1
La sosta a Trieste di Alessandro si protraeva più del previsto. Era entrato in punta di piedi in una casa che, nel silenzio calato dopo la morte di sua madre, appariva inquietante. All’inizio aveva cercato di inventariare le condizioni dell’appartamento, ripromettendosi che lo avrebbe venduto e sarebbe ritornato prima possibile a Roma. Ma doveva ammettere che l’idea di staccare il cordone ombelicale che lo univa a Trieste, nonostante da decenni vivesse altrove, lo angosciava. Non è una città, Trieste, da cui ci si separi facilmente. È una città che si può sentire come un cappio sul collo – e così lui in effetti l’aveva sentita negli anni lontani della sua giovinezza – ma che continua a viverti sottopelle. È una città strana, che non si riesce a decifrare, una città che ognuno si porta addosso come un marchio indelebile.
Da quando era entrato nell’appartamento – e aveva cominciato a percorre il corridoio, il lungo balcone che si affacciava sulla città vecchia e s’era messo a guardare il ciuffo d’alberi superstite tra le costruzioni che avevano invaso, negli anni Cinquanta e Sessanta, il rione di san Vito, dopo le distruzioni della guerra, – una strana sensazione s’era impossessata di lui. Certo, negli anni precedenti era venuto molte volte assieme alla sua famiglia a trovare sua madre, in quello stesso terrazzo avevano cenato tutti assieme, serate monotone, che si concludevano sempre con baci e abbracci e la sensazione di avere detto poco o nulla. Ora invece, mentre vagava per le stanze un po’stranito o si sedeva sulla poltrona che era stata di suo padre, aveva la sensazione di star per comprendere qualcosa che gli era sempre sfuggita. Aveva l’impressione che tra le svolte e i non sensi della sua vita ci fosse un filo conduttore, un abbozzo di trama, un nesso che in qualche modo stava per emergere.
Nebbia sulle doline. Così era scritto sulla copertina di un manoscritto che aveva scoperto casualmente nello studio. Lo rigirò per un po’tra le mani. Era la calligrafia di suo padre. La riconosceva. Piccola e curata. Le calligrafie di una volta, piene di personalità e di forza.
Lo scartabellò e vide che parlava di guerra, di quella tragica guerra che aveva trascinato Trieste in un film dell’orrore. Suo padre a suo tempo non aveva mai parlato volentieri di quegli anni, solo accenni brevissimi, qualche episodio isolato, che peraltro Alessandro ascoltava malvolentieri, mentre rincorreva i suoi pensieri e i suoi progetti. Ascoltava, ma non ascoltava davvero, come fanno spesso i giovani quando sentono il racconto di un mondo che li ha preceduti di poco, ma che sembra lontano anni luce. Suo padre alla fine batteva il pugno sulla tavola e sbraitava che tutte le generazioni prima o poi hanno la loro guerra, che tutti devono confrontarsi con la lotta della vita, che lui doveva imparare. Che cosa avrebbe dovuto imparare? Che cos’era la lotta per la vita? Perché la vita avrebbe dovuto essere una lotta? Alessandro aveva sedici anni ed era tutto intento a ritagliarsi i suoi spazi, a mettere tasselli di felicità e di possibile comunicazione, ma si imbatteva nei suoi genitori che incombevano dall’alto della loro insensibilità e della loro forza. Le sue idee di un’esistenza pacifica, basata su rapporti di giustizia e di collaborazione facevano ridere suo padre che continuava ad affermare che in natura il più forte mangia il più debole, che l’uomo è un animale e non si può sottrarre alle regole del gioco, e che lui, Alessandro, nella lotta della vita sarebbe stato un soccombente se non si fosse esercitato a non avere paura di nulla, a dare pugni all’occorrenza e a non tirarsi mai indietro. Alessandro era un ragazzo tranquillo, passava più ore sui libri che in strada e suo padre non cessava mai di prenderlo in giro. Nel campo delle idee poi non si incontravano affatto. Le parole del padre,– inneggianti alla forza e talvolta alla violenza,– erano lontane mille milia dalla sua sensibilità. Era il tempo dei Beatles e dei Rollingston, di quelli che, a torto o a ragione, volevano un mondo di fiori e d’amore. Così per lo più si tappava le orecchie, non ascoltava le critiche paterne, cercava una ragione o l’altra per uscire.
Da Roma telefonò sua moglie chiedendogli se aveva contattato l’agenzia. I tempi erano quelli che erano, non si poteva sperare di vendere subito. Prima si metteva la casa sul mercato, meglio era. Alessandro non aveva nessuna intenzione di fare in fretta. Non aveva voglia di svuotare l’appartamento, distruggere quello che rimaneva della vita di sua madre, chiudere in qualche scatola gli oggetti che avevano abitato indisturbati per tanto tempo quelle stanze. In quella casa, dove sua madre aveva trascorso molti decenni, era ancora presente il rumore dei suoi passi, l’eco della sua voce. Gli oggetti che quotidianamente usava continuavano a parlare della sua vita. Era troppo presto per annientare quelle presenze, far piazza pulita di tutto, distruggere anche il suo fantasma. E poi aveva il manoscritto di suo padre da leggere. Uscì sulla terrazza, si sistemò su una vecchia poltrona di vimini e iniziò.
2
Nei primi mesi dell’anno 1943, quando ero ormai certo di non ricevere alcuna chiamata alle armi, mi arrivò la cartolina precetto che mi ingiungeva di presentarmi subito alla capitaneria di porto. Nell’ufficio di reclutamento trovai una situazione inaspettata. Chi sedeva a quei tavoli non apparteneva alla Regia Marina. Rimasi per un attimo sbigottito. “Vi arruoliamo nella Milizia Marittima di Artiglieria” mi disse un seniore della milizia fascista che presiedeva pomposamente quel consiglio di leva. In un angolo, quasi appartato, sedeva un unico ufficiale che indossava la divisa della Marina. “Non mi arruolo nella Milizia Marittima di Artiglieria” dissi con calma. Non sapevo neanch’io perché avessi risposto così e con tanta freddezza. Non erano tempi in cui si poteva controbattere le parole di un seniore della milizia fascista. L’ufficiale in camicia nera, carico di nastrini, decorazioni e orpelli trasecolò. Un borghese, un semplice ex marinaio, osava rispondere a quel modo? “Non posso accettare questo arruolamento!” ripetei con convinzione. “Ho presentato due domande di arruolamento volontario nella Regia Marina: attendo il richiamo.” “Tu sei una persona colta, hai un diploma, noi ti mandiamo al corso ufficiali della Milizia Marittima,” mi disse un Ufficiale che passava in quel momento e aveva visto non so come la mia pratica. “Voglio indossare la mia divisa da marinaio e non altre” replicai io. “Su una nave ti possono assegnare ai lavori più umili. Sei un uomo anziano.” In effetti avevo quasi trentasette anni ed ero convinto di aver scapolato il richiamo. “Se debbo fare il mio dovere, voglio farlo con il solino sulle spalle” ribadii serio. “Siete testardo e incosciente, basta!” urlò il seniore quasi balbettando per lo sdegno. “Non si sceglie il modo di servire la Patria. Uscite!” Nel corridoio mi sentii mancare. Il pavimento vacillava sotto di me. Dopo un quarto d’ora circa, un milite che prima non avevo notato, forse uno scritturale, si affacciò all’uscio e mi fece cenno di entrare. “Ti diamo un mese di licenza” mi disse l’ufficiale di Marina. “Riceverete l’ordine di raggiungere la vostra destinazione” aggiunse il seniore della milizia. Uscii facendo un lieve cenno col capo, senza alzare il braccio nel saluto romano e guardando soltanto l’ufficiale di Marina che cautamente mi sorrideva. “Un mese. Ottimo. Quante cose possono accadere in un mese” pensai oltrepassando l’uscio. Mi sentivo stranamente leggero.
Arrivò inaspettata anche per me, che pur prevedevo la disfatta, il 25 luglio. Benito Mussolini aveva perduto la guerra ed anche il diritto di governare l’Italia. Il Gran Consiglio del Fascismo, l’organo supremo da lui stesso voluto e ideato, lo aveva destituito ridando al re, Vittorio Emanuele III, la guida della nazione ormai stremata e in piena rovina. Intanto gli anglo-americani già sbarcati in Sicilia inasprivano i loro attacchi. Qualche giorno dopo, aprendo il giornale sopra il mio tavolo di lavoro, appresi che il generale Badoglio aveva formato il nuovo governo. Sulle stesse pagine veniva riportato il primo proclama. Com’ero stato preveggente nella mia incoscienza! Laggiù, nel profondo sud dell’Italia, avrei potuto trovarmi a quell’ora con le armate alleate di fronte e il caos alle spalle.
Iniziai a leggere il proclama: Il dovere degli italiani. Roma 26 luglio 1943 Il Capo del Governo Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, ha diretto alla Nazione il seguente appello: “Italiani! Dopo l’appello di S.M. il Re Imperatore agli Italiani e il mio proclama, ognuno riprenda il suo posto di lavoro e di responsabilità. Non è il momento di abbandonarsi a dimostrazioni che non saranno tollerate. L’ora grave che volge impone ad ognuno serietà, disciplina, patriottismo fatto di dedizione ai supremi interessi della Nazione. Sono vietati gli assembramenti e la forza pubblica ha l’ordine di disperderli inesorabilmente.” A Trieste la tutela dell’ordine pubblico era stata assunta dal generale Alberto Ferrero che disponeva per prima cosa il divieto di circolare, dalle ore 22 alle 5 in gruppi superiori a tre persone. Per le strade intanto i carabinieri, con molto tatto, invitavano i cittadini a togliersi dall’occhiello il distintivo del partito fascista.
3
Alessandro strinse tra le mani il manoscritto. Prima di iniziare la lettura lo aveva scartabellato un po’. Era il diario della lotta partigiana sul Carso triestino, lotta a cui suo padre aveva partecipato. Un diario fitto, centinaia e centinaia di pagine ingiallite dal tempo, il resoconto di quegli anni e il racconto di cos’erano stati quegli anni per suo padre. Si sentiva emozionato, sudato. Forse quelle pagine gli avrebbero consentito di comprendere meglio la sua famiglia, la sua città. Forse avrebbe potuto fare pace con la sua infanzia, con la sua giovinezza piena di insoddisfazioni e di lotte. Quanto si erano scontrati, lui e suo padre, talvolta per futilità, per motivi banali, ma più spesso per questioni di principio, per idee diverse, per una diversa sensibilità. Cosa divide una generazione dall’altra? Alle volte poco, – in fondo le coordinate della vita sono sempre le stesse, – ma qualcosa nell’aria cambia, la sensibilità è diversa, il modo di intendere la vita non è più lo stesso. Spesso si finisce col non capirsi. Oppure ci si rifugia in una comunicazione superficiale che lascia ampi spazi all’autonomia. Si vive da intimi estranei. La famiglia diventa un disperato luogo di non comunicazione, unita da monotoni riti che la fanno sembrare serena. Ma nel suo caso c’era di più. Tra la vita sua e quella di suo padre c’era stata una guerra. Una guerra dura e fratricida. C’era stato, negli anni che avevano preceduto la sua nascita, un massacro immane che aveva sconvolto i paesi dell’Europa. A Trieste, in modo speciale, la guerra aveva lasciato strascichi pesanti. Negli ultimi anni del conflitto e nel dopoguerra la città era stata sede di uno scontro feroce che l’aveva ferita profondamente. I tedeschi vi avevano esteso dal 43 la zona di operazioni dell’alto Adriatico, l’Adriatischer Küstenland, e la zona era direttamente sottoposta all’amministrazione tedesca; Trieste era l’unica città in Italia che avesse un campo di concentramento, la Risiera; inoltre le rivendicazioni degli slavi erano ben note: Trieste doveva far parte della Jugoslavia. Per quelli che auspicavano una Trieste italiana le alternative e le possibilità di azione erano piuttosto risicate. Il CVL, praticamente una prosecuzione del fronte democratico nazionale, a cui suo padre gli aveva raccontato di aver aderito, aveva avuto vita difficile e stentata. Non aveva certamente le possibilità degli altre associazioni partigiane sparse per l’Italia, che godevano dell’appoggio e dei contributi di tutti i partiti, in special modo del partito comunista.
A Trieste i partiti della sinistra erano vicini all’ideologia che voleva Trieste parte della Jugoslavia ed erano organizzati e appoggiati da oltre confine dai partigiani jugoslavi, molto più agguerriti e numerosi dello sparuto gruppo dei triestini, e, oltre a ciò, con supporti internazionali notevoli. La scelta di suo padre di quegli anni non era stata facile né indolore.