Marinare la vita di Claudio Magris

20151026_191415Giornata grigia. Nebbia sottile che sloga i contorno delle cose. Trieste era famosa per la bora ma ultimamente d’inverno qui dominano pioggia e nebbia. L’appuntamento con Claudio Magris è al Caffè San Marco, sotto le maschere che lo scrittore ha immortalato in Microcosmi, l’opera che vinse nel 1997 il premio Strega. “Non è male riempire i fogli sotto le maschere che ridacchiano e tra l’indifferenza della gente seduta intorno. Quel bonario disinteresse corregge il delirio d’onnipotenza latente nella scrittura, che pretende di sistemare il mondo con alcuni pezzi di carta e di sdottorare sulla vita e sulla morte. Così la penna si intinge, volente o nolente in un inchiostro temperato con umiltà e ironia. Il caffè è il luogo della scrittura. Si è soli, con carta e penna, e tutt’al più due o tre libri, aggrappati al tavolo come un naufrago sbattuto dalle onde” scrive il grande germanista. Ci sediamo a uno dei “tavolini di marmo dalla gamba di ghisa, che finisce con un piedestallo poggiato su zampe di leone” e ordiniamo un cappuccino.
Professore, in Trieste. Un’identità di frontiera lei ha scritto: “Il contrassegno della triestinità è l’eccezione: ancor oggi, rispetto al numero dei suo abitanti, al modesto livello delle sue istituzioni letterarie, Trieste produce un numero proporzionalmente alto di notevoli scrittori e soprattutto una discreta qualità di vita privata e di cultura individuale. Trieste è un intérieur, stimolante per chi sappia cogliere nella sua aura i segreti della crisi generale d’identità e per chi sappia sfruttare la libertà che offre l’intérieur: libertà di vagabondare, di sostare, di riflettere e di tacere. Oggi l’intelligenza, nei grandi centri, rischia di perire soffocata dall’ansioso incalzare dell’industria culturale che stritola l’individuo condannandolo al ritmo di una prestazione intellettuale senza posa, che gli impedisce di rinnovasi e finirà per condurlo all’analfabetismo. La periferia e la provincia potrebbero offrire all’individuo le condizioni per la sua sopravvivenza spirituale, se egli sapesse godere la vita e la pausa per trasformarsi e rinascere anziché sentirle, come spesso avviene, quale esclusione ed inferiorità, che lo inducono a mimare quella frenesia con un’attività altrettanto frenetica e ancora più alienante, perché rivolta a problemi minori”. Si riconosce in questo passo?
Nell’insieme sì. Va comunque detto che la realtà è in continua trasformazione e ci sono sempre nuove frontiere, a Trieste come dappertutto, e quelle attuali credo siano le nuove minoranze etniche presenti sul territorio; a Trieste non c’è più il problema del rapporto con gli sloveni ma invece dobbiamo imparare a interagire con le minoranze asiatiche e nordafricane presenti in gran numero. È un campo però che mi è in buona parte sconosciuto. Quanto all’ambiente umano, la provincia indubbiamente è un intérieur che presenta aspetti potenzialmente positivi ma talvolta l’individuo non sa coglierne le opportunità, e allora diventa peggiore rispetto alla metropoli, dove la libertà individuale almeno viene garantita. La metropoli sottrae l’individuo dal controllo geloso di una collettività, – pensi al Faust di Goethe, la tragedia di Margherita non sarebbe successa in una metropoli, – la metropoli è uscire da sé, ha aspetti che la provincia non offre. Anche il Vangelo dice: ”Lascerai tuo padre e tua madre”. Il Vangelo invita a staccarsi dal grembo materno. La mamma è anche il borgo natio, la piccola patria, l’identità nazionale e religiosa. Poi si capisce che anche le metropoli presentano tutta una serie di problemi, dalla violenza alla solitudine, che vanno affrontati. Mi si domanda spesso di parlare di Trieste – a dire il vero non solo di Trieste ma degli argomenti più disparati, le posso dire che ho fatto una statistica delle richieste medie al giorno, sono 12,3 – ma per quel che concerne Trieste le posso dire con schiettezza che quello che avevo da dire l’ho detto e chiunque, se interessato, può leggerlo ma è evidente che se continuamente vengo interpellato su quest’argomento o anche su altri, in queste continua richiesta di output non ho nemmeno il tempo di accorgermi di quello che cambia. La Trieste che ho delineato vent’anni orsono sotto certi aspetti indubbiamente si è modificata. Einstein ha detto che se uno fa una scoperta importante, in qualsiasi campo, poi è finito; sarà costretto a fare l’amministratore, il promotore, il segretario, il pubblicitario della scoperta stessa e non avrà il tempo materiale di farne altre. Questo mondo ci induce a comportamenti assurdi, anche per quel che riguarda i libri, la promozione degli stessi sottrae tempo all’autore per scriverne altri, dedicarsi ad altri argomenti, fare nuove esperienze. E invece è necessario ritagliarsi dei momenti per rigenerarsi, trasformarsi, rivedere quello che si è detto, correggerlo e modificarlo, se occorre. Questa continua pressione impedisce la dovuta concentrazione. Naturalmente la colpa è anche un po’ nostra. È come se fossimo al cinema e uno si alzasse e impedisse agli altri di vedere e così gli altri si alzano, diciamo che io dico che non bisogna alzarsi ma fatalmente mi contraddico nell’atto stesso che lo sto dicendo, visto che lo dico stando in piedi.
Viviamo in un mondo in cui le informazioni finiscono col vanificarsi nella loro quantità. L’incremento di comunicazioni è indubbiamente un arricchimento, ma oltre a un certo limite può generare un fenomeno negativo…
Certo. Il vorticoso sovraffollarsi di informazioni, stimoli e cambiamenti si autocancella di continuo, mutila la memoria, disintegra il tessuto culturale comune. Viviamo in una condizione paradossale; mai come oggi disponiamo di mezzi di informazione in grado di informarci in tempo reale di ciò che accade nel mondo e di analizzare, in teoria, la realtà nei minimi dettagli, ma in fondo sappiamo molto poco. Questo è dovuto anche al fatto che la marea di informazioni impedisce di soffermarsi sull’informazione stessa e di assorbirla, perché subito ne arrivano cento altre. Ma soprattutto si è creato una specie di culto dell’informazione fine a se stessa, e così sembra spesso che, più che la realtà su cui si informa, conti l’informazione in sé. La televisione e i giornali, anziché riferire i fatti, sono pieni di servizi e articoli che riferiscono le parole di un uomo politico su un fatto, le reazioni verbali di altri uomini politici alle sue parole, le repliche di altri a quelle osservazioni e così via. Qualcosa di analogo avviene anche in campo culturale, dove si sostituisce la lettura di un libro con discorsi sul medesimo, la critica all’intervista con l’autore, e nel complesso non vengono dati molti elementi di conoscenza ma si discute sulle discussioni. È come se a un ristorante si passasse tutto il tempo a leggere il menu, a commentarlo e poi si mangiasse in due minuti. Credo che si sia perso un po’ nell’informazione il rapporto che nella metafora culinaria c’è tra il menu e quello che viene servito a tavola. È ovvio che uno al ristorante consulti il menu ma non sarebbe logico se leggesse per tutto il tempo solo quello. E invece qualcosa di analogo succede. Per non dire poi che gli autori sono sommersi da richieste di parlare dei più disparati argomenti, anche di quelli che non sono di loro stretta competenza…
Come ci si può difendere?
Svicolando. Marinando la vita, questo l’ho detto tante volte… Io quando andavo a scuola facevo spesso lippe, non perché non mi interessasse la scuola, è chiaro che non potevo marinare la scuola sempre… comunque si deve cercare di difendere la propria indipendenza di pensiero e di gusto, sentirsi liberi dal dovere di essere informati su un determinato fenomeno solo perché se ne parla, di leggere e conoscere un libro solo perché è l’argomento delle discussioni del momento, bisogna abbandonarsi alle proprie predilezioni anche anarchiche, interessarsi a quello che passa per la testa e non solo all’ordine del giorno che ci viene imposto dalla realtà; insomma, marinare la scuola della cultura e delle informazioni ufficiali.
Ci sarebbe molto da dire sui mali del presente…
Quest’atteggiamento però non deve indurci a sterili piagnistei né tantomeno ad ancor più sterili e nostalgiche idealizzazioni del passato, che è stato anch’esso pieno di menzogne e di falsificazioni e ha visto intere categorie di persone umiliate e violentate senza che nemmeno se ne avesse la coscienza. Noi viviamo indubbiamente molto meglio di come si viveva un tempo, però è necessario anche polemizzare contro quello che oggi non funziona.
Facciamo qualche esempio…
Per non uscire dal campo culturale possiamo dire che, se anziché disperdere una gran quantità di danaro per finanziare convegni ed eventi a cui partecipano quattro o cinque grandi nomi illustri, che continuano a ripetere cose che hanno già detto e ridetto più volte, si dirottasse quel danaro verso le scuole, affinché le biblioteche scolastiche fossero più fornite, sarebbe molto meglio. I grandi eventi, le commemorazioni, i convegni assorbono molto danaro pubblico e non danno un ritorno paragonabile a quello che produrrebbe un’analoga quantità di danaro indirizzata verso le istituzioni scolastiche. Ci sono sempre pochi soldi per la cultura vera e troppi per quella di immagine. Un tipo di finanziamento di questo genere è sbagliato e uccide la cultura. Ritornando alla metafora del cinema, tutti nella nostra società si alzano in piedi e anch’io, essendo di statura abbastanza alta, ho potuto beneficiare. Ma questo non toglie che il costume è sbagliato ed è necessario denunciarlo. Il nostro compito non è quello di occuparci di quello che va bene ma di denunziare quello che non va.
Quindi l’intellettuale non può restarsene fuori dalla vita ma deve prendere posizione?
Indubbiamente. Ci si sente in dovere di intervenire. Dico spesso che ci sono gli articoli che ho scritto volentieri, come gli articoli di viaggio, ma molti altri che non avrei scritto se non lo avessi sentito come un dovere, un imperativo morale.
L’intellettuale ha anche un impegno etico…
Il discorso è complesso. Ci sono dei doveri che sono propri dell’uomo, di tutti gli uomini intendo; essere leali, soccorrevoli, sinceri, fedeli è un fondamento di ogni esistenza. L’etica non è un moralismo astratto, è una dimensione della vita. Un’altra cosa ancora è l’impegno etico attraverso l’attività giornalistica e di pensiero. Per quel che riguarda la letteratura possiamo dire che la grande letteratura non predica, non è questo il suo compito, non fa lezioni di moralismo astratto ma ci fa capire come l’etica diventi sostanza della vita attraverso i fatti narrati. Joseph Conrad non impartisce sermoni, ma leggendo le sue storie si capisce, si sente cosa vuol dire vivere nella lealtà o nella menzogna, nel coraggio o nella paura, nel buon combattimento o nella diserzione. In questo senso – ma solo in questo senso – la letteratura è un’educazione all’umano, efficace solo se non si propone di educare ma lo fa d’istinto, con la rappresentazione delle cose.
Lei si considera un “impolitico”?
“Impolitico” nel senso dato a questo termine da Thomas Mann, nel senso cioè di uno che non ha la passione della politica. Io sono uno che da studente non andava mai alle assemblee, non ho questa passione, amo di più il mare o la musica ma sappiamo che affinché tutti possano andare al mare, o se non tutti, perlomeno un buon numero, bisogna pagare il prezzo della politica, perché, se viene fatta una legge cattiva, lo stesso mare è in pericolo; l’interesse dei più diventa quindi anche tutela del proprio interesse.
Alla nostra società si potrebbe anche rispondere ritirandosi in un’aristocratica solitudine…
Non credo sia la via giusta. Non penso che sia bene vivere da eremiti. La solitudine è anche in qualche momento necessaria all’individuo ma l’uomo è nato per stare assieme agli altri, per dare alla società il suo contributo, poi paradossalmente succede che la società di massa premi quelli che hanno la furberia di presentarsi come dispregiatori della stessa e se ne stanno al di fuori, vedi Salinger ad esempio, perché è un tipico prodotto della società di massa e di consumo celebrare quei pochi che la disprezzano ma questo è un altro discorso, penso che ognuno debba essere libero, libero di non leggere l’ultimo libro di cui si parla, libero di non partecipare ai dibattiti prevalenti in quel periodo, se lo desidera, ma guai se in questo rifiuto c’è una componente aristocratica, – siccome gli altri vanno io non ci vado, – sarebbe assurdo come se io non leggessi un libro solo perché ha vinto il premio Strega, questo non rientrerebbe nel concetto di libertà di cui parlavo. E infine tutto andrebbe preso con una certa leggerezza, a questo proposito chiuderei con una battuta che attesta la grande saggezza austriaca e dice che, dovendo scegliere tra due errori, è meglio scambiare un genio per un imbecille che un imbecille per un genio.
Intervista di Marina Torossi Tevini pubblicata su Stilos n 2 ( febbraio 2011)