanto in un ovile che gli andava stretto, ma non al punto tale da farlo scappare definitivamente. Anche perché era una fonte non irrilevante di finanziamenti che andavano a risanate i buchi che talvolta si creavano quando i suoi non meglio precisati affari andavano male.
Il Sosia dunque, – che a dir la verità era un ragazzo bello e gentile, – si trasformava nelle notti allo sbando in un violento teppista che aveva sufficiente abilità per non farsi ingabbiare.
Noi aspiravamo a pieni polmoni la sua rabbia che ci sembrava sacrosanta perché eravamo tutti in fondo alla nostra mente un po’ incazzati contro un mondo che non si reggeva su nessuna verità, che aveva programmaticamente escluso ogni sensato procedere per andare a casaccio, favorendo i peggiori, che ci predicava la felicità e ci faceva programmaticamente infelici.
Cosa potevamo fare? era possibile fare qualcosa?
Il Sosia era per noi l’espressione della nostra ira repressa, del nostro desiderio di dare calci all’impazzata. Era l’espressione di un malessere diffuso. Lui con la sua doppia vita, figlio di una famiglia piccolo borghese limitata ma onesta con grandi aspettative sull’unico figlio e nessuna capacità di capire un mondo che stava cambiando alla velocità della luce… Loro a tavola insieme, le domeniche a pranzo fuori, a Pasqua e a Natale in chiesa, loro con le suole un po’ consumate, loro che non si accorgevano che il figlio guardava già da tanto tempo lontano.
Quando arrivava, si sedeva in mezzo a noi con l’aria di chi conosce il mondo e si metteva a parlare per ore di problemi astratti che non lo riguardavano ma che riguardavano noi tutti. Diceva che la sua vita non gli interessava, posto che tutti eravamo destinati a andare a gambe all’aria in tempi più o meno veloci. Diceva che l’Occidente stava scivolando verso la sua fine e che ci trovavamo in un cul de sac e Trieste in qualche modo ne era il simbolo. Immobile eppure circondata da interessi enormi, addormentata nel suo passato eppure mai come oggi aperta a tutti i soffi del male che attraversava il mondo. Eravamo nell’occhio del ciclone dove tutto è immobile e sembra che ci sia la calma di sempre ma è una calma anomala e illusoria perché basta allungare un po’ gli occhi e si scorge l’avanzare della tempesta. (…)

m.t.t. da L’Occidente e parole (Campanotto, 2012)