Estratti

Sydney | Bluoceano – Appunti di viaggio

Se uno in Europa, vedendo vecchio e nuovo mondo che lottano, il welfare al collasso, la mostruosa proporzione tra attivi e inattivi può pensare che in qualche modo al passato si possa ritornare – invertendo la marcia o dopo un’esplosione – in paesi che sono più avanti di noi quanto a tenore di vita e globale benessere come l’Australia si vede con chiarezza che il post capitalismo ha vinto alla grande. Dovunque dominano i grandi marchi di moda, l’acquistare come occupazione, scopo di vita, passatempo dominante. Povero Fromm, altro che essere! Il dilemma degli anni 60 tra essere e avere si è concluso con una vittoria incontrastata del secondo (e si sono confuse e alterate le proporzioni). Eppure non si sta male in questi paesi, anzi, i parchi e i giardini urbani sono curati splendidamente, la gente ha a cuore il proprio benessere, si vedono grattacieli che spuntano come funghi, anche perché a Sydney lo spazio è circoscritto dal mare e da parchi e zone montuose, quindi ci si deve sviluppare in altezza, ma non mancano ampi sobborghi di quartieri residenziali molto vivibili e dai prezzi stratosferici, mentre nella city si sostituiscono i manufatti vecchi anche di soli 25 anni con nuovi e più avveniristici, a stento sono riusciti a resistere alcuni quartieri o edifici storici che qualcuno aveva intenzione di abbattere per far posto a nuove costruzioni. Il capitalismo macina utili immensi e ormai si è affermato incontrastato.

Sydney
Sydney
Sydney
Sydney

Passeggiando per Sydney si vedono nelle vie centrali imperversare i grandi marchi ma sono onnipresenti anche quelli a basso costo che producono utili ancora maggiori. “Darei fuoco a tutta questa roba” commenta mio marito. “Non so chi possa essere interessato a passare la vita a compere vestiti e oggetti inutili. La fiera dell’inutile”. Lui per un viaggio di 4 mesi si porta dietro tre maglie e tre camicie. Io magari qualcosina di più e non snobberei del tutto qualche moderata deviazione in questi immensi store. Ma non amo certo questo concentrato esponenziale per consumatori compulsivi.

Sydney - Market Street
Sydney – Market Street

I più assidui mi sembrano gli asiatici che entrano ed escono dai negozi armati delle loro mascherine. “Lavorano come pazzi per poter avere tutto questo”, aggiunge mio marito. Belle case, vestiti firmati, auto di grossa cilindrata. In effetti tutti lavorano, la disoccupazione è irrilevante e avere più lavori è abbastanza consueto. Dall’Asia scendono nuove leve, spesso nella forma di studenti che frequentano le università locali molto costose per poter poi inserirsi nel mondo australiano, ma anche manovalanza destinata all’edilizia, settore che conosce in questo periodo un vero e proprio boom. Si costruisce di tutto, non solo stupendi grattacieli ma anche bellissimi e silenziosi tram che scivolano sulle loro rotaie sistemate su un cuscino di gomma che fanno sì che il tram ti possa travolgere meravigliosamente e tu passi a miglior vita senza accorgerti nemmeno. “Com’è più bello un paesino toscano a misura d’uomo!” continua a dire mio marito. Ma qui si vive bene e tanti scelgono di raggiungere questa terra lontana per fare fortuna.

Sydney di notte
Sydney di notte

Aqaba | Bluoceano – Appunti di viaggio

Arriviamo ad Aqaba. Il porto giordano ci accoglie col suo alto minareto e il canto del muezzin che chiama alla preghiera i fedeli. La giornata sarà per noi lunga e faticosa. Siamo stati già a Petra due anni fa, ma sarebbe un vero peccato restarcene in uno stabilimento balneare quando ci sono ancora mille sorprese tra quelle rocce rosa in mezzo alle gole e così nonostante gli Usa abbiano avuto la bella pensata di sganciare più di un centinaio di bombe sul suolo siriano dalle loro basi sul mar Rosso proprio la notte precedente al nostro arrivo decidiamo di avviarci verso Petra.
La guida giordana che ci accompagna esordisce dicendo: “Noi siamo tutti siriani”, e poi dimostrando una cultura notevole, snocciola tutte le colpe riconducibili all’Occidente in senso lato dal tempo di Esaù e dell’impero romano. “Madonna, qui non arriviamo a Petra – penso – questo mi sembra proprio arrabbiato, in una di queste gole ci prende e ci sgozza”.
Saliamo per strade tortuose che conducono tra deserti e montagne a Wadi Musa da dove si accede al sito di Petra. Intorno deserto sassoso e qua e là detriti a bordo strada. “Il deserto è bellissimo” dice la nostra guida “Se ti inoltri e ti lasci catturare dal suo fascino lo capisci davvero”. Qua e là si vedono campi di nomadi beduini con pecore e cammelli. “Dovreste trascorrere una notte in una tenda” continua.
“Mi sarebbe sempre piaciuto”, dico io “ma non ho mai avuto l’occasione di farlo e poi temevo le scomodità”. “Scomodità? Ma no! Sono tende a 4 stelle” dice la guida, “tende da mille e una notte”.
“Mi piacerebbe, forse una volta lo farò” dico io.
“Sono stato in Europa e anche in Italia” continua la guida, che parla benissimo l’italiano, “ma ho capito una cosa, noi non abbiamo bisogno dell’Europa, qui c’è la bellezza”.
È vero. Il deserto ha un grande fascino, specie la notte. Credo che un cielo stellato faccia diventare più saggi delle nostre luci al neon.
“La Siria è diventata il campo di calcio tra russi e americani (e francesi e inglesi non stanno a guardare) per giocarsi la ricostruzione” continua la nostra guida. “Ma intanto la gente muore”.
Ha ragione, è indegno quello che si sta compiendo.
Arriviamo a Petra, la meravigliosa città rosa dei Nabatei, rimasta per tanto tempo nascosta all’umanità. Percorriamo lo stretto canalone, poi si apre la meraviglia del tesoro e la vallata che conduce alle tombe, al teatro e al colonnato.

Petra - Il Tesoro
Petra – Il Tesoro
Petra - Il Tesoro
Petra – Il Tesoro

La giornata è calda più di due anni fa, ma scopriamo alcune rocce che ci erano sfuggite e qualche particolare inedito qua e là in una meraviglia di colori.

Petra - Tombe reali
Petra – Tombe reali

La cucina giordana, piccantissima, è nell’insieme gradevole.
Il ritorno è meditabondo e sonnacchioso, ma alla fine riesco a far uscire il nostro accompagnatore dal suo silenzio. Vedo che è saggio e molto critico verso di noi, ma non è cattivo.
“Chi può essere malvagio quando guarda il cielo stellato?” dice. “È l’unica cosa che conta”. Concordo e ricordo i cieli stellati in montagna che per me sono sempre stati i panorami più belli. Sorride.
Penso che il viaggio ci ha regalato molte emozioni. Anche questa giornata è preziosa.

Nuova Caledonia | Bluoceano – Appunti di viaggio

All’alba avvistiamo la Nuova Caledonia, un’isola vasta che costeggiamo per parecchio tempo a distanza ravvicinata. Si può distinguere il paesaggio nei minimi particolari. La vegetazione è gradevole e colpisce l’assenza o quasi di infrastrutture sulla costa nord dell’isola. Ci sono soltanto alcuni piccoli insediamenti e grandi pale eoliche. Il territorio offrirebbe amplissimi margini di sviluppo.

paesaggio Nuova Caledonia
paesaggio Nuova Caledonia

“Eh sì – ci dice una giovane friulana che da qualche anno si è trasferita a Noumea. Potrebbe essere un vero paradiso. Le potenzialità sono infinite, ma la popolazione locale è abbastanza indolente e non prende molte iniziative. La natura è più che generosa. Bellissime isole nelle vicinanze da raggiungere con la barca per una scampagnata festiva, una laguna dalle dimensioni enormi con una biodiversità unica, la possibilità di praticare un’infinità di sport all’aria aperta tutto l’anno, un clima da favola, alberi che offrono ottima frutta, un mare pescosissimo”.
“Che meraviglia – dico – ma qualche difettuccio questo paradiso ce l’avrà pure?”
“No no – insiste la ragazza che, dopo aver vissuto per cinque anni in Francia, stufa della nostra Europa fossilizzata e stantia, ha deciso di trasferirsi qui con il marito. – Solo i prezzi degli appartamenti e in genere della vita sono abbastanza alti. Essendo dipendente dalla Francia, ha vantaggi e svantaggi. C’è il monopolio sui traffici, però ci sono anche aiuti e supporti. Gli abitanti premono per l’indipendenza e a fine anno si voterà. Staremo a vedere”.
“E le zanzare?” chiedo io sempre molto preoccupata del problema.
“Purtroppo sì, ce ne sono parecchie e in questo momento c’è un’epidemia di dengue, malattia che, se non è preoccupante come la malaria, non è neppure una passeggiata”.
Peccato, penso tra me, perché un mezzo pensierino l’avrei anche fatto.
Mentre passeggio per Noumea, che è una città di 250.000 abitanti con belle case e un discreto tenore di vita, penso che tanti dei luoghi comuni che diamo per scontati andrebbero messi in discussione. Ad esempio l’idea che il mondo sia sovrappopolato. In realtà sovrappopolati sono solo l’Europa e ampie zone dell’Asia, mentre vi sono nell’emisfero australe vastissime zone poco abitate. Certo sono un po’ fuori mano, qui ad esempio siamo a una trentina di ore di volo dall’Italia. Ma che cos’è la nostra piccola Europa nella vastità del mondo?

Noumea
Noumea

Patagonia | Bluoceano – Appunti di viaggio

Da Port Madryn scendiamo lungo la costa in direzione di Cape Horn. Man mano che  procediamo il clima si raffredda, l’oceano diventa più inquieto e già prima dell’imbocco dello stretto di Drake la nave comincia a rollare in tutte le possibili direzioni.
Siamo nel mare più arrabbiato del mondo, ci dicono dal ponte di comando, nel braccio di mare dove si scontrano le acque dell’oceano Atlantico e quelle del Pacifico. Man mano che ci avviciniamo al capo, a causa della differenza di fondale, che passa bruscamente da 4000 a 100 metri, si formano onde anomale. Soffiano forti venti che raggiungono i 120 km all’ora, mentre l’acqua ha una temperatura prossima allo zero e vediamo galleggiare iceberg alla deriva.
Gli iceberg per fortuna sono piccolini, ma la navigazione intorno al capo, che circumnavighiamo per sport, perché la nostra direzione è il canale di Beagle e il porto di Ushuaia, non si rivela facile. Anche dopo aver superato lo scoglio a mezzaluna, che segna la separazione tra i due oceani, le acque rimangono piuttosto inquiete. Non è facile addormentarsi.

Cape Horn - scoglio a mezzaluna
Cape Horn – scoglio a mezzaluna

“Durante il tragitto, prima di toccare Ushuaia, dovemmo ancorare addirittura tre volte perché forti uragani di terra ci assalirono in modo brusco e repentino, senza darci tregua” – sono ancora parole tratte da Orizzonte mobile. – “Poi, quando tutto è calmo e cielo e mare non sono turbati da alcun soffio né fremito visibile, un mormorio sordo scende dalle cime dei monti, rotola lungo i fianchi come una valanga rovinosa, e un sibilo stridente si insinua tra le antenne, inclinando la nave tutta da un lato. Ma dopo qualche istante ogni cosa rientra in una calma perfetta”.
Alternanze insospettabili di elementi, scatenati in una realtà quasi irreale, di cui facciamo, almeno tangenzialmente, esperienza. La Patagonia è davvero una terra estrema, dove gli elementi naturali sono sempre tesi a dare all’uomo una lezione della loro potenza.
Sbarcati a Ushuaia troviamo a sorpresa una ridente cittadina che sembra un paesino di montagna. Ci sono sullo sfondo ghiacciai e lo stile delle case è decisamente nordico. Salvo l’odore di mare e gli uccelli marini sembra di essere in una valle alpina. Abbiamo questa sensazione anche quando saliamo sul treno chiamato “della fine del mondo” e ci inoltriamo nel parco della Terra del fuoco. Ci sono margherite, tarassachi e un mix di fiori che ricordano le nostre vallate alpine. Il treno è il modello di quello che trasportava i carcerati a raccogliere legna. Lo zelo dei detenuti ha reso questa zona una sorta di foresta fantasma. Rimangono solo i moncherini fossilizzati degli alberi abbattuti.
Visitiamo il museo sugli antichi abitanti del luogo che ci racconta la loro sventurata colonizzazione. “Nel 1831 Robert Fitzroy venne in contatto con gli indigeni Yagan. Non erano cannibali ma nemmeno dei santi. Tenevano i fuochi accesi anche nelle canoe e come gli Alakaluf vivevano di pesca, mentre gli Ona cacciavano il guanaco con delle fionde ricavate da un ossicino a forcella di balena. Per questioni di donne o di clan si massacravano spesso tra loro. Avevano una lingua complessa e poetica”.

Ushuaia
Ushuaia

La gente che vediamo nelle strade di Ushuaia è un mix tra argentini, attirati negli ultimi anni da incentivi, e abitanti autoctoni che si riconoscono per la rotondità della faccia e il colorito olivastro. Paradossalmente l’inquinamento è notevole. Come in tutta l’Argentina la scarsa qualità della benzina e del diesel rende irrespirabile l’aria.

Usciti dal porto di Ushuaia dopo una breve navigazione imbocchiamo il canale di Beagle che ci consente di ammirare da vicino i ghiacciai, enormi lingue che scendono fino al mare e immani cascate di ghiaccio. Sfilano davanti a noi il ghiacciaio Olanda, Italia, Francia, Germania e Romance che possiamo ammirare con la luce splendida di un tramonto inoltrato che li illumina. Uno spettacolo dalla bellezza davvero incredibile. Navighiamo poi nel canale di Ballenero, nel fiordo O Brien e infine nel canale Cockburn e nel canale Magdalena.

Canale di Beagle – Ghiacciaio Italia
Canale di Beagle – Ghiacciaio Italia

I fiordi cileni sono molto belli e li percorriamo per diversi giorni ammirando i ghiacciai che si protendono nell’acqua mentre piccoli iceberg si staccano e vagano nel mare. La nave volteggia, si avvicina ai ghiacciai per consentirci di godere quel panorama superbo. La montagna e il mare si uniscono. Dai ponti il panorama a 360 gradi fa venire i brividi. Tutti sono col naso in su e anche l’equipaggio scappa in fretta dal lavoro in maniche corte per scattare qualche selfie con ghiacciaio da spedire agli amici.

Bombardamento | Trieste. La resa dei conti

Suonarono le sirene. Abbandonai l’ufficio in fretta e raggiunsi mia moglie: la giornata era splendida. Sulle pendici del colle di San Luigi abitava un’amica comune; l’avremmo raggiunta e in sua compagnia avremmo atteso il segnale del cessato pericolo, forse nel suo giardino o passeggiando al sole nelle vicinanze. Tranquilli, senza alcuna preoccupazione, c’incamminammo verso la verde collina, felici per la chiarezza del cielo azzurro, dell’aria pura. Ma giunti davanti all’Ospedale Maggiore mia moglie si fermò improvvisamente. “Gli aerei!” gridò afferrandomi una mano. Il rombo dei motori si avvicinava con un crescendo pauroso. Guardai verso l’alto: stava passando un bombardiere a bassissima quota. I sibili delle bombe e gli scrosci tremendi si confusero. Afferrai per la vita mia moglie e la spinsi di slancio nel più vicino portone mentre alle sue spalle il manto stradale si copriva di uno strato di vetri frantumati. Una testa umana saldata ancora nel suo elmetto di vigile del rifugio accanto, rotolava lontano. Una bomba aveva colpito lo stabile attiguo a quello in cui ci eravamo rifugiati. Molte donne addossate al muro del portone piangevano e pregavano terrorizzate. I bimbi strillavano tra le braccia delle loro madri; degli uomini fissavano impietriti la volta dell’atrio convinti di vederla crollare da un momento all’altro.

L’ondata era passata: le bombe cadevano ancora, ma lontano. Guardai fuori e pensai di raggiungere uno stabile vicino che mi sembrava più massiccio. Correndo, tenendo sottobraccio mia moglie, m’infilai nell’altro portone. Trovai la stessa scena. Donne e bambini che piangevano, uomini atterriti che aspettavano il peggio. La nostra abitazione distava una cinquantina di metri: desideravamo raggiungerla. I nostri mobili, le suppellettili, il vestiario, tutto in quel momento poteva già essere scomparso sotto un cumulo di macerie.

(…)

Un soffio caldo e acre penetrò nel portone e ci avvolse improvviso: stava passando la seconda ondata. Forse in quel momento possedevamo soltanto ciò che avevamo indosso. Attesi che l’acre nube si dileguasse e guardai verso casa: appariva illesa. La terza ondata ci colse mentre ci precipitavamo nel nostro portone. Altre bombe caddero nelle immediate vicinanze, altri scrosci orrendi, altri sibili si alternarono sopra le nostre teste, poi sembrò fosse calata improvvisa la notte. Poco dopo le sirene segnalarono il cessato pericolo. Salire in casa era inutile; ci avviammo verso piazza Garibaldi. Gli incendi divampavano, le autoambulanze e i mezzi dell’UNPAcorrevano per le strade. Guardavamo incapaci di credere ai nostri occhi. Era successo ciò che di più assurdo, di più crudele ed insensato potesse succedere. Una dimostrazione di palese e criminale barbarie a cui nessuno in città si sarebbe sognato di dover assistere. Tutte le bombe erano state deliberatamente sganciate il più lontano possibile da qualsiasi anche supposto obiettivo militare. Erano state sganciate di proposito sui rioni più popolosi, sulla gente inerme. Nel rione di San Giacomo, quasi interamente abitato dalle famiglie degli operai dei cantieri e del porto, su Cittavecchia, su Barriera e su altri rioni ancora, dove né caserme, né accantonamenti nemici potevano fornire una giustificazione. Anzi, proprio la zona centrale della città, dove i germanici avevano i loro uffici e comandi principali, era stata del tutto risparmiata. Duecentottantasei furono le prime salme estratte dalle macerie fumanti. Molte di queste, ammucchiate sanguinolente sui furgoncini dell’UNPA passarono davanti ai nostri occhi. Erano orribili. Le vesti a brandelli, qualcuna quasi nuda e tutte imbrattate dalla polvere dei calcinacci. “Gangsters dell’aria” si udì qualcuno imprecare e quell’espressione mi sembrò così appropriata che la ripetei. “Vorrei dire a chi ci ha colpito” disse il vescovo dopo le preghiere per i caduti “che queste non sono le imprese della civiltà, che queste azioni sono perfettamente inutili ai fini della guerra e che quindi la coscienza degli uomini le deplora e si alza solenne a chiedere che cessi lo strazio della nostra povera città.” Un numero forse doppio di salme venne estratte dalle macerie pericolanti nei giorni successivi e negli ospedali furono accolti oltre un migliaio di invalidi e di feriti.

Conversazione | Trieste. La resa dei conti

“Almeno in senso materiale devi ammettere che abbiamo fatto molti progressi, – disse Alessandro mentre addentava dell’ottimo prosciutto cotto, quello che solo a Trieste si trova, cotto nella crosta di pane, gustosissimo – quando andavamo alle elementari non avevamo neppure il riscaldamento, mi ricordo che uscire dal letto la mattina era un’impresa. La casa era fredda, la temperatura non superava mai i 17 gradi. Adesso nessuno dei nostri figli vivrebbe in condizioni così poco confortevoli. Sono abituati bene. Li abbiamo viziati.” “Bisognerà vedere fin quando se le potranno permettere tutte le comodità” interloquì Giulia che passava con il primo. “La vita com’era ai tempi della nostra infanzia era molto diversa – intervenne Antonio. – Per tanti aspetti migliore, per altri peggiore. Ad esempio poche donne lavoravano quasi tutte erano casalinghe. Mia madre cucinava e cucinava. Cosa vuoi da mangiare oggi? Mi diceva e mi preparava degli stufati magnifici… Quale donna oggi vivrebbe così?” “Anche mia madre era casalinga – disse Alessandro. – Aveva lasciato il suo lavoro per occuparsi della casa e di me. Si viveva di poco quella volta, in fondo non era neanche una brutta vita.” “Non sono d’accordo – intervenne Giulia. – Non era una bella vita. Quando ero giovane l’idea di diventare come mia madre, una semplice donna di casa, mi sembrava spaventosa. Avevo altre ambizioni, volevo lavorare, avere la mia indipendenza, scalpitavo in una famiglia che mi andava stretta. Per questo ai miei figli ho voluto lasciare libertà di scelta, indipendenza…” “Però tua figlia dopo essersi laureata brillantemente si arrabatta e non è soddisfatta del suo lavoro ed è sempre depressa” mugugnò Antonio. “Non è depressa per il lavoro. Almeno non credo. Comunque con l’altro figlio, Andrea, non abbiamo avuto problemi.” “Dici?” fece meditabondo Antonio. Aveva sempre diffidato di quel figlio troppo zelante e sempre inappuntabile, un figlio che non dava pensiero, che non si lamentava mai, ma che pure non lo persuadeva per la mancanza di sinceri slanci, di errori, di ritorni di fiamma, insomma di umanità.

“Con Andrea non abbiamo mai avuto problemi” ribadì Giulia che aveva sempre avuto un debole per quel figlio così gentile, forse un po’sulle sue, certo, poco presente ma sempre cortese e mai apertamente ostile com’era spesso Carla. Antonio prese in mano un bicchiere. “Forse abbiamo sbagliato tutto. Abbiamo costruito un mondo nuovo, ci sembrava di fare bene, ci sembrava che il mondo dei nostri padri fosse orribile e adesso ci troviamo davanti dei figli che abbiamo educato diversamente da come noi siamo stati educati, che dovrebbero essere felici e invece sono infelici e depressi.” “Però non ci odiano come noi abbiamo odiato i nostri genitori” esclamò la moglie di Antonio. “Chissà, forse ci odiano e non ce lo dicono, oppure non ci odiano solo perché siamo stati bravi a non stringere troppo il cappio. Poi si è inserito il problema lavoro, ma quello è un altro discorso.” I discorsi cominciarono a sovrapporsi. Le parole si inanellavano, complice un buon Merlot Felluga che Antonio aveva messo sul tavolo. “I politici hanno fatto per anni un lavoro clientelare e miope…” “In malafede hanno lasciato che tutto andasse a rotoli…” “Le cose sono più complicate, siamo in un mondo interconnesso, la classe politica non è stata in grado di arginare la deriva.” “Politici di merda.” “Il morale delle generazioni giovani è a terra.” “Non di tutti. Alcuni se la spassano alla grande.” “Ma va!” Le frasi si sovrapponevano, ognuno aveva qualcosa da dire, da ripetere, da ribadire. Giulia lasciò i due uomini a sbraitare e andò a sdraiarsi sul letto. Era stanca. Tutto il giorno al lavoro e poi, da quando Antonio aveva ritrovato l’amico di infanzia, un piatto in più a cena. Aquesto si aggiungeva Carla, sua figlia, che, verso sera, veniva a prendere qualcosa per cena e sua madre, che viveva con una badante, ma che voleva che l’amata figlia passasse da lei almeno una volta al giorno. Lei ci andava volentieri, anche perché preferiva dare un’occhiata, visto che le badanti che si erano susseguite non erano sempre affidabili, ma era un impegno anche quello. E le ore volavano. Ricordava che una badante l’aveva piantata nel momento peggiore con sua madre ammalata. Per qualche settimana non aveva saputo come risolvere, ma aveva tenuto duro. Non voleva mettere sua madre a morire di depressione in una casa di riposo. Ma si sentiva stanca, senza forze. Dalla stanza vicina le arrivavano sfumate le parole dei due uomini. “Leggevo sul giornale – “ diceva Antonio – “che se gli abitanti dei paesi più poveri rimanessero a casa loro nel giro di vent’anni aumenterebbero di quasi 850 milioni, dato che crescono al ritmo spaventoso di 42 milioni l’anno. Non avrebbero le risorse necessarie per vivere. Cazzo pensò Giulia nel dormiveglia. “Spostandosi hanno qualche chances. Però così l’inflazione demografica arriverà  da noi. Non cambieranno certo le loro abitudini.” “Qui siamo in pochi. – riprese Alessandro – “ Sembra che sia necessaria una iniezione di nuova umanità.”

“Comunque le ripercussioni sul nostro mondo saranno enormi anche e soprattutto a livello di welfare. Niente rimarrà come prima.” Era Antonio con la sua solita voce sconfortata e un po’roca. “Il problema di base è sempre lo stesso. Si generano molti lavori a bassa professionalità che noi non vogliamo fare. Servono manovalanze e si assumono stranieri. Gli industriali sono contenti perché gli extracomunitari nei loro paesi sono abituati a ricevere dieci volte di meno e accettano qualsiasi condizione. Li pagano poco e licenziano gli italiani che vogliono troppe garanzie.” “O fanno lavorare in nero gli stranieri.” “Meglio che lavorino in nero che non lavorino affatto. Tanti vengono costretti per più di un anno a oziare mentre si fanno le pratiche di riconoscimento e nel frattempo o vengono assoldati dalla malavita o scappano.” “Eh sì. È una situazione complicata.”

Incipit | Trieste la resa dei conti

1

La sosta a Trieste di Alessandro si protraeva più del previsto. Era entrato in punta di piedi in una casa che, nel silenzio calato dopo la morte di sua madre, appariva inquietante. All’inizio aveva cercato di inventariare le condizioni dell’appartamento, ripromettendosi che lo avrebbe venduto e sarebbe ritornato prima possibile a Roma. Ma doveva ammettere che l’idea di staccare il cordone ombelicale che lo univa a Trieste, nonostante da decenni vivesse altrove, lo angosciava. Non è una città, Trieste, da cui ci si separi facilmente. È una città che si può sentire come un cappio sul collo – e così lui in effetti l’aveva sentita negli anni lontani della sua giovinezza – ma che continua a viverti sottopelle. È una città strana, che non si riesce a decifrare, una città che ognuno si porta addosso come un marchio indelebile.
Da quando era entrato nell’appartamento – e aveva cominciato a percorre il corridoio, il lungo balcone che si affacciava sulla città vecchia e s’era messo a guardare il ciuffo d’alberi superstite tra le costruzioni che avevano invaso, negli anni Cinquanta e Sessanta, il rione di san Vito, dopo le distruzioni della guerra, – una strana sensazione s’era impossessata di lui. Certo, negli anni precedenti era venuto molte volte assieme alla sua famiglia a trovare sua madre, in quello stesso terrazzo avevano cenato tutti assieme, serate monotone, che si concludevano sempre con baci e abbracci e la sensazione di avere detto poco o nulla. Ora invece, mentre vagava per le stanze un po’stranito o si sedeva sulla poltrona che era stata di suo padre, aveva la sensazione di star per comprendere qualcosa che gli era sempre sfuggita. Aveva l’impressione che tra le svolte e i non sensi della sua vita ci fosse un filo conduttore, un abbozzo di trama, un nesso che in qualche modo stava per emergere.

Nebbia sulle doline. Così era scritto sulla copertina di un manoscritto che aveva scoperto casualmente nello studio. Lo rigirò per un po’tra le mani. Era la calligrafia di suo padre. La riconosceva. Piccola e curata. Le calligrafie di una volta, piene di personalità e di forza.

Lo scartabellò e vide che parlava di guerra, di quella tragica guerra che aveva trascinato Trieste in un film dell’orrore. Suo padre a suo tempo non aveva mai parlato volentieri di quegli anni, solo accenni brevissimi, qualche episodio isolato, che peraltro Alessandro ascoltava malvolentieri, mentre rincorreva i suoi pensieri e i suoi progetti. Ascoltava, ma non ascoltava davvero, come fanno spesso i giovani quando sentono il racconto di un mondo che li ha preceduti di poco, ma che sembra lontano anni luce. Suo padre alla fine batteva il pugno sulla tavola e sbraitava che tutte le generazioni prima o poi hanno la loro guerra, che tutti devono confrontarsi con la lotta della vita, che lui doveva imparare. Che cosa avrebbe dovuto imparare? Che cos’era la lotta per la vita? Perché la vita avrebbe dovuto essere una lotta? Alessandro aveva sedici anni ed era tutto intento a ritagliarsi i suoi spazi, a mettere tasselli di felicità e di possibile comunicazione, ma si imbatteva nei suoi genitori che incombevano dall’alto della loro insensibilità e della loro forza. Le sue idee di un’esistenza pacifica, basata su rapporti di giustizia e di collaborazione facevano ridere suo padre che continuava ad affermare che in natura il più forte mangia il più debole, che l’uomo è un animale e non si può sottrarre alle regole del gioco, e che lui, Alessandro, nella lotta della vita sarebbe stato un soccombente se non si fosse esercitato a non avere paura di nulla, a dare pugni all’occorrenza e a non tirarsi mai indietro. Alessandro era un ragazzo tranquillo, passava più ore sui libri che in strada e suo padre non cessava mai di prenderlo in giro. Nel campo delle idee poi non si incontravano affatto. Le parole del padre,– inneggianti alla forza e talvolta alla violenza,– erano lontane mille milia dalla sua sensibilità. Era il tempo dei Beatles e dei Rollingston, di quelli che, a torto o a ragione, volevano un mondo di fiori e d’amore. Così per lo più si tappava le orecchie, non ascoltava le critiche paterne, cercava una ragione o l’altra per uscire.

Da Roma telefonò sua moglie chiedendogli se aveva contattato l’agenzia. I tempi erano quelli che erano, non si poteva sperare di vendere subito. Prima si metteva la casa sul mercato, meglio era. Alessandro non aveva nessuna intenzione di fare in fretta. Non aveva voglia di svuotare l’appartamento, distruggere quello che rimaneva della vita di sua madre, chiudere in qualche scatola gli oggetti che avevano abitato indisturbati per tanto tempo quelle stanze. In quella casa, dove sua madre aveva trascorso molti decenni, era ancora presente il rumore dei suoi passi, l’eco della sua voce. Gli oggetti che quotidianamente usava continuavano a parlare della sua vita. Era troppo presto per annientare quelle presenze, far piazza pulita di tutto, distruggere anche il suo fantasma. E poi aveva il manoscritto di suo padre da leggere. Uscì sulla terrazza, si sistemò su una vecchia poltrona di vimini e iniziò.

2

Nei primi mesi dell’anno 1943, quando ero ormai certo di non ricevere alcuna chiamata alle armi, mi arrivò la cartolina precetto che mi ingiungeva di presentarmi subito alla capitaneria di porto. Nell’ufficio di reclutamento trovai una situazione inaspettata. Chi sedeva a quei tavoli non apparteneva alla Regia Marina. Rimasi per un attimo sbigottito. “Vi arruoliamo nella Milizia Marittima di Artiglieria” mi disse un seniore della milizia fascista che presiedeva pomposamente quel consiglio di leva. In un angolo, quasi appartato, sedeva un unico ufficiale che indossava la divisa della Marina. “Non mi arruolo nella Milizia Marittima di Artiglieria” dissi con calma. Non sapevo neanch’io perché avessi risposto così e con tanta freddezza. Non erano tempi in cui si poteva controbattere le parole di un seniore della milizia fascista. L’ufficiale in camicia nera, carico di nastrini, decorazioni e orpelli trasecolò. Un borghese, un semplice ex marinaio, osava rispondere a quel modo? “Non posso accettare questo arruolamento!” ripetei con convinzione. “Ho presentato due domande di arruolamento volontario nella Regia Marina: attendo il richiamo.” “Tu sei una persona colta, hai un diploma, noi ti mandiamo al corso ufficiali della Milizia Marittima,” mi disse un Ufficiale che passava in quel momento e aveva visto non so come la mia pratica. “Voglio indossare la mia divisa da marinaio e non altre” replicai io. “Su una nave ti possono assegnare ai lavori più umili. Sei un uomo anziano.” In effetti avevo quasi trentasette anni ed ero convinto di aver scapolato il richiamo. “Se debbo fare il mio dovere, voglio farlo con il solino sulle spalle” ribadii serio. “Siete testardo e incosciente, basta!” urlò il seniore quasi balbettando per lo sdegno. “Non si sceglie il modo di servire la Patria. Uscite!” Nel corridoio mi sentii mancare. Il pavimento vacillava sotto di me. Dopo un quarto d’ora circa, un milite che prima non avevo notato, forse uno scritturale, si affacciò all’uscio e mi fece cenno di entrare. “Ti diamo un mese di licenza” mi disse l’ufficiale di Marina. “Riceverete l’ordine di raggiungere la vostra destinazione” aggiunse il seniore della milizia. Uscii facendo un lieve cenno col capo, senza alzare il braccio nel saluto romano e guardando soltanto l’ufficiale di Marina che cautamente mi sorrideva. “Un mese. Ottimo. Quante cose possono accadere in un mese” pensai oltrepassando l’uscio. Mi sentivo stranamente leggero.

Arrivò inaspettata anche per me, che pur prevedevo la disfatta, il 25 luglio. Benito Mussolini aveva perduto la guerra ed anche il diritto di governare l’Italia. Il Gran Consiglio del Fascismo, l’organo supremo da lui stesso voluto e ideato, lo aveva destituito ridando al re, Vittorio Emanuele III, la guida della nazione ormai stremata e in piena rovina. Intanto gli anglo-americani già sbarcati in Sicilia inasprivano i loro attacchi. Qualche giorno dopo, aprendo il giornale sopra il mio tavolo di lavoro, appresi che il generale Badoglio aveva formato il nuovo governo. Sulle stesse pagine veniva riportato il primo proclama. Com’ero stato preveggente nella mia incoscienza! Laggiù, nel profondo sud dell’Italia, avrei potuto trovarmi a quell’ora con le armate alleate di fronte e il caos alle spalle.

Iniziai a leggere il proclama: Il dovere degli italiani. Roma 26 luglio 1943 Il Capo del Governo Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, ha diretto alla Nazione il seguente appello: “Italiani! Dopo l’appello di S.M. il Re Imperatore agli Italiani e il mio proclama, ognuno riprenda il suo posto di lavoro e di responsabilità. Non è il momento di abbandonarsi a dimostrazioni che non saranno tollerate. L’ora grave che volge impone ad ognuno serietà, disciplina, patriottismo fatto di dedizione ai supremi interessi della Nazione. Sono vietati gli assembramenti e la forza pubblica ha l’ordine di disperderli inesorabilmente.” A Trieste la tutela dell’ordine pubblico era stata assunta dal generale Alberto Ferrero che disponeva per prima cosa il divieto di circolare, dalle ore 22 alle 5 in gruppi superiori a tre persone. Per le strade intanto i carabinieri, con molto tatto, invitavano i cittadini a togliersi dall’occhiello il distintivo del partito fascista.

3

Alessandro strinse tra le mani il manoscritto. Prima di iniziare la lettura lo aveva scartabellato un po’. Era il diario della lotta partigiana sul Carso triestino, lotta a cui suo padre aveva partecipato. Un diario fitto, centinaia e centinaia di pagine ingiallite dal tempo, il resoconto di quegli anni e il racconto di cos’erano stati quegli anni per suo padre. Si sentiva emozionato, sudato. Forse quelle pagine gli avrebbero consentito di comprendere meglio la sua famiglia, la sua città. Forse avrebbe potuto fare pace con la sua infanzia, con la sua giovinezza piena di insoddisfazioni e di lotte. Quanto si erano scontrati, lui e suo padre, talvolta per futilità, per motivi banali, ma più spesso per questioni di principio, per idee diverse, per una diversa sensibilità. Cosa divide una generazione dall’altra? Alle volte poco, – in fondo le coordinate della vita sono sempre le stesse, – ma qualcosa nell’aria cambia, la sensibilità è diversa, il modo di intendere la vita non è più lo stesso. Spesso si finisce col non capirsi. Oppure ci si rifugia in una comunicazione superficiale che lascia ampi spazi all’autonomia. Si vive da intimi estranei. La famiglia diventa un disperato luogo di non comunicazione, unita da monotoni riti che la fanno sembrare serena. Ma nel suo caso c’era di più. Tra la vita sua e quella di suo padre c’era stata una guerra. Una guerra dura e fratricida. C’era stato, negli anni che avevano preceduto la sua nascita, un massacro immane che aveva sconvolto i paesi dell’Europa. A Trieste, in modo speciale, la guerra aveva lasciato strascichi pesanti. Negli ultimi anni del conflitto e nel dopoguerra la città era stata sede di uno scontro feroce che l’aveva ferita profondamente. I tedeschi vi avevano esteso dal 43 la zona di operazioni dell’alto Adriatico, l’Adriatischer Küstenland, e la zona era direttamente sottoposta all’amministrazione tedesca; Trieste era l’unica città in Italia che avesse un campo di concentramento, la Risiera; inoltre le rivendicazioni degli slavi erano ben note: Trieste doveva far parte della Jugoslavia. Per quelli che auspicavano una Trieste italiana le alternative e le possibilità di azione erano piuttosto risicate. Il CVL, praticamente una prosecuzione del fronte democratico nazionale, a cui suo padre gli aveva raccontato di aver aderito, aveva avuto vita difficile e stentata. Non aveva certamente le possibilità degli altre associazioni partigiane sparse per l’Italia, che godevano dell’appoggio e dei contributi di tutti i partiti, in special modo del partito comunista.

A Trieste i partiti della sinistra erano vicini all’ideologia che voleva Trieste parte della Jugoslavia ed erano organizzati e appoggiati da oltre confine dai partigiani jugoslavi, molto più agguerriti e numerosi dello sparuto gruppo dei triestini, e, oltre a ciò, con supporti internazionali notevoli. La scelta di suo padre di quegli anni non era stata facile né indolore.

Da: Socrate e le donne

(pp. 9-11)

Parte prima
Meno Uno

Alessandro: – Perché quando ci avviciniamo troppo, poi scappi?
Alice: – Perché ho paura di perderti.
Alessandro: – Non capisco la tua logica.
Alice: – Non è questione di logica. Non riesco a non agire così.
Alessandro: – Io sono meno complicato, Alice.
Alice: – Semplificato come tutti i maschietti.
Alessandro: – Non riusciamo a capirci, ho la sensazione che ti perderò di nuovo.
Alice: – Non è detto. Dipende da te.
Alessandro: – Che cosa dovrei fare?
Alice: – Se te lo dicessi non avrebbe valore. Sei tu che devi capire.

Hai detto: – Dobbiamo fare qualcosa. – Ma che cosa? Potremmo raccogliere fiori blu o camminare in un deserto, succhiarci il cuore o inumidirci le dita, costruire un cielo o sprofondare nella poltrona. – Dobbiamo fare qualcosa. – Ma che cosa? Potremmo invertire il corso delle stelle o ripetere una parte scontata, potremmo cavalcare le nuvole o ammuffire in un giorno di sole, potremmo ascoltare i grilli o sprofondare in una squallida dissonanza. – Dobbiamo fare qualcosa. – Qualcosa. Ma vorrei che gli occhi fossero di cristallo, che la pelle si lasciasse penetrare, che il mento ti tremasse un po’. – Dobbiamo fare qualcosa. – Proporrei di inventare la notte, di far tramontare il sole a mezzogiorno, di non sciacquarci la bocca con false promesse, di avvicinarci di sbieco e di scalarci fino in fondo, di raccogliere alghe e distillare succhi dal bosco, di frullare le stelle e di metterle nel freezer per l’inverno. Ascolta, le zagare profumano di più in un giorno di pioggia.

Uno

Mentre Alice passeggiava dalle parti dell’Acropoli, le si avvicinò un cane. Era fulvo, con due grandi orecchie e una coda arcuata che continuava ad agitare festosamente. Lei gli regalò qualche carezza sul muso affusolato e pensò che, se avesse voluto prendere un cane, quello sarebbe stato il suo cane. L’animale prese a camminarle a fianco. Il suo muso giallino le faceva strada per la via che saliva dal Dipilon al Partenone. Assieme passarono per l’Odos Apostolou Pavlou, tra la Pnice e l’Areopago, e poi ancora zigzagando ritornarono verso il teatro di Dioniso nel lato meridionale dell’Acropoli.
Non erano ancora le nove, ma faceva già caldo. Il cane si fermò per una sosta all’ombra e Alice sedette su un muretto. – Ti piace quest’Atene piena di traffico e di turisti, quest’Atene di souvenir e di copie, di cartoline e di falsi? gli domandò. Era chiaro che la conversazione non avrebbe dato molti frutti. L’animale si allontanò e mentre lei lo seguiva con lo sguardo si diresse verso i resti di un tempietto della zona dell’Agorà. Ben presto ricomparve in compagnia di altri due. Alice tirò un sospiro di sollievo. Temeva di averlo perso. Ripresero a vagabondare tra l’Agorà e il teatro. In fondo si ergeva l’Acropoli. La massa di pietra contornata dal verde sorgeva netta come un grosso molare e il tempietto di Athena Nike si delineava nitido. Il suo cane stava in mezzo agli altri due. Quando riprese la strada tutti tre la seguirono. Alice pensò che avevano fame. Entrò da un macellaio e comprò una buona razione di carne per tutti. Poi ritornò verso la casa di Irakis.

(omissis)

(pp. 24 – 27)

Sei

Il cane Sirmio (così l’aveva battezzato) la accompagnava ogni mattina mentre gironzolava per il Ceramicos, il quartiere dove abili artigiani un tempo creavano vasi e anfore in stile geometrico, splendidi con le loro figure nere e rosse. Passando lungo le vestigia delle grandi mura fatte costruire da Temistocle aveva osservato che nella zona archeologica c’era una vera e propria colonia di cani e s’era presa l’impegno di rifocillarli ogni mattina. Poi proseguiva col suo. Si fermavano a rinfrescarsi sotto un albero e Alice si metteva a leggergli qualcosa. – Senti che cosa racconta Platone!i gli diceva e apriva il mio librino. – Ogni azione non è di per sé né bella né brutta, dipende dal modo in cui viene compiuta, dallo scopo che ci si prefigge. Lo stesso vale per l’amore: non ogni amore è bello, ma solo quello che ci spinge ad amare in modo bello. Il cane guardava il suo piede e seguiva le ombre sul selciato. Alice continuava a leggereii: – L’amore che si accompagna ad Afrodite volgare è volgare e agisce come capita. Questo è l’eros proprio degli uomini che valgono poco. Innanzi tutto questi amano donne non meno che giovanetti. E poi amano i corpi più che le loro anime. E per giunta amano le persone che sono prive più possibile di intelligenza, mirando solamente a fare ciò di cui hanno voglia e non preoccupandosi affatto se agiscono in modo bello o no. Perciò avviene che agiscano come capita senza discriminare il bene dal male.
Alice carezzò il muso spennacchiato che la guardava e continuò a parlare: – Per l’uomo greco il concetto di bello si unisce a quello di bene: è il caloncagazon, il bello e buono. Il concetto di bello non ha un valore solo estetico, ma anche etico. Nella nostra società manca questo concetto. Anzi, potremmo paradossalmente affermare che va di moda compiacersi del brutto e del cattivo.
Gli aveva parlato con molta convinzione e il cane si alzò sulle zampe posteriori. Alice sorrise e gli passò una mano sul dorso: – Vedi, Sirmio, quando si scrive una storia ambientata nel mondo classico, la difficoltà maggiore è costituita dalla diversa mentalità. Per i greci l’amore con la A maiuscola è quello tra maschi. Il maschio è considerato più intelligente, più coraggioso, depositario di tutte le virtù spirituali; la donna invece è mera materialità. Quindi l’amore verso la donna è considerato di natura inferiore. I migliori amanti sono quelli che amano i maschi, amando per natura ciò che è più forte e più intelligente, dice Platoneiii.
Il cane non aveva una particolare opinione sull’argomento, ma forse s’era fatto per caso qualche maschietto. Scodinzolò a sproposito. – Noi avremmo qualche riserva da fare, – proseguì Alice, – ma, a parte il deciso maschilismo, da maschietti che hanno il potere e se lo godono, ho sempre pensato che il mondo greco avesse una visione giusta dell’amore. L’amore come piacere, l’amore come conoscenza. Poi sono venuti tempi peggiori; tempi in cui l’amore è stato considerato un dovere, oppure uno sport da praticare. Platone dicevaiv: I migliori non si innamorano di ragazzi se non quando cominciano ad avere intelligenza e questo si accompagna al momento in cui cominciano a mettere la barba. Si chiese a quanti anni crescesse la barba. Verso i quindici anni, più o meno. Certo per noi un quindicenne sarebbe considerato minorenne, quindi non un soggetto erotico. Noi condanneremmo ampiamente un rapporto di questo tipo. Era interessante però considerare che i greci si preoccupavano che il ragazzo “cominciasse ad avere intelligenza”: nel mondo antico dunque l’accento era posto anche sulla dimensione spirituale, un rapporto era valido se si realizzava tra persone pensanti, e veniva concepito persino come un rapporto di educazione, cosa che a noi potrebbe sembrare decisamente strano. Riprese a leggerev: Quando l’amante e il ragazzo amato mirano alla stessa cosa, il primo a servire il giovane che gli ha corrisposto l’amore e l’altro a prestare assistenza a chi lo rende sapiente e buono… Il cane le sbadigliò in faccia. Alice concluse carezzandolo: – Lontanissimo dal nostro modo di pensare, non trovi, Sirmio? Mescolare sesso e sapienza, educazione e sessualità. L’idea che i ragazzi nell’età della pubertà abbiano un amico più vecchio che funga non solo da educatore, ma anche da amante oggi ci lascia perplessi, ma a quel tempo era così… Il cane mostrava evidenti segni di irrequietezza. Ripresero a passeggiare. Fiancheggiarono sulla destra l’Agorà romana con la struttura a botteghe e magazzini e una vasta piazza delimitata da una doppia fila di colonne ioniche. Era il centro dei commerci nel tempo in cui Atene era divenuta romana. Poi scesero per Odos Adrianou e attraversarono la Plaka tra ristorantini e negozi di souvenir scegliendo le stradine meno affollate e i vicoli a scalinata. Atene era stata sotto la dominazione turca per quattrocento anni e lo dimostrava: negli edifici, in una certa incuria che serpeggiava dappertutto, nella clientelare burocrazia. Sirmio la seguiva, non troppo persuaso, nelle strade trafficate; lui preferiva svicolare tra i mozziconi di colonne e gli alberi, scegliendo le zone meno affollate dell’Atene antica.

(omissis)

Parte quarta
Uno

(omissis)

(pp. 76 – 78)

– Sai come sono gli uomini, sentono qualcosa, lo ripetono, si convincono delle loro stesse parole. La fama cresce. Non ha importanza se è lontana mille miglia dalla verità. Insomma temo che le idee di Aristofane circolino un po’ troppo a briglia sciolta ad Atene. Mi ha messo alla berlina con troppa intelligenza quel mascalzone.
Mirò gli carezzò i lunghi capelli. – Ti avevo avvertito. È pericoloso lasciare che la fama cresca senza metterle un freno. Bisogna vigilare. Contano anche le apparenze, non solo la sostanza. Tu ami la verità, lo so, ma gli uomini non vedono la verità. Vedono solo ombre.
– Mirò cara, non ricordarmi quella che è la tragedia dell’uomo. Sono già abbastanza di cattivo umore. Hai sentito ieri sera i nostri discorsi?
– Qualcosa. Ma vuoi che ti dica sinceramente quello che penso? Potevi evitare di tirarla tanto per le lunghe e mettere Aristofane alle strette con le tue argomentazioni. Sai che lui non è un uomo di spirito.
– Cosa avrei dovuto fare? Starmene zitto? Lui può crocifiggere chi vuole con le sue battute e invece io dovrei tacere? Sai di cosa discutevamo?
– Di letteratura, m’è sembrato.
– Discutevamo se un autore tragico possa essere anche comico o se si sia per natura portati a un genere o a un altro.
– Secondo me o si è portati alla tragedia o alla commedia.
– E invece no, secondo me chi ha del genio riesce in entrambi i campivi.
– I tuoi soliti paradossi, Socrate.
– Ne abbiamo discusso tutta la notte, e alla fine Aristofane si è addormentatovii.
– L’avrà fatto apposta per non dartela vinta. Lascialo perdere, è meglio.
– Vuoi che ti dimostri la mia tesi?
– Socrate, risparmiami, l’argomento non mi interessa affatto.
Socrate sorrise. Gli faceva sempre piacere discutere con una donna intelligente come Mirò. E anche con Aristofane, in fondo. Era un uomo acuto. Originale. Aveva delle idee fantasiose. Si sarebbe detto che pensava per immagini. Le sue polemiche si strutturavano in visioni fantastiche: uccelli, vespe, nuvoleviii. Certo, i loro rapporti si erano deteriorati negli ultimi tempi, e c’era una sorta di odio-amore tra loro, ma continuavano a cercarsi per discutere, per controbattere, per aggiungere qualcosa alle loro eterne polemiche. Ultimamente però era Aristofane a prevalere, ad avere la meglio e ad ottenere più consensi.
– Sarai più prudente? ripeté Mirò. C’è anche Filosseno…
– E chi è Filosseno?
– Un ambizioso, come tanti ad Atene. Anche lui ce l’ha con te.
– E perché mai?
– Perché gli fai ombra. E stai sulle palle anche a quelli che educano i giovani alla vecchia maniera: ignoranza, sberle, palestra.
– Sbaglio? Io penso soltanto che la ragione debba essere la nostra unica guida, che l’educazione come ogni altra cosa si debba basare sulla ragione.
– Giustissimo, amico mio, ma non è detto che sostenere la verità procuri vantaggi. Gli uomini, lo sai bene, non vedono la verità. Fissi alle loro opinioni temono chi osa dirla, la verità, e odiano chi vuole metterli in discussione.
– Io conto sugli amici. Ci sono tanti ad Atene che mi vogliono bene. Insorgerebbero se qualcuno osasse toccarmi.
– Metti in conto però che gli uomini sono per natura dei voltagabbana. Nessuno difende nessuno se ci vede anche solo un piccolo rischio.
– Mirò, non essere così pessimista.
– Socrate caro, io guardo la realtà e non mi faccio troppe illusioni.
– Non darti pensiero per me. Gli amici sono amici fidati.

(omissis)

(pp. 80-84)

Tre

Aspasia era la concubina più importante di Atene, visto che divideva il letto di Pericle, ma gestiva anche una scuola per cortigiane dove imparavano i dettami dell’ars amatoria le principali etere di Atene. Socrate frequentava volentieri la sua casa.
– Guarda chi sta entrando! – esclamò Teopompo ridendo, e indicò alle sue amiche Socrate che puntava diritto verso di loro. Aspasia si alzò dal letto dove stava impartendo qualche istruzione alle sue ragazze per salutare l’amico.
– Ti salutiamo, Socrate, cantilenarono in coro le quattro ragazze continuando i loro giochi.
– Fermati con noi, lo invitò Aspasia, indicando con un gesto della mano il letto.
Socrate sedette carezzando il seno scoperto di Teopompo. – Cosa stai facendo, dolce miele?
– Sto imparando, rispose Teopompo, continuando i suoi esercizi.
Aspasia sorrise.– Sono bambine, ne devono imparare di cose. Socrate caro, dato che sei qui, penso che ci potresti essere utile.
– In che senso? chiese Socrate stupito. Che cosa potrei fare di utile io, vecchio uomo impolverato, in mezzo a queste bellezze profumate?
– Mi è venuta un’idea. Ti potremmo testare. Potresti darci un piccolo saggio delle reazioni maschili. Così le bambine capirebbero meglio quello che stavo spiegando loro.
Socrate scosse il capo perplesso: – Credo che vi sarò di scarsa utilità. Ragazze, io non ho un obolo.
– Lo sappiamo. Non ti preoccupare, dimmi invece, che cosa faresti se ti trovassi davanti a una bella ragazza come Teopompo con i seni scoperti e una corona sui capelli?
– Cosa farei? Per un po’ converserei con lei. Le chiederei che cosa stima di più nella vita. Aspasia diede uno strattone a Teopompo che si sbellicava dalle risate. – Rispondi, mia cara. Che cosa stimi di più nella vita? Teopompo corrugò lievemente le sopracciglia meditabonda: – La bellezza e il denaro, rispose ridendo. Cos’altro?
– Teopompo, vuoi che ti dimostri che valgono molto poco? obiettò Socrate.
– Sì, dimostracelo, risposero in coro le quattro ragazze.
– Sarò sintetico. Tu, Aspasia, cosa temi di più?
Aspasia sedette vicino a lui e lo circondò con un braccio ingioiellato.– Caro Socrate, io temo quello che temono tutti: la vecchiaia, la povertà e la morte.
– Innanzitutto, cominciò a dire il filosofo, come ho tante volte dimostrato, – con te, Aspasia cara, ho conversato spesso, – la morte non è da temere. È indubbio che se lei c’è non ci siamo noi e viceversa. Come possiamo temere qualcosa che non incontreremo mai?
Teopompo rise a sproposito mentre cercava di togliergli il mantello.
– Che cosa mi vuoi fare, piccola? Devo ancora dimostrare che non si deve temere la povertà. Ma anche le altre ragazze l’avevano circondato e cominciavano a tempestargli la nuca di baci. – In questa posizione mi è difficile filosofare, protestò Socrate. Ho dimostrato molte teorie passeggiando o standomene sdraiato nei banchetti, ma disteso su un letto con quattro belle ragazze che mi baciano, questo non l’ho mai fatto. Temo che mi farete perdere la concentrazione, fanciulle. Sorrise poi, con un certo sforzo, riprese ad argomentare: – La povertà non è nostra nemica. Anzi, per certi aspetti potrebbe essere considerata un’amica. Ma subito si interruppe perché Teopompo stava scendendo nel sottombelico. – La ragazza ci sa fare, direi che è quasi perfetta, commentò Socrate dopo un po’, rivolto ad Aspasia.
– Sì, ma proprio perché è quasi perfetta, come anche tu riconosci, – Teopompo cara, non montarti la testa, ha detto “quasi” – ha un suo costo, un costo che tu non ti potresti permettere. Vedi dunque che la povertà non è un bene.
– Ma che ragionamenti sono questi, amica mia! Me l’hai messa tra le braccia tu per fare un esperimento. Evidentemente la mia povertà ha qualche forza.
Teopompo continuava imperterrita, ripassando mentalmente le lezioni che aveva imparato scrupolosamente.
– È una fanciulla deliziosa, mi sta facendo impazzire.
– Bene, disse Aspasia. L’esperimento è finito. Fermati, Teopompo.
– L’esperimento sarà anche finito, mugugnò Socrate, ma io non…
– Per proseguire occorrerebbero i quattrini che tu non hai. Come vedi avevo ragione io. La ricchezza è importante e la povertà non è un bene. Penso che sia il momento che tu prosegua nella tua passeggiata. Non vogliamo trattenerti.
– Aspasia cara, io sono stato il primo tra i greci ad affermare che “la natura femminile non è naturalmente inferiore a quella maschile salvo che manca di saggezza e forza fisica”ix. Non c’è greco che sia stato così gentile con le donne. E adesso guarda un po’ che riconoscenza! Teopompo cara… Per fortuna sono paziente. Volete che vi spieghi quanta importanza ha la pazienza nei giochi d’amore?
– Questo mi sembra un argomento interessante, acconsentì Aspasia già sulla soglia.
– Diccelo diccelo, garrirono le ragazze.
Socrate sorrise, e dall’uscio disse: – Per essere un buon amante un uomo deve saper aspettare, far crescere il desiderio nella donna e mantenerlo proporzionato al suo.
– È un’osservazione acuta, ammise Aspasia. Teopompo, annotatelo con cera e stilo!

Socrate si ritrovò all’aperto. Diede un’aggiustatina al mantello e si rimise a camminare mentre brontolava tra sé: Il denaro, ecco quello che vogliono gli uomini. Solo il denaro. Ma il denaro è ben poca cosa. Com’è triste constatare i limiti della mente umana. L’ombra di quest’albero nessuno me la può togliere. Non potrei goderne di più se fossi ricco. Non potrei rinfrescarmi di più se fosse mio. E le terme? E la palestra? Sono servizi gratuiti che la polis offre a qualsiasi cittadino. E la vista di questi monumenti? Chi mi potrebbe impedire di goderne? E i banchetti a cui vengo invitato perché so conversare piacevolmente e in modo intelligente? E gli spettacoli di teatro? E la luce delle stelle? E il panorama che posso vedere dal Licabetto? Chi mi potrebbe sottrarre tutti questi piaceri? E il bacio di un ragazzo o di una donna che io sia riuscito a far innamorare? Le cose più belle della vita non hanno prezzo. Non serve il denaro per acquistarle. Con il denaro si acquistano solo gli scarti del mondo, i beni senza valore. Perché darsi tanto da fare per inseguirli? Perché vendere l’anima per averli? Gli unici veri beni che andrebbero sempre perseguiti sono la libertà, la serenità, la forza, l’amicizia degli uomini migliori. Solo questi, credo.

Da: L’amore secondo Francesca

(pp. 139-142)

Il maschio Kinder bueno

Supermercato di Trieste. Carrelli metallici sfrecciano. Lì s’incontrano anime che vagano per approvvigionarsi di tutto il superfluo necessario per vivere. Le mani si allungano sugli scaffali in una spasmodica e compulsiva ricerca. Dovunque cibo inodore. Ah! la vita dei souk con i suoi afrori, pensa Francesca correndo dietro al suo carrello. E sfreccia in mezzo a spolverate casalinghe o a single in cerca di affettati e precotti. Dovrei telefonare a Monica. Le racconto che sono di partenza. Il problema di trovare yogurt e latticini per un po’ assorbe la sua mente. In molti s’affollano nella zona frigo. Le mani si incrociano. – Lo prenda lei. – D’accordo. Mannaggia, era l’ultima confezione di latte fresco. La ricerca prosegue, e ogni tanto si riaffaccia nella mente di Francesca l’idea di prendere il telefonino e di cercare l’amica. Ma improvvisamente Monica si materializza davanti a lei. Appare come dipinta in uno specchio. Le lunghe gambe, i capelli tiziano, il pull sempre un po’ troppo scollato. Francesca non le somiglia affatto. Bionda. Piccolina. Sembra fatta d’aria. Anche Monica ha il suo carrello pieno di birre e di surgelati. È un classico del venerdì sera.
– Stavo per telefonarti, dice Francesca mentre continuano a sfrecciare per il supermercato. Carrelli a prua e loro, dietro, a chiacchierare. – Sono quasi di partenza, aggiunge e le racconta della Patagonia. Faremo uno studio su guanaco, ouraka, tero-tero.
Davanti alla macelleria e ai poveri animali squartellati Francesca si ferma per fare la solita tirata a favore delle galline infelicissime, costrette a una vita contraria ai loro desideri, che sono semplici: un po’ di spazio, terreno per razzolarci su e un mangime adatto. Pochi desideri, eppure inappagati! Ed ecco dunque la loro vendetta: uova e carne che valgono pochissimo. Garanzia di pessima salute per noi che le mangiamo. Per non dire dei poveri maiali! Continua a parlare mentre prende in mano e osserva le confezioni, poi chiede voltandosi verso Monica: – Hai notizie di Giulio?

Monica: – Sì. È a Trieste. Voleva telefonarti.
Francesca: – Ah, bene.
Monica: – Non capisco cosa cerchi da lui.
Francesca: – Dovrei cercare qualcosa?
Monica: – Ognuno è alla ricerca di qualcosa.
Francesca ride. Di solito Monica non è così sentenziosa. Che cosa cercava? Davvero non lo sapeva neanche lei. Risponde stando allo scherzo: – Cosa cerco? L’amore secondo Francesca.
Monica: – E che cosa sarebbe?
Francesca: – Secondo me i maschietti non sanno fare l’amore. Non rispettano i tempi. Forse gli orientali sono degli amanti migliori.
Monica: – Gli orientali?
Francesca: – Dicono che gli orientali sanno aspettare. Gli indiani, ad esempio, quando sposano una ragazza aspettano giorni prima di fare l’amore.
Monica: – Si tratta di bambine inesperte. Non mi risulta che tu sia vergine.
Francesca ride e mette nel carrello due confezioni di tonno: – Mio marito qualche volta ritorna dopo mesi. Sarebbe bene ricominciare tutto daccapo. Come se ci fossimo appena conosciuti.
Monica: – È un’idea strana. Ma tu gliel’hai mai chiesto?
Francesca: – Non credo che mi ascolterebbe. Lui va sempre di fretta. E poi arriva e riparte.
Un’orda di famigliole corredate di pargoli passa vicino vociando.
Monica riprende: – Ma Giulio cosa c’entra?
Francesca: – Mi sembra che potrei educarlo. In fondo sono già passati tre mesi e non abbiamo ancora fatto l’amore.
Monica: – Giuro che non ti capisco. Cosa vorresti insegnare a Giulio?
Francesca: – Te l’ho detto, vorrei insegnargli altri ritmi.
Monica (facendo posto nel carrello per aggiungere delle bottiglie): – Mi sa che tu non conosci gli uomini. Sai il mio giudizio su di lui? Ti racconterò la storia del maschio “Kinder bueno”. Prende in mano una merendina da un asettico scaffale e comincia a pontificare: Hai presente la pubblicità della Ferrero? (Qualcuno si ferma a guardarla). Lei continua imperterrita: La Ferrero non potrebbe sostenere che lo snack in questione non fa ingrassare. È infatti egregiamente e cospicuamente calorico, più o meno come una pastasciutta. Allora che cosa fa? Lo fa supporre. Fa sì che siamo noi a trarne le conclusioni. Se una dice: non voglio ingrassare, prenderò solo un Kinder bueno, è chiaro quel che noi ne deduciamo. (Una signora un po’ grassoccia annuisce compiaciuta e butta via dal carrello quattro o cinque barattoli di marmellata). Intanto Monica prosegue: Il maschio Kinder bueno che cosa fa? (La signora oversize, in evidente imbarazzo, si allontana). Francesca ride mentre Monica continua: Non dice, ma fa supporre. Lui non racconta bugie. Sei tu che hai fatto le tue illazioni. Sei tu che hai tirato delle somme improprie. Lui non intendeva. O intendeva, ma. Cosa fare nel caso? Mangiare ugualmente lo snack truffaldino? (Se piace…) Buttarlo via e preferire una più ecologica pastasciutta? Anche se lo scuoti o lo scotenni comunque lui non ammetterà. Tu sei cattiva. E lui è bueno.
Francesca ride: – Pensi davvero così male degli uomini?
– E tu?
– No. Io penso che dovrebbero essere un po’ educati.
– Vorresti educare Giulio?
– Non lo so. Dici che è un’impresa?
– Secondo me disperata.

(omissis)

(pp. 145-152)

Allegretto andante per trio

Giulio suona e aspetta davanti al portone della casa di Monica.
Monica scende (vestito iperscollato, tacchi alti, una gonna lunga con uno spacco sul fianco. Sopra, una mantellina striminzita per sfidare le brume di novembre).
– Sempre sobria, tu.
– Non ti piace il mio look?
– Mi piace. Qualche volta mi piace anche troppo. Ma oggi non dobbiamo andare da Francesca?
Monica ride e gli fa strada.

Arrivano. Campanello che suona. Ricampanello. Monica cerca in un’enorme borsetta le chiavi, al solito introvabili. Finalmente arriva Francesca. Indossa una lunga camicetta di foggia maschile, bianca, con tanti bottoncini. Mentre si muove, lascia intravedere il suo corpo sottile. Si pulisce le mani usando uno strofinaccio tirolese e li fa entrare. – Ero alle prese con un pesce, dice e li precede nella cucina. Devo fare un po’ di pulizia nel frigo, prima della partenza. Il pesce, eccolo qua (e mette in forno un enorme scorfano) lo dobbiamo per forza mangiare, la verdura anche. Giulio, mi aiuteresti a tagliare i pomodori? E tu, Monica, metti su una pastasciutta.
– Non ci hai neanche chiesto se avevamo altri progetti.
– Avevate altri progetti?
– Forse.
– Intanto aiutatemi ad apparecchiare!
Rumore di piatti e di mascelle. Pasta al peperoncino. Scorfano e patatine autogestiti in un forno molto compiacente ed estremamente collaborativo. Cruditées sottilmente affettate.
– Francesca, sei un po’ troppo frugale come gusti alimentari. A noi piace la libidine gastronomica, commenta Giulio.
– Ognuno ha i suoi gusti. E poi si trattava anche di spazzolar via i resti dal frigo. Domani parto.
– Sì, me l’ha detto Monica. Ma tu pensa! Passiamo assieme tutta la serata, sembra persino che stia per giungere il gran momento e tu mi lasci nella notte da solo e non mi dici neppure che sei di partenza.
– Te l’avrei raccontato oggi. Oggi poteva essere un giorno significativo. A dire il vero pensavo che saresti venuto da solo.
– È il mio destino, fa Giulio passandole a pelo. Tutte le cose mi sfuggono. Come foglie secche d’autunno mi girano attorno. Volteggiano e io non riesco ad afferrarle.
Monica ride. Francesca invece bofonchia: – Il solito letterato. Tutto per te diventa parola. Compiaciuto godimento orosemantico.

Giulio è un uomo di quarant’anni che lavora in una ditta di import-export a Verona. Ha la passione di scrivere. In un’Italia dove tutti sono scrittori, anche lui lo è. Ma Giulio è un letterato fino al midollo. Uno disposto persino a usare la vita per trovare spunti per scrivere. Uno che non riesce ad amare che le sue parole. È fatto così. Orbene, uno scrittore potrebbe anche piacere. Essere attraente per le donne. Ma non per donne come Francesca e Monica. Sono troppo smaliziate per cadere vittime della fascinazione affabulatoria. Francesca poi è alla ricerca di qualcosa che le sembra mille miglia lontano dalla parola. Di qualcosa di autentico. Però si è innamorata di Giulio.

Monica si alza e comincia ad ammassare a terra dei cuscini. Si toglie le scarpe commentando: – Non ho potuto resistere quando le ho viste in vetrina, ma sono di una scomodità incredibile. Si sdraia a terra. Francesca si siede anche lei vicino e si appoggia al dorso di una poltrona. Giulio si stende nel mezzo. Francesca comincia a carezzargli le spalle e il collo.
– Che godimento, cinguetta Giulio. Mi ci voleva proprio questo massaggio.
Francesca prosegue baciandogli il lobo di un orecchio, poi continua lungo la linea del collo mentre le mani scendono sul dorso. Giulio intanto declama: – Ce ne stavamo seduti ieri a mangiare e a lanciarci languidi sguardi mentre il cameriere ci girava intorno, zelante, oh quanto zelante! e ci avvinghiava con nuovi piatti, con coppe e bicchieri decisamente inutili e sovrabbondanti, finché la musica che ci stordiva ci indusse a dire basta e a cercare un’uscita che ci mettesse in strada, che ci avviasse a quello che doveva essere l’esito inevitabile e ovvio della serata.
– Ma è la nostra serata di ieri, esclama Francesca. Farabutto. Ti sei scippato la serata e ne hai fatto parole.
– Quello che so fare.
– Parole. Quando la vita è, niente. Prenderne le distanze. Poi, quando si dissecca, quando la puoi impagliare, quando la puoi configgere con uno spillo, come una farfalla, e spiaccicarla sul muro, e così conservarla e guardarla, allora sì, anche la vita ti va bene.
Giulio si alza e si mette a girare per la stanza, poi esclama sconsolato rivolto a una finestra: – Non è sempre facile vivere.
Francesca si alza anche lei e lo segue incalzando: – Ed essere se stessi.
Giulio: – E non farsi del male.
Francesca: – E rischiare di dire le proprie parole. E smettere di recitare un copione vuoto. Un vuoto guscio d’esistenza.
Giulio: – Il solo che io sappia indossare.
Francesca: – Il solo che tu voglia indossare.
Si guardano muti per un attimo come due attori che, finite le battute del copione, non abbiano più niente da aggiungere.
Devi sapere, caro lettore, che disquisizioni di questo tipo non erano infrequenti tra loro. E non approdavano quasi mai a nulla. Francesca rimaneva sempre delusa. Le sembrava che Giulio sfuggisse a qualsiasi confronto. Ed effettivamente era così. Giulio non gradiva quei discorsi. Anche adesso infatti si rifugia provocatoriamente vicino a Monica e, mentre Francesca continua a chiedersi perché non riescano a comunicare, lui ridendo sta dicendo all’amica: – Poche volte ho goduto di un panorama così bello! Adoro le scollature molto profonde. E anche quello che c’è sotto. Seni enormi, da perdercisi dentro. Come un bambino che succhia il latte.
Francesca si avvicina. Si sdraia sui cuscini e comincia ad accarezzare i capelli di Giulio. Lo guarda e commenta perplessa: – Ma non dicevi che ti piacevano i miei seni piccoli e sodi, che ti piacevano le camicette accollate da sbottonare piano piano? Allora raccontavi bugie?
– Non ho mai detto bugie. Mi piacciono queste e quelle. Che colpa ho io se tutte le donne sono diverse? Se ce ne fossero di un solo tipo me ne basterebbe una sola. Così invece sono nell’imbarazzo.
Francesca scuote il capo e si alza perplessa:– Quando devo partire sono sempre preoccupata. Vado a vedere cos’ho dimenticato. D’altronde sembra che non abbiate bisogno di me.

Nella sua stanza fruga tra le cose che ha già sistemato. Intanto arriva Giulio e si appoggia allo stipite della porta. In silenzio la guarda armeggiare nella valigia, poi commenta: – Dunque domani parti!
– È il lavoro, farfuglia Francesca laconica, senza sollevare la testa.
Giulio gira qua e là per la stanza poi, passandosi una mano tra i capelli, prosegue con un certo imbarazzo: – Ieri sera ho perso un’occasione?
Francesca non gli risparmia un gelido: – Se è per questo anche oggi.
Giulio insiste: – Un’occasione che può non ripetersi?
Francesca sorride: – Questo non lo so.
Giulio la guarda: – Mi è difficile capire le condizioni che poni.
– Io non pongo condizioni.
– E invece ho la sensazione che tu le ponga. Ho questa sensazione. E mi preoccupo. Mi sento inadeguato.
– Inadeguato? Forse. Tu vuoi solo le cose più semplici. E ti proteggi con le parole. Spogli le cose della loro vita perché solo così le riesci ad afferrare. Un uccello impagliato. Una farfalla trafitta. La notte dell’inautentico.
– Francesca, che idee hai di me!
Entrambi, lanciati in un inesorabile botta e riposta, continuano a fiorettarsi con le parole.
Francesca: – No, voglio dirti quello che penso. I colori del giorno ti acciecano. Stringi tra le mani luce e ne fai tenebra. Stringi tra le mani cose e ne fai spezzoni di teatralità. Sei fatto di parole e di celluloide.
Giulio: – Francesca, non sei gentile!
Francesca: – La gentilezza non ha mai fatto bene alla salute. Lasciami dire. Noi parliamo lingue diverse. Se anche ci avvicinassimo sarebbe come avvicinare due stelle di qualche chilometro. Resterebbe sempre una distanza di anni luce.
Giulio: – Ti dev’essere restato sullo stomaco il peperoncino.
Francesca: – Vorrei cambiarti ma non posso. Nessuno riesce a cambiare nessuno.
Giulio: – Quali sono le tue condizioni?
Francesca: – Non credo tu sia ancora maturo.
Giulio: – Maturo non sarò mai, casomai marcio.
Francesca: – Potresti trovare strade nuove.
Giulio: – Gli spazi iperurani mi spaventano. Sono un terrestre. Diciamo che è la mia dimensione.
Francesca: – Ci sono anche altre dimensioni. Se restituiamo i colori alla realtà, se ci mettiamo nudi… Le cose migliori si fanno quando si è nudi nel corpo e nell’anima.
Giulio: – Nudi si è indifesi. Non sono sicuro che la mia anima ti piaccia.
– Hai paura? chiede (e afferma) la voce di Francesca alle sue spalle.
Giulio continua a contemplare il buio al di là della finestra, poi sussurra: – Forse. Nella vita le cose sfuggono sempre.
– Nella vita cominci e non sai dove vai a finire. È la vita che sfugge di mano.
È il massimo che Francesca abbia mai ammesso. Sorride, e riprende a trafficare con la sua valigia.

La stanza di Francesca è grande e luminosa. Due ampie finestre con tendine ricamate la fanno somigliare alle stanze del Nord assetate di luce. Un letto e un divano completano l’arredamento. A terra una gran quantità di tappeti e cuscini. Francesca passa dalla stanza all’attiguo guardaroba selezionando gli indumenti e fermandosi ogni tanto pensierosa.
Sulla porta Giulio continua a osservarla senza parlare. Lei lo guarda e gli si avvicina carezzandolo. – Quand’ero piccola avevo un orsacchiotto che si chiamava come te. L’orsacchiotto Giulio. Era il mio preferito.

Giulio: – E cosa facevi con l’orsacchiotto Giulio?
Francesca: – Niente. Dormiva vicino a me. Di solito.
Giulio: – Perché di solito?
Francesca: – Talvolta prendevo altri orsacchiotti.
Giulio: – E l’orsacchiotto Giulio?
Francesca: – Lo facevo sedere vicino alla finestra. Però tra tutti gli orsacchiotti era il mio preferito. L’unico a cui non ho tolto mai la testa per vedere che cosa c’era dentro.
Giulio: – Perché, avevi quest’abitudine?
Francesca: – Sì, mi piaceva vedere cosa c’era dentro le bambole o negli orsacchiotti. Ho sempre avuto una particolare inclinazione per la conoscenza.
Giulio: – Anche a costo di rompere i giocattoli?
Francesca: – Anche a costo di rompere, tout court.
Giulio: – Spero di non fare la fine dei tuoi orsacchiotti!
Francesca: – Tu sei l’orsacchiotto Giulio.
Giulio: – Sono lusingato. (Sorride e la aiuta a piegare un maglione).

Francesca esce dalla stanza e raggiunge l’amica: – Ti prego, ho un sonno tremendo. Lasciatemi andare a dormire. Domani non riuscirò a svegliarmi.
– Tuo marito quando ritorna? – chiede Monica.
– Ci vedremo a Kiruna, penso. Adesso è a Buenos Aires per un convegno.
Si avvicinano alla porta. Monica abbraccia l’amica e le raccomanda di lasciare acceso il telefonino. Giulio si infila il soprabito e la abbraccia. La porta si chiude ed escono. Scendono le scale. Monica, rivolta a Giulio, chiede: – E noi adesso che cosa facciamo? Hai voglia di andare al mare?
Decidono di andare a Grado.

(omissis)

(pp. 207-209)

All’improvviso il sole

A pensarci bene la maggior assurdità di queste vite che pretendiamo di vivere è il loro falso contatto. Orbite isolate, ogni tanto due mani che si stringono, cinque minuti di chiacchiere, un giorno alle corse, una notte all’opera, una veglia mortuaria davanti alla quale tutti si sentono un po’ più uniti, ed è vero, ma tutto finisce nel momento della saldatura. E intanto uno vive convinto che gli amici siano lì, che il contatto esista, che gli accordi o i disaccordi siano profondi e duraturi.
Come ci odiamo tutti quanti senza sapere che l’affetto è la forma presente di quest’odio come la ragione di quest’odio profondo è questo decentramento, questo spazio incolmabile tra te e me, tra questo e quello. Ogni affetto è un colpo d’artiglio ontologico, un tentativo di appropriarsi dell’inappropriabile.

da “Il gioco del mondo” di Cortazar

Temporale, quella notte, a Marostica. Lampi e fulmini. Sandro affacciato alla finestra rimane a lungo a guardare. Le luci vanno e vengono in una danza spettrale. La sigaretta in bocca, un bicchiere mezzo vuoto nella mano, Sandro pensa a una vita arrischiata, a un’esistenza in cui l’emozione faccia da padrona. Non così nella sua vita. La routine è la condizione naturale, la noia il pane quotidiano; la suspense la trova solo nell’artificiale. Emozioni virtuali, scariche di adrenalina che una pellicola sopra le righe gli elargisce, per lasciarlo poi al quieto passare senza sussulti del tempo, al lento traghettarsi per un cammino senza curve e imprevisti.
La notte trascorre così. Anche Zark soprassiede ai suoi eccessi e si acciambella sotto il tavolo. Sandro decide di mettere una coperta in più sul suo letto, perché nella sua casetta il freddo di fine dicembre comincia a pungere per davvero.
Nella tarda mattinata un sole stupendo riesce infine a bucare la fitta coltre di nuvole e promette per un po’ bel tempo. Un suono di clacson, insistente, allegro, eccessivo. Sandro si affaccia alla porta. L’aria è fredda e perfettamente nitida, lavata dal temporale della notte. Davanti a lui la BMV metallizzata di Monica.
– Dove la posso parcheggiare? grida Monica aprendo la portiera e facendo vedere un ampio tratto di gambe sbucate tra la pelliccia aperta e una minuscola gonna di pelle.
– In una cassaforte, fa Sandro avvicinandosi all’automobile. Ma perché non sei venuta in moto?
– Con questo freddo? E poi l’automobile ci potrà servire.
Sandro prende il bagaglio di Monica e le fa strada. – Ti dovrai accontentare, Monica. Questo non è il tuo appartamento.
Monica entra e comincia a guardarsi in giro. – È una casa graziosissima. Piccola ma deliziosa. E quante piante! Adoro le piante grasse.
Sandro un po’ impacciato fa gli onori di casa e in cuor suo vorrebbe che la sua casetta fosse molto più grande e più bella per accogliere lo splendido sorriso che Monica gli sta elargendo.
Monica intanto s’è seduta sulla poltrona, s’è tolta la pelliccia, rimanendo con un piccolo cardigan rosso allacciato in vita e la sua microgonna nera.
– Avrai freddo, sentenzia Sandro.
– Mi cambierò più tardi, soprassiede Monica, prima vorrei riposarmi un po’. Calcia le scarpe, si rannicchia, accarezza il gatto che si è avvicinato in perlustrazione, chiede a Sandro di prepararle del tè. – Hai pensato a dove si potrebbe andare? chiede poi.
– No, risponde Sandro dalla cucina.
– Vista la stagione, direi le Maldive, che te ne pare? In agenzia mi trovano di sicuro un pacchetto anche all’ultimo minuto, e per di più scontatissimo.
– Non se ne parla nemmeno, fa Sandro deciso. Se devo essere sincero, l’idea di prendere un aereo e di catapultarmi in un mondo diverso mi angoscia.
– Davvero?
– Ti dirò di più, continua Sandro incoraggiato dal trovare Monica stranamente comprensiva. Intanto sono un professore squattrinato, e poi, quando mi hai parlato di un viaggio, non ti ho detto di no, ma in cuor mio speravo che ti fermassi a casa mia.
– Ma perché? Il mondo è bellissimo.
– Proprio per questo. È troppo bello. Mi farebbe del male. Troppa luce, troppi colori. A me basta poco per essere felice.
– E sei felice?
– Uno può essere definito felice solo alla fine della sua vita, dicevano gli antichi. Nell’attesa però, adesso che ti vedo, mi sembra di avvicinarmi abbastanza a quella condizione.
– Sono contenta di farti quest’effetto, Sandro.
Sandro con le tazze di tè in mano e due fette di torta si avvicina. Si ferma per qualche istante impacciato, non sapendo dove mettere il tutto, ma Monica interviene pronta, prendendogli di mano le tazze e appoggiandole su un piccolo tavolino d’angolo. Sandro si accoccola sul tappeto vicino alle gambe di Monica.
– Ehilà! Che confidenze! Esclama Monica allontanando la mano di Sandro che si sta inerpicando come per caso sulle sue gambe.
– Pensavo che dopo quella volta…
– Quale volta? chiede Monica. Non mi ricordo.
– A San Floriano, continua ingenuamente Sandro.
– Perché, è successo qualcosa a San Floriano? Non ricordo che sia successo nulla di significativo.

Profumi

La nostra natura consiste nel movimento. La quiete assoluta è morte.
Pascal

Lavanda
Ne strappo un ciuffo davanti all’aeroporto di Venezia. Volo per Catania. Ci ammassiamo davanti alla gate. Facce del sud. Scure. Qualche ometto andreottiano. Fokker 100: un giocattolino. Saliamo. Per anni ho avuto paura dell’aereo. Così abbiamo dovuto consolarci vagabondato a zig zag per l’Europa. Ma ora ho deciso. Non avrò più paura. L’aereo gira per la pista, e sfoglio un quotidiano. L’aereo decolla, e non ho paura. L’aereo vola, e io guardo la laguna di Venezia. Prima del viaggio ho deciso di liberarmi da quell’irrazionale fobia. L’aereo vola a 860 km. Bene. Fuori ci sono 50 sotto zero. Bene. Constato con gioia che non ho paura. Il viaggio è breve. Non abbiamo neanche tempo di fare due chiacchiere e siamo già arrivati. Sorvoliamo leggeri l’Etna fumante.

Glicini
La vegetazione attorno a Taormina è rigogliosa. Palme altissime, piante grasse che penetrano nei poggioli del nostro albergo, agavi, fichi d’India che si inerpicano sul roccione che fiancheggia l’ingresso del teatro greco, gerani enormi (veri e propri alberelli), e dappertutto limoni e aranci. E i glicini, tanti glicini, fioriti con ampio anticipo rispetto al nostro Nord stentato.
Dopo cena camminiamo fino a tardi attorno all’albergo. Non mi stanco di sentire quei profumi, che col buio mi sembrano più intensi, e di guardare col naso all’insù il cielo stellato. Un cielo da vertigine.

Bouganvillea
All’improvviso il suo profumo. In una piazzetta, travolta dal profumo di una bouganvillea, vorrei trascorrere lì il resto della mia vita. Mio marito mi induce a proseguire con fondati motivi…)
Cittadina ipercivile, Taormina, con molto turismo, specie nordico, vista la stagione. Bei ristoranti e giardini pensili. Un panorama stupendo. Sullo sfondo, l’Etna.

Castagni
Percorriamo le falde del vulcano. Saliamo attraverso un paesaggio di viti basse, poi ci inerpichiamo in mezzo a brughiere di erbe aromatiche tra ricordi incrociati di Creta a primavera e delle isole del Quarnero in estate, fino a un paesaggio quasi montano spruzzato qua e là da macchie di neve. Il traffico domenicale è altamente disordinato. “Guidano come te”, commenta mio marito, bacchettando i guidatori che usano abbondantemente il clackson, guidano a fantasia e non danno la precedenza. Uomo d’ordine, vorrebbe tutti in fila e disciplinati. Sui pendii si vedono colate di lava. Ci imbattiamo nel famoso castagno dei cento cavalli di S. Alfio. Costeggiamo declivi pieni di viti. Il vulcano mi inquieta e sono ben contenta quando ridiscendiamo. Alla sera cena a buffet in albergo. Assaggiamo un po’ di tutto. Caponata, minestra di lenticchie, olive farcite in tutte le maniere, verdure fritte, filetto in crosta. Canoli e canolicchi si lasciano mangiare anche da chi è sazio.
Ho portato con me il libro di Freya Stark Le valli degli assassini, racconto di viaggio di una donna eccezionale degli anni Venti, che si avventurò da sola nelle valli inospitali come quelle del Luristan o del Mazanderan, in regioni dimenticate dalle carte geografiche, seguendo la sua passione per l’archeologia e un’infaticabile curiosità per il genere umano. Presente e passato si intrecciano. Del passato rimangono cumuli pietre tombe che con difficoltà si riescono a raggiungere, talvolta saccheggiate dagli abitanti del luogo, talvolta provviste ancora di tutti i loro tesori. Freya Stark viaggia per il piacere di viaggiare e confessa lei stessa di non essersi mai domandata “perché fosse lì”. “ Quando mi venivano rivolte con insistenza domande in proposito, l’unica spiegazione che mi veniva in mente era la mia curiosità per la lingua araba…” confessa e aggiunge: “ Arrivai però alla conclusione che chi vuol viaggiare in pace deve trovarsi un pretesto più spirituale del puro godimento. Spesso nel nostro mondo utilitaristico fare le cose per divertimento passa per fatuità, anzi per immoralità. Personalmente credo che il mondo abbia torto, e nel mio intimo sono convinta che la miglior ragione per fare una cosa stia nel fatto che ci piaccia farla; però consiglio a chi non voglia trovarsi davanti i volti corrucciati degli addetti ai passaporti di partire con una qualifica di entomologo antropologo o qualsivoglia ologo che ritenga adatto e propizio”.
Donna di straordinaria intelligenza la Stark, si rivelò capace di adattarsi ai più disparati ambienti umani, e riuscì a non entrare in collisione con mentalità diversissime e a giudicare le miserie umane senza per questo fare l’eremita. C’è in lei un gusto dell’avventura, una gioia di vivere che probabilmente sono la ricetta che le consentì di arrivare ai cent’anni dopo una vita che definire avventurosa è poco. La Stark è curiosa dell’animo umano, del panorama sempre vario e affascinante che l’umanità del presente e del passato offre. La affascinano in particolare le tribù nomadi che vivono secondo dettami primitivi, ma che sembrano talvolta possedere il segreto di una grande serenità. A questo proposito scrive: “Sarebbe facile pensare che quanti di loro hanno conosciuto gli agi della vita cittadina desiderino riprodurli in qualche modo quando tornano alle loro montagne, ma non è affatto vero. Tornano e vivono esattamente come hanno vissuto duemila anni prima. La forza dell’ambiente primitivo è troppo grande e quelle amenità non fanno parte delle cose che sono indispensabili alla vita dell’essere umano, mentre lo sono invece la libertà la religione il dominio e l’ozio”.
Ricercatrice di testimonianze del passato in mezzo alle devastazioni della civiltà moderna come la definisce Cino Boccazzi ne La via dell’incenso, capace di ascoltare ogni cosa perché “ogni cosa parla lungo la via” e di raccogliere elementi per un suo puzzle mentale perché “indizio dopo indizio tutto il passato rivive, rovine, città sepolte sotto enormi dune, graffiti su rocce”, riusciva a vedere “l’avventuroso nel quotidiano e il quotidiano nell’avventuroso”. Ma ciò che accompagna la Stark nei suoi viaggi è soprattutto un solido bagaglio culturale che le consente di vedere nei deserti del Luristan, o tra le gole e le montagne i fantasmi delle civiltà che si sono succedute nei secoli, dal lontano tempo di Dario. “Nel mezzo delle devastazioni della civiltà il Luristan è ancora un paese incantato” scrive la Stark, e noi, pensando alle violenze di cui sono stati testimoni queste regioni negli ultimi decenni, ci soffermiamo con piacere a pensare a un mondo meno angosciante di quello che scorre sui nostri teleschermi. Lo scopo della Stark non è tanto la ricerca di un tesori nascosti, anche se per una buona parte del libro si parla di ciò, o la conquista del trono di Salomone, irraggiungibile su un’alta montagna, ma la descrizione di civiltà antiche decadute che attestano il loro passaggio nella vicenda umana solo attraverso le rovine o le tombe che giacciono qua e là. Uno straordinario equilibrio si respira nelle sue pagine, dove l’amore per la sfida si alterna all’amore per la conoscenza, e l’interesse per la vita si áncora a quello ancora più grande per la rielaborazione della stessa in un’opera che abbia il sapore dell’arte.

Finocchio selvatico
Finocchio e altre erbe aromatiche profumano l’aria attorno a Piazza Armerina. Visitiamo la villa romana del Casale. Magnifici i mosaici del IV-V secolo a.C. distribuiti in una quarantina di ambienti: terme, peristilio, triclinio, palestre. Ammiriamo le danzatrici, la pesca con amorini, un safari africano, le famose fanciulle in bikini, la lotta dei Giganti. Bypassiamo mandrie di turisti inglesi e tedeschi che in questa stagione splendida si godono il sole mediterraneo.

Fa caldo sotto i teloni messi a protezione dei mosaici. Guardo, e intanto mi lascio permeare dal profumo delle erbe che arrivano dalla campagna. I turisti cicaleggiano. Sembrano molto soddisfatti. All’ora di pranzo troviamo refrigerio in una trattoria che offre tavolini ombreggiati da palme giganti. Ci ammanniscono un delizioso vinello, maccheroncini con olive e melanzane, gnocchetti al finocchio selvatico, agnello alla brace, carciofi e caffè. Si riparte con la macchina a noleggio, per fortuna fornita di aria condizionata. Dopo due orette, Agrigento. Fiori rossi e gialli e, in alto, i templi.

Mandorli
La Valle dei templi si stende su una superficie vastissima. In lontananza si vede il tempio di Giunone circondato da mandorli e mimose. Qua e là fichi d’India e gerani giganti. All’origine i templi erano gialli, poi venivano intonacati e colorati. Noi siamo abituati a immaginare i templi antichi bianchissimi e l’idea di una ridda di colori ci turba lievemente. Vediamo qualche piccolo esempio dei colori originali nel Museo.
Anche i templi di Giove, della Concordia e dei Dioscuri hanno il nostro tributo.

Rosmarino
Il quartiere ellenistico-romano mi piace molto. Bisogna lavorare di fantasia, certo, ma i cardi danno l’idea di passeggiate tranquille, e i mozziconi di mura ci suggeriscono l’idea della vita che pulsava all’interno di case e botteghe. Si può immaginare l’esistenza che vi si svolgeva, soprattutto all’aperto, nei patii o nei giardini, si può scivolare con la mente in un passato per molti aspetti allettante.
Il profumo del rosmarino che cresce spontaneo tra le vecchie mura ci accompagna per un lungo tratto.

Patio con limoni
Agrigento non è una bella città. Deturpata da un’edilizia dissennata. Ci avviamo per le viuzze della parte araba che si arrampicano lungo la collina in direzione del Duomo. A dir la verità in quei vicoletti ci ritroviamo per caso.(E vorremmo uscirne al più presto). Ma non c’è una via di fuga. Bisogna salire gradini e gradoni. Case fantasma. Diroccate. Stradine fatiscenti. Poi, all’improvviso, qualche patio, qualche casa che vive, qualche bel giardino chiuso tra mura, protetto dalla vista di tutti. Minuscole oasi per l’estate, da godere tranquilli tra zampilli d’acqua, fuori dal mondo. “Come si fa a vivere qui?” chiede mio marito. Ma io, che sento in quel momento il profumo di quel minuscolo paradiso, penso che certo si può.

Pini marittimi
Ci sono moltissimi pini marittimi lungo la strada che conduce alla casa natale di Pirandello nel quartiere Kaos di Agrigento. Su una pietra sono incisi i versi dell’autore siciliano: “Una notte di giugnocaddi/come una stella/sotto un pino solitario/in una campagna di olivi saraceni/affacciata agli orli/di un altopiano d’argilla azzurra/sul mar d’Africa”.
Pirandello è uno degli autori che segnano il Novecento. Nasce con lui la consapevolezza di quella che potremmo definire la tragedia della parola. “Ma se è qui tutto il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, si­gnore, se nelle parole che io dico metto il senso ed il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, nel mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”
Non è più la parola “alata”, la parola che passa da una bocca all’altra, messaggera imprecisa, ma pur sempre attendibile, messaggera parziale, ma pur importante, perché capace di veicolare contenuti significativi e farsi portavoce dei sentimenti e dalla razionalità umana.
L’uomo nel primo Novecento, attraverso la sensibilità di scrittori capaci di anticipare quelle che sarebbero state le linee guida di un’epoca, abbandona la percezione di sé che aveva nel passato, la psicanalisi attinge i più oscuri strati del suo essere, la filosofia lo concepisce come una monade magmatica a cui la realtà nella sua essenza sfugge. L’arte esprime l’alienazione l’impotenza la solitudine, che le parole o i gesti degli altri non possono infrangere in modo significativo.
Questo senso di tragica solitudine e di rassegnata consapevolezza nei confronti di un destino di incomunicabilità assoluta percorre tutto il Novecento. La parola si frantuma, si sfaccetta, si presenta in una realtà poliedrica e variegata che non lascia sicurezze, non concede facili approdi; non veicola più miti condivisi, perde ogni sacralità, non è il luogo deputato per la ricerca della verità, come nella solidale sapienza antica che si costruiva sull’oralità, tra un maestro e i suoi discepoli che, attraverso la parola, ponevano come fine comune l’approdo a una nuova verità.
Come suona lontano il mondo di Platone con i discepoli che si stringevano accanto al maestro e percorrevano con lui maratone di parole a caccia della verità. Da allora sono passati più di due millenni, e molte civiltà si sono succedute nella lettura della realtà e diversi significati sono stati dati alla possibilità di veicolare contenuti personali o universali attraverso la parola. Ma il secolo che si è appena concluso rimane unico nella sua implacabile e parossistica distruzione del significato e del valore della comunicazione. Certo, dobbiamo però ammettere che è stato anche unico per gli esiti che questo approfondimento comporta. La parola è sì divenuta inattendibile, ma veicola nuovi contenuti, affonda nell’inconscio dell’uomo, ne estrae un magma indistinto e ancora palpitante, dà voce all’universo femminile che fino allora non aveva ancora potuto esprimere se non in modo episodico una propria identità, le classi egemoni lasciano spazio ad altre classi, portatrici di altri valori e di una sensibilità diversa.
“Ah come è difficile trovare una traccia divina in mezzo alla vita che facciamo, in que­sto tempo così soddisfatto, così borghese, così privo di spirito, alla vista di quest’architettura, di que­sti negozi, di questa politica, di questi uomini! Come potrei non essere un lupo della steppa, un sordido ana­coreta in un mondo del quale non condivido alcuna meta, delle cui gioie non vi è alcuna che mi arriva” esclama il protagonista de Il lupo della steppa di Hesse, mettendo bene in luce le inquietudini della borghesia di inizio secolo. L’intellettuale dell’inizio Novecento è un intellettuale contro, la società gli appare ostile, una prigione che impastoia, una società con cui venire a patti, ma sempre sentendosene profondamente estranei e nutrendo la consapevolezza che è, come afferma Svevo, inquinata alle radici. Lo scrittore si chiede che cosa fare delle parole che veicolano così poco del suo autentico mondo e sono destinate a cozzare contro una realtà in qualche modo ostile. L’io non trova rispondenza in ciò che lo circonda e questa frattura individuo/società connota profondamente l’arte. La comunicazione diventa delirio di non comunicazione, le parole sono volutamente insensate e gridano il messaggio negativo del nulla. Da un lato non possiamo disconosce che questa negatività ha in sé anche qualche connotazione positiva: la parola dilaga, ci assorda da radio e televisione, che sempre di più colonizzano case e menti, le dinamiche economiche hanno il sopravvento. Il silenzio stesso e la lallazione possono essere una risposta, una provocazione. Ma affermare il nulla, alla lunga, mi sembra potenzialmente improduttivo. Certo, il mondo che abbiamo dinanzi è per certi aspetti inquietante. Troppo complesso forse, ed è questa la ragione per cui gli intellettuali spesso si rifugiano in comode nicchie senza compromettersi con interpretazioni della realtà. Non sono solo gli scenari inquietanti della politica e dell’economia internazionale, il declino delle ideologie, l’imporsi di un’industria culturale che spingono a questo. La società crea disagio all’intellettuale, in essa non si riconosce, e dunque vi si allontana prendendone le distanze con una tendenza apocalittica che accomuna scrittori di tendenze diverse. Ne deriva in ultima analisi un’assenza di impegno positivo, e il rifugio in una condanna troppo generalizzata per colpire davvero.

I dintorni, a cominciare da Porto Empedocle, fanno paura. Quartieri fatiscenti, case non finite, rimaste lì a deturpare il paesaggio, svincoli enormi rimasti anch’essi interrotti… Quanto spreco di denaro pubblico!
Questo spettacolo si ripete mille altre volte, in particolare nella Sicilia del Sud, intorno a Gela e Ragusa.

Papaveri e papiri
I papaveri abbondano tra le mura diroccate del Castello di Eurialo da dove si vede dall’alto Siracusa. Si mescolano al giallo delle margherite. Il panorama è vasto e bellissimo. In lontananza riusciamo a scorgere l’Etna.
Scendiamo a Siracusa e posteggiamo vicino a un immenso limoneto da cui qualche turista raccoglie limoni di cui succhia poi gli spicchi mentre si avvia alla zona archeologica. Visitiamo il teatro, le Latomie, l’orecchio di Dionisio, e infine, in un’altra parte della città, l’isola Ortigia con la fonte Aretusa. Nell’acqua crescono papiri e persino una palma. .

Dune e mimose
Siamo a Gela, nel profondo Sud. Di fronte l’Africa. Ma il paesaggio di dune sabbiose mi ricorda, non so perché, l’Atlantico. Sarà il mare mosso, o il vento forte che mi costringe a infilare un maglione, ma mi sembra d’essere in Olanda (lo so, è assurdo, in Olanda non ci sono le mimose e neanche le case abusive).
Si susseguono dune sabbiose, coperte di vegetazione bassa, a cespuglio. Abbondano le case abusive rimaste a metà, con il ventre aperto e lo scheletro parzialmente in vista, gli svincoli interrotti, le megaopere non completate.

Aranci, arance, e zagare
Ritorniamo a Taormina. Ci vado soprattutto per risentire un profumo che da un cortiletto mi aveva conquistata qualche giorno prima. Ma la pioggia deve aver lavato via il suo profumo. (E io che avrei passato là tutta la vita!)
Mi consolo in un aranceto un po’ più in là dove gli alberi sono al contempo fioriti e con i frutti. Un profumo inebriante, esaltato dalla pioggia.
(La vita è sempre così. Imprevedibile. Bisogna prendere quello che offre, non cercare quello che immaginavamo).
Ci fermiamo in un ristorantino di pesce. Clientela nordica. Camerieri che si industriano, a dir la verità molto bene, a farsi benvolere dai turisti d’oltralpe nonostante si esprimano in un inglese ostrogoto. I turisti rimangono affascinati ed entusiasti. Molti si fanno fotografare. Scambiano battute e ridono. A metà di un’ordinazione il cameriere deve uscire di corsa per mettere in salvo dai denti di un gatto il pesce esposto. Gli inglesi si sbellicano dalle risate.
Taormina, la sera, è bellissima. Le luci accese, la vegetazione che si inerpica sui pendii, la terrazza panoramica. E ancora profumo di zagare…

Limoni e faraglioni
Aci Reale, Aci Trezza; Aci Castello. I Malavoglia. Ristorante “Ai Malavoglia”. Ancora pesce. Freschissimo. Un’altra caponatina. E verdure fritte. La cassata siciliana? (ottima, ma non vorrei poi dover cambiare il guardaroba!)
I faraglioni si stagliano netti davanti a noi. Rocce vulcaniche scure.

Un volo nella notte ci riporta a casa. Avrei voluto vedere l’Etna, ma il cielo è coperto. Diventa sereno man mano che saliamo. Sotto di noi vediamo nitida la penisola Sorrentina, poi la città di Napoli. Traversiamo la dorsale appenninica e arriviamo sopra Pescara. Un po’ di turbolenze e già, velocissimi, siamo in vista di Venezia.

marzo 2001

Alcuni passi da Il cielo sulla Provenza

(pp. 38 -41)

– Passavo di qui, – disse Sandra entrando.- Ti ho portato un po’ di ratatouille.
– Cosa farei senza di te? È fuor di dubbio che sono l’ex più viziato del mondo, sorrise Charles facendole strada nell’appartamento.
Sandra si fermò davanti alla grande vetrata e guardò giù: – Hai una vista stupenda!

Charles: – La casa che avevamo assieme era meglio.
Sandra: – Questo è un rifugio di scapolo che ti invidio.
Charles: – Non sono uno scapolo. Sono un mammo. Ho un ragazzino di diciassette anni di cui occuparmi. Ti pare poco? Sono io che invidio la tua condizione.
Sandra: – Ti sembro così felice?
Charles: – Hai un marito, una famiglia.
Sandra: – E un figlio di due anni… Non sai quanto dia da fare!
Charles (triste): – Un marito forse migliore di me.
Sandra (ridendo): – Non è detto.
Charles (alzando lo sguardo): – Ero migliore io?
Sandra (pensierosa): – Non so. Con te era diverso. Con te ho fatto l’amore nella mente prima di tutto. Ho amato l’idea che m’ero fatta di te. Talvolta è così: ci innamoriamo di un’idea e non la vogliamo lasciare, anche se la persona non le corrisponde.
Charles: – Non è colpa mia. Non ho fatto nulla per mimetizzarmi. Penso di essere sempre stato sincero.
Sandra: – Secondo me ti camuffavi bene. Ti rendevi amabile. La tua natura era seduttiva.
Charles: – Non potevo farne a meno. Avevo bisogno di qualcuno che mi amasse. Per sopportare il male di vivere non c’è che l’amore…
Sandra (ridendo): – Dovevi stare proprio male! Ti buttavi a pancia in su come un cucciolo…E non si poteva non amarti. Poi veniva fuori che non eri un cucciolo indifeso, almeno non solo. Era come se in te ci fossero tante persone… ora una, ora l’altra… Perché mi sono innamorata? Mah…forse a un certo punto della vita si ha voglia di innamorarsi, e chiunque si presti… Non è stata abilità la tua. È solo che ne avevo bisogno.
Charles: – Non credo che ti saresti innamorata di chiunque.
Sandra: – Forse no…
Charles: – Non dire così! Non strapparmi una delle mie poche certezze.
Sandra: – Non voglio strapparti nulla.
Charles: – Strappami, strappami!
Sandra: – Che cosa?
Charles: – Magari qualche indumento.
Sandra: – Non scherzare, Charles.
Charles: – Sono anni che non facciamo l’amore! Perché te ne sei andata così in fretta? A un certo punto non ti ho trovata più. Non sono mai riuscito a capire.
Sandra: – Ero arrivata a un punto di sofferenza grande.
Charles: – Come mai non me ne sono accorto?
Sandra: – Ti avrò pur dato qualche segnale…
Charles: – Non l’ho visto.
Sandra: – Non avrai voluto vedere.
Charles: – Ma adesso sei felice?
Sandra: – Sono più tranquilla.
Charles: – E lui sa sedurti?
Sandra: – Non ha bisogno di sedurmi. Lui è. Tu non eri.
Charles: – Che cosa significa?
Sandra: – Tu non esistevi. Ogni volta ti creavi. Ma poi sparivi e io restavo sola. Avrei fatto qualunque cosa per essere con te davvero. E invece avevo sempre la sensazione che ti avrei perduto.
Charles: – E invece ti ho perduto io.
Sandra: – Ci siamo perduti a vicenda.
Charles: – A un certo punto ti ho trovata lontana e distante. Non mi volevi più…
Sandra: – Forse volevo scuoterti.
Charles: – Ma io non capivo.
Sandra: – Volevo che mi desiderassi di più.
Charles: – Io ti desideravo.
Sandra: – Solo che non me lo facevi capire.
Charles: – Non volevo insistere.
Sandra: – Forse in questo hai sbagliato.
Charles: – Dimmi, Sandra, se avessimo avuto un figlio sarebbe stato diverso?
Sandra: – Forse. Ma io ti amavo solo con la mente. Era come se il mio corpo non fosse preparato ad accettarti.
Charles: – Perché?
Sandra: – Non lo so. Non posso spiegati quello che neanch’io riesco a capire.
Charles: – Qualche volta però è stato diverso. Eravamo solo noi. Era come un magico luogo. Niente ci poteva fare del male.
Sandra: – Era bello, ma non capitava spesso.
Charles: – Resti a cena?
Sandra: – Ah, sei buffo! Non c’è niente nel frigo!
Charles: – La tua ratatouille, oppure possiamo cenare al ristorante…
Sandra: – No, devo scappare. Passerò domani e ti porterò qualcos’altro. Come sta Micael?
Charles: – Bene.
Sandra: – Dov’è?
Charles: – Da amici.
Sandra: – Bacialo per me. E tu come stai? Mi sembri un po’ giù.
Charles: – Mi ha telefonato Manuela. È preoccupata.
Sandra: – Perché?
Charles: – Ha ricevuto una strana e-mail da un pazzo. Ho paura che sia in pericolo.
Sandra: – Credi? Non sarà che leggi troppi romanzi?
Charles: – I pazzi che uccidono senza motivo esistono anche nella realtà.
Sandra (uscendo): – Dille di avvertire la polizia.
Charles: – Gliel’ho già consigliato, per quanto…non credo che si sprechino molto.
Sandra: – Non credere…
Charles: – Grazie di tutto, ti senti sempre un po’…
Sandra: – Come la tua mamma… Non posso sopportare l’idea che ti trascuri.
La porta chiusa dietro al profumo di Sandra lasciò Charles nel più grande vuoto mentale. Era stata troppo breve la sua presenza. Troppo poco gli aveva dato. Sempre gli aveva dato troppo poco. Anche negli anni del loro matrimonio. Era come se non fosse riuscito mai a possederla.

(omissis)

( pp. 49 – 51)

– Ah, sei tu! fece Monique meravigliata, aprendo la porta del suo negozio a Charles. Charles infilò di sbieco il suo grande corpo tra porcellane e oggettistica varia e le sorrise.
– Che piccolo questo negozio! – commentò.
– Non ci sono spazi a Vence, anche un buchino così costa una fortuna, – commentò Monique. E aggiunse: – Sono contenta di vederti. Come mai da queste parti?
– Avevo voglia di chiacchierare con te.
– Notizie di Jean-Claude?
A dir il vero non sapeva neanche lei se desiderava sentire qualche notizia, o se preferiva in qualche modo rimuovere un pensiero che, se richiamato alla mente, le causava un acuto dolore.
– Non ho ancora nessuna notizia, – rispose Charles.
– Sono un po’ giù…
– Io sono uno specialista nell’esser giù!
Monique rise e lo guardò interrogativa.
– Ti riassumo la mia vita, se vuoi. Lavoricchio come giornalista mal pagato ad Antibes, scrivo libri destinati a rimanere nel mio pc, passo il tempo a pensare che la mia vita è la quintessenza del fallimento. Ho avuto una moglie che mi ha lasciato per oscuri motivi. Ho una cara amica che non viene a vivere con me per rispettare la nostra libertà e… dato recentissimo… mi sono innamorato di una donna che ama solo la danza…
– Piuttosto solo, direi…
– Solo no… ho molti amici, e poi faccio il mammo…
– Hai un figlio?
– Non proprio. Vive con me il figlio diciassettenne di una donna di colore che era la governante di mia madre.
– È faticoso occuparsi da soli di un ragazzino?
– No, anzi è bellissimo…salvo che…talvolta mi parla in una lingua che mi risulta incomprensibile … chiede autonomia ma anche attenzione…sembra adulto, e in un certo senso lo è, ma qualche volta fa tenerezza come un bambino, poi però all’improvviso diventa ruvido e si chiude a riccio…
Monique rise. – Raccontami invece di te, – la incoraggiò Charles.
Monique tamburellò con le dita: – Ho una vita normalissima. Due figlie un marito un lavoro… Sono sempre vissuta a Vence. Jean-Claude è stata l’unica follia della mia vita. Per questo mi manca… Tu che lo conosci da anni, cosa pensi di lui?
Charles rimase per un po’ in silenzio. Era difficile definire Jean-Claude. Erano tante le sue contraddizioni. Ci provo, pensò. – È una persona in un certo senso indifesa. Ha dentro qualcosa di candido, di infantile e quindi anche di feroce. Sa fare del male con la stessa indifferenza con cui lo fanno i bambini. Si crede il centro dell’universo…
– Detti così sembrano più difetti che pregi…
– Non sono difetti in lui. Ti viene da considerarli normali. Come le sue fughe …
Monique lo guardò meravigliata : – È abituato a sparire?
– Sì. Ricordo, anni fa…
Monique accostò una piccolissima panca e gli sedette vicino: – Sai, Charles, conoscerlo per me è stata un’esperienza esaltante. E allo stesso tempo anche terribile… (Rimase in silenzio per qualche istante e pensò: Assieme a lui ho scoperto zone della mia anima che mi erano ignote. Per questo lo ho amato, per avermi aperto dei mondi che mi erano sconosciuti. Per avermi consentito di gettare uno sguardo sulle mie vertigini…) Era come se una parte di me che non conoscevo affiorasse… era come se mi scoprissi a me stessa…Quello che scoprivo non era solo bene… c’erano anche lati oscuri… aspetti che avrei voluto rinnegare, eppure mi sembrava che solo approfondendoli avrei avuto qualche frammento in più di conoscenza e che, per averlo, valeva la pena di affrontare qualsiasi sacrificio e dolore. (Sorrise quasi svegliandosi da un’ipnosi). Scusa, a te tutto questo dirà poco, probabilmente…
– Una persona speciale qualche effetto lo produce sempre, – commentò Charles.
Monique lo guardò: era alto e abbastanza robusto, le lunghe mani appoggiate alle cosce e i capelli un po’ scompigliati. – Sei una persona simpatica. Mi piace chiacchierare con te. E poi sembri così allegro…
– Te l’ho detto, non è che me la passi benissimo. Anzi. Ho una storia che non decolla…

(omissis)

(pp. 83-85)

Le cime dei monti aguzze come pinnacoli, l’aria che arrivava di sera… Se le ricordava, André, quelle estati nei campeggi di montagna… Luce, luce… tanta luce. Certo, era luglio. Giornate lunghissime. Tende, picchetti, sacchi a pelo stesi al sole. E sua madre che gli metteva davanti la colazione pane burro marmellata muesli dolci di mandorla. E lui che non voleva mangiare. – Sei troppo magro, André, diceva sua madre.
Sua madre… Avrebbe avuto anche lui le sue madeleines alla Proust… Ma non sarebbe stato capace di raccontarle così bene. Pazienza! Forse il sole, quel sole eccessivo di quelle estati in montagna, lo aveva spinto per il resto della sua vita ad amare i luoghi bui.
Un albero rovesciato, con le radici all’aria… Sembra una scultura, – aveva pensato.- Cosa c’è di più bello di un albero? Quell’anno in montagna gli era nato l’amore per la natura. E anche le rocce rosse …- Come si chiamano queste rocce? aveva chiesto. Ma nessuno gli sapeva dare una risposta. Allora aveva deciso che avrebbe studiato scienze naturali.
La rugiada su una ragnatela faceva complicati ricami. Da passarci ore a guardarla. E le formiche?
– Cosa fai là per terra André? – chiedeva sua madre. – Vieni qui!
I ragazzi correvano sui pattini. – Me li comperi i roller? – aveva chiesto André. Ma sua madre non glieli aveva comperati.
All’improvviso, niente più estati così. A rivangare nella memoria non trovava la ragione. Qualche problema di famiglia, forse. Le estati seguenti le avevano trascorse sulla costa a quattro passi da casa.
– Non mi piace lo zenzero!
– Perché? – aveva chiesto sua madre. – È un vero peccato, a me piace speziare.
– Non voglio mangiare – aveva detto André. – Non mi piace lo zenzero.
E così la madre aveva iniziato il suo lamento, e André si era sentito molto incompreso. Avrebbe voluto che la mamma buttasse via zenzero carne e altri cibi a cui dedicava tanto del suo tempo, e lo prendesse in braccio come quand’era piccolo. Niente da fare…- Hai già quindici anni! – diceva sua madre. – Sei un uomo!
Non poteva chiedere a sua madre di prenderlo in braccio. Per tutta la vita avrebbe desiderato che sua madre quella sera, mentre teneva in mano un barattolo di spezie e tirava fuori dal frigorifero dei pezzi di carne puzzolente, buttasse via tutto e lo prendesse in braccio.
– Perché non mangi? – continuava invece a ripetere. E lui, come risposta, continuava a non mangiare, per sentirselo dire ancora, perché gli sembrava che solo in quella preoccupazione assurda e maniacale di sua madre per il suo appetito ci fosse un po’ di quello che lui desiderava: attenzione e un amore completo.
Nella vita poi non li aveva mai ricevuti, amore e attenzione. Almeno non come avrebbe voluto. Col tempo, però, aveva imparato a non desiderarli neppure. I problemi s’erano risolti e lui aveva vissuto un’esistenza quasi normale, aveva sposato una donna, aveva sperato che lo amasse con quell’attenzione totale di cui lui aveva bisogno; ma così non era stato. Poi aveva avuto una figlia e l’aveva anche perduta. Era stata affidata a sua moglie, la sua bambina, e se n’erano andate via entrambe portandosi dietro brandelli della sua carne… E anche se aveva compiuto da pochi giorni i quarant’anni, ancora gli rimaneva dentro quella sera, e sua madre con un pezzo di carne in mano e il frigorifero aperto e il suo querulo e delizioso perché non vuoi mangiare, André?
– Guarda dentro di me, ascoltami! – aveva gridato André senza parlare. Ma sua madre si puliva le mani nel grembiule e borbottava qualcosa sulla sua sorte.

– La vita è come il mare… Sarai un Ulisse, andrai lontano, – così diceva la mamma quando André aveva dieci anni… – Nelle onde ci andrò… E la mamma ripeteva è come una conchiglia… la porti all’orecchio, ascolti… la vita è una conchiglia, ma bisogna ascoltare bene… – E cosa c’è dentro questa conchiglia? – chiedeva il bambino.- La vita che ribolle. Il sangue che scorre. E, dentro, le molecole che vibrano. E, dentro ancora, gli atomi, e dentro ancora…
Il bambino ascoltava e gettava sassi nell’acqua. – Andiamocene via, – diceva. – Io e te. Mare onde tuoni la faccia del bagnino… – Cosa ci facciamo qui? Torniamocene a casa! – Ma, André ! Siamo appena arrivati in vacanza!
La sua bambina… Aveva dieci anni … No, undici… La vedeva così raramente! Giulia diceva che lui non era in grado. Diceva: In quell’appartamento, io non la mando!
E lui replicava: – Ma, Giulia! Chiedi a nostra figlia che cosa preferisce. Magari vorrebbe venire… – Che cosa credi che capisca? – replicava lei, irritata. – È solo una bambina.
Come aveva potuto sposare Giulia? Era così insensibile. Certo, sua figlia era solo una bambina. Ma sentiva, capiva. Anche lei un giorno si sarebbe ricordata. Senza volerlo sarebbe rimasta inchiodata a qualcosa per sempre.

– Per la bambina basto io, diceva sua moglie.
D’altronde le avevano affidato la bambina, e André doveva accontentarsi di mozziconi di tempo. Qualche volta andavano a mangiare un gelato o al cinema. Una sola volta Giulia gliel’aveva lasciata per una vacanza (ma solamente perché doveva fare un safari con un amico e non voleva portarla).
Accartocciato nelle sue ubbie, André non era stato in grado di fare molto. Avevano passato una vacanza noiosa e miserabile in una pensioncina vicino a Cagnes. Al mattino lui scriveva nel parco e la bambina giocava. Si sentiva stupido e inadeguato. Il desiderio, che tante volte aveva provato, di starsene solo con la bambina, si era trasformato in un sottile disagio. Cosa dirle? Come intrattenerla? Come farla giocare?
– Vuoi dei pattini? – le aveva chiesto, perché si ricordava che alla sua età li desiderava. Ma la bambina non voleva dei pattini.
Per fortuna si arrangiava da sola e aveva trovato degli amici. André però si sentiva ugualmente in colpa e le parole di Giulia che lo condannavano a essere inadeguato gli risuonavano nella mente.
Quando erano ritornati a casa, era stato contento e s’era convinto che sua moglie avesse ragione: lui non era adatto ad avere una figlia, era meglio che continuasse da solo la sua esistenza balorda.
Mare, sabbia negli occhi, rumore delle onde. Notte, e non aver niente da dire.

(omissis)

(pp. 149 -152)

Philipe, come ogni medico, non andava volentieri dal medico. Solo in caso di necessità, quando proprio non ne poteva più. Ma c’era un maledetto dente che da cinque mesi lo tormentava. Era un dolore acuto, che a intervalli spariva, e, ogni volta che spariva, lui si metteva il cuore in pace, e fantasticava su come il dolore fosse correlato alla mente e su come quel dolore fosse indicativo di qualche suo malessere interiore. Ad ogni buon conto andrò dal dentista, concludeva. Ma non si decideva mai. – Un nuovo dentista ti ci vuole! Devi andare nello studio dove vado io. C’è un dentista molto bravo, – gli aveva detto una sera Marcel.
Alla fine si era deciso e gli aveva chiesto un appuntamento.

– Apra la bocca, – aveva detto il dentista dopo aver sprecato non più di quattro secondi per un impersonale e asettico saluto.
Un attimo, avrebbe voluto dire Philipe. Non ti conosco neanche! Diciamoci due parole almeno per familiarizzare. Come posso aprire la bocca a uno sconosciuto?
E invece per il dentista il tempo era denaro, e la bocca fu aperta. Philipe sospirò.
Il braccio peloso che gli entrava nelle fauci e un’ esclamazione, sfuggitagli più che altro per chiedere una pausa, bastarono perché il dentista lo rimproverasse brusco: – Deve stare fermo. Altrimenti non la finiamo più.
Non la finiamo più? Ma se abbiamo appena iniziato! pensò Philipe, e continuò a guardarlo.
A così breve distanza vedeva il suo braccio abbronzato (come mai i dentisti sono sempre abbronzati?) vedeva i suoi occhi un po’ sporgenti (starà bene, avrà digerito, sarà di buon umore ?)
Il dentista trapanava veloce. Trrr Trrr… Rumore infernale.
Philipe continuava a pensare. Magari ha litigato con la moglie…Magari è un mese che non fa l’amore… E io sono nelle sue mani…
Il dentista trapanava. Che rumore orrendo, pensò Philipe. Come si può vivere felici trapanando i denti del prossimo?
Eppure l’assistente, una bella ragazza mora, sorrideva.
– Isolde! Passami…(E Isolde sorrideva e passava…)
– Non si risciacqui, non occorre. Ha due aspiratori in bocca.
Effettivamente. Gli succhiavano la saliva. Aveva la gola secca. Ma pure desiderava sputare e sciacquarsi, almeno per prendere un po’ di tempo.
– Ahhii! – gli sfuggì. Subito si pentì di quello che aveva fatto. Quel gridolino aveva indotto il dentista a munirsi di ago e…
– Dovrò precedere con l’anestesia.
– Ma come! – cercò di borbottare Philipe. Non ho mai fatto l’anestesia.
– Solo una punturina… Ecco fatto!
– Non avevo mai… ( Non riuscì a finire che aveva di nuovo la mano del dentista in bocca).
– Adesso cosa sentirò? – chiese con gli occhi e qualche mezza parola.
– Non sentirà niente. Qualche formichina. Sente qualcosa?
– Niente .
– Adesso?
– Niente.
– E adesso?
– Ahiii!
– Ancora?
– Solo un po’.
– Allora dovrò farle un’altra anestesia. Sul palato. Dalla radiografia sembra che il nervo sia compromesso. Vediamo cosa si può fare.
– Cosa? Cosa?
– Lei non deve parlare!
Sono nelle mani di un pazzo, pensò Philipe sgomento. Mai visto uno così! Per fortuna che me l’ha raccomandato Marcel! Guarda che braccio peloso! Guarda che baffi!
Trrrr
– Ahi!!
– Si rilassi. La sento un po’ teso.
– Eh!…
– Non parli!
– E non sputi, – aggiunse l’assistente.
Povero me! Non ho mai avuto problemi col mio dentista. Ma lui era diverso. Mi raccontava della barca. Mi parlava. Mi chiedeva sempre del mio lavoro. Metteva la mia musica preferita. Questo qui, invece…
– Temo che glielo dovrò togliere, – fece il dentista dopo aver armeggiato un po’.- Così non risolviamo niente.
Tra schizzi uscì un meravigliatissimo: – Il dente?
– Certo. Il dente.
– Ma che cos’ha ?
– Una carie profonda. Non lo possiamo salvare.
– Ma è sicuro? (La bocca di nuovo tappata).
– Facciamo in un attimo, vedrà.
– Mai tolto nessun… (Di nuovo la mano in bocca)
– Capisco, c’è sempre una prima volta.
– Ma è sicuro? (quasi con le lacrime)
ZAC !
– Ecco fatto!
– Garza!
– Ecco!
– Tamponi! Tenga così.
– Oh!
– La garza così per mezzora, poi un gelato, non beva cibi caldi, non mastichi. Arrivederci.
– Aarr…
– E non parli.
– I…
– Vada, vada

(omissis)

Incipit da Il cielo sulla Provenza

Ecosistema fragile il maschio, pensò Monique. Marcel, davanti a lei, beveva il caffelatte. Faccia slavata. Labbra smorte. Risveglio opaco sulla collina di Vence. Eh sì, quella notte lei aveva sferrato un non piccolo attacco al suo orgoglio di maschio. Gli aveva spiegato che da un po’ i loro ritmi non si accordavano affatto, gli aveva illustrato particolari che sarebbe stato gentile tacere e aveva aggiunto, per colmare la misura, che la collina sopra Vence, dove vivevano da oltre diciassette anni, non era il luogo più bello del mondo. Il marito l’aveva guardata con aria meravigliatodolente, imburrando con violenza un pezzo di pane. Monique aveva continuato implacabile. D’accordo! Quello era un luogo da privilegiati. Pastini coltivati a oleandri e magnolie. Un paradiso. – Ma chi dice che i privilegiati siano felici? – aveva concluso, assaggiando il suo succo di frutta. – Io qui mi sento una prigioniera!
Luise servì degli ottimi croissants alla mandorla. Monique li assaporò con calma, mentre finiva di bere il caffé.
– Non hai fretta di andare a lavorare stamattina? – chiese il marito meravigliato.
Era vero, non aveva fretta. Avergli fatto del male le dava un senso di potere, e se ne stava a goderselo tranquilla.
– Aprirà Marguerite. Non c’è problema, – disse in punta di lingua, sistemandosi la coda che raccoglieva i lunghi capelli biondi.

Passarono Annette e Susan, pronte per andare a scuola, e Luise che chiese velocemente qualche indicazione per il pranzo. Poi tornò il silenzio. Monique si rimise a contemplare quelle che a tutti gli effetti le sembravano le rovine di un buon rapporto. Perché in fondo era sempre stato un buon rapporto il loro, e non soltanto a detta di amici e parenti, il che poteva essere relativo, ma anche a parere dei diretti interessati. Un matrimonio veramente riuscito.
È già primavera, pensò mentre percorreva le strade che attraversavano la collina e si fermava ad osservare il cielo della Provenza limpido e schiarito dal vento.

– Partiamo? – aveva detto al marito a cena. – Non ti andrebbe un viaggio?
Lui aveva a lungo parlato del problema degli olivi e dell’azienda che, pur ben avviata, negli ultimi anni aveva dato non pochi problemi. La concorrenza spietata degli altri paesi mediterranei, l’immissione sul mercato di prodotti assolutamente poco rispondenti ai criteri di onestà e di sapore, stavano rendendo la vita difficile a chi cercava di vendere prodotti biologici senza adulterazioni di sorta. Era per questo che lui non poteva nemmeno pensare di lasciare in quel delicato momento la sua azienda.
Monique gli aveva ricordato che, anni prima, il problema erano state le bambine e, prima ancora, la vecchia madre.
– Il fatto è che per te il mondo è questo, sembra che tutto il resto non esista, – aveva insistito con insolita enfasi. Non le interessava particolarmente che suo marito volesse o non volesse partire. L’importante era trovare un pretesto per tirare fuori un po’ del suo malumore.
Marcel aveva spiegato, a lungo e con calma, che in realtà lui era un sedentario, quella era la sua natura, ma che, nonostante ciò, avrebbe desiderato farla contenta, magari con un viaggetto in un momento più favorevole. Poi s’era messo a riordinare i suoi sigari e si era disinteressato dell’argomento.

Mettere in ordine i sigari, catalogare cartoline e foto, archiviare il passato e possederlo era per lui fonte di grande piacere, e se ne serviva per compensarsi delle inevitabili frustrazioni che la vita gli elargiva. La pipa ad acqua richiedeva le sue cure, così pure le numerose macchine fotografiche a cui aveva affiancato un vasto repertorio di strumenti tecnologici: masterizzatore, scanner e via dicendo. Si rinchiudeva nel suo studio per ore.
– Il tuo ideale di vita sarebbe un eremo – commentava talvolta Monique, vedendolo chiuso nel suo guscio.
Con il tempo però s’era creata anche lei una vita parallela. In definitiva potevano dire di loro: le nostre vite scorrono indipendenti, ogni tanto si incrociano.
Ma indipendente è forse un termine troppo ambizioso, farebbe presupporre una vera autonomia e libertà che in realtà per Monique era abbastanza limitata. Quando serviva la sua presenza era sempre lì. Generosa di aiuto e di parole. Alle volte invidiava le amiche libere da impegni familiari. Loro sì che potevano godersi la vita!

Mentre attraversava in macchina le strade che percorrevano le colline, Monique pensò che non era affatto vero che la casa di Vence non le piacesse. Bastava che aprisse il cancello di legno e si trovasse a percorrere il breve tratto di lastricato, che portava al portico fiancheggiato da un roseto, perché sentisse un senso di appagata meraviglia. Gli alberi che crescevano rigogliosi in quel piccolo paradiso, di cui conosceva – per così dire – ogni foglia, le erano sempre sembrati dei compagni più che degli oggetti inanimati. Aveva curato lei stessa che il giardiniere disponesse le magnolie e gli oleandri nei punti più adatti, e aveva amato le palme e le agavi, che preesistevano, come fossero dei gioielli di famiglia. La campagna le piaceva in ogni stagione, in ogni momento dell’anno riservava delle sorprese. La primavera era poi la stagione migliore!
Ma sapeva perché aveva parlato così. Conosceva bene la ragione del suo malumore. Ne era cosciente, come sempre sappiamo quello che veramente sentiamo, soltanto se lo vogliamo riconoscere. Solitamente però la strada più facile, e apparentemente meno dolorosa, è quella di negare, anche a noi stessi. Allora diciamo non so, non capisco, non mi rendo conto, e cerchiamo i più futili diversivi per stordirci e non trovarci di fronte a quello che pensiamo davvero.
Se lasciava che il suo pensiero scorresse libero, vedeva davanti agli occhi l’atelier di S. Paul dove qualche giorno prima le avevano detto: – Non c’è, non sappiamo nulla, è sparito.
E il proprietario dello studio aveva aggiunto: – Non mi ha neppure pagato gli ultimi tre mesi, figuriamoci se non sarei felice di avere sue notizie!
Un amico, che per caso lo cercava anche lui, aveva riso: – Non è la prima volta che scompare. Lo conosco da anni. Poi ritorna o si fa vivo magari con un’e-mail da Honolulu. Da lui c’è da aspettarsi di tutto.
Monique se n’era andata con la sensazione che il terreno le ondeggiasse sotto ai piedi. Poi si era ripresa e aveva pensato che non era da lei. In fondo aveva sempre sostenuto che dalla Provenza non si sarebbe mai mossa. E lui aveva replicato che era nato per viaggiare, e che quell’atelier a Vence l’aveva aperto solo per gioco…- Tanto non s’aspettava niente, turisti che passano …Quanti turisti! E i loro sudici occhi…- Presto avrebbe avuto bisogno di aria nuova. Glielo aveva detto e ridetto. I loro patti erano chiari: libertà per entrambi! E poi lei non poteva certo offrirgli molto. Aveva due figlie che non avrebbe lasciato, una casa che amava. Non era una love story che potesse concludersi con una fuga la loro. Era solo una piccola parentesi che si insinuava tra qualche maglia di un vissuto non del tutto composto, in un intreccio di esistenze che avevano già un loro codificato e poco mutabile tracciato.

Donne senza volto, alcune poesie

Solitudine

In un limpido cristallo
Ti specchiavi sorridendo

Terra sola

Terra quieta
D’eterne notti
Terra della tua pena

L’amore

L’uomo goffo e selvaggio
È solo un’onda impazzita

Ma lei farfalla di vetro
Volteggia tra i coriandoli

Verde ramo libero

Verde ramo libero.
Nell’iride
L’onda del mare.
Mondo acquatico,
Tra alghe fluttuanti
E pesci trasparenti

Verde ramo libero.
Selvaggia, come un dio pagano
Come la dolce alunna
Di un lontano paradiso

Un orizzonte di nubi impossibili
Una breve brezza tra i rami

Malinconica
In questa civiltà di rinuncia

Le nostre mani erano vento

Tenere tremavano le erbe
Pregne dell’odore del cielo.
Nel fumo soffiavamo
Parole,
Confidenze nella conchiglia
Di una roccia

Ma le nostre mani
Erano vento
E l’ombra s’addensava negli occhi

Dopo aver sciolto queste verità
Mi umilia
L’indifferenza

Solo, nella notte,
Supino
Lasci che la pioggia lavi
Quell’immagine di me
Che non accetti

E allora, con rabbia,
Ho sbattuto la porta
Che volevo dischiudere
Per lasciarti spiare
Tra le pieghe dell’animo

L’assoluto
Mi ha perduto
Altre volte

Ma stanotte
Voglio danzare per te
E fremere
Dei tuoi occhi inebriati
E ridere nel vederti guarito
Dal timore di perdermi
Mentre io tra le dita
Ti sfuggirò
Sola

Come soffi di vento

Siamo andati
Come soffi di vento
Senza incontrarci

Sott’acqua ridono parole:
fango d’occasioni perdute

Chi ci ripresterà quei momenti?
Suona lontano l’eco del passato

Un’altra notte è fuggita
Senza voce

Furtivamente

Una nebbia bianca
Sale dalla strada
Come da un inferno lontano

Scivoliamo veloci
Nel buio

Eredi

Nell’oscurità
Velata di ragnatele
Luccicanti
Il mare canta
Il silenzio più dolce
Dell’universo

E noi
Sull’acqua
Alziamo ridendo
Pergolati di conchiglie
Raccogliamo le reti
Dei pescatori
Fuggiti

Adolescenza

Ti amo
Come i petali
Danzano nel vento
Come le rocce
Si scaldano nel sole
Come la spiaggia
si bagna nel riflusso del mare

L’onda che ritorna
Alle profondità degli abissi
Non ha nome

Trieste

Trieste
Terra d’acqua e di roccia
Ci doni
(ed è un miracolo sempre)
queste lunghe serate
tra i grilli
E la città si allontana
Con il suo grigio
Di morte

Sì, amo l’avventura
Profumata di muschio
L’eco folle dei monti
Due occhi
Che mi guardino
Nell’anima

Non credo ai videogames

Non credo ai videogames rumorosi
Alle stupidità televisive
All’amore dopo cena
Alle spiagge piene di gridi
Ai facili valori della vita
Al peeling per mostrar vent’anni

Non credo
Ai sorrisi perché poi scopiamo
Ai necessari convenevoli
Alle parole di chi crede
Alle magnifiche sorti e progressive

E neanche (ormai) alle parole
Di chi fugge
Da questa assurda nostra società

Mi intenerisce una piccola conchiglia
Il silenzio dei monti
Il vento tra i capelli
Ho fame di cose cristalline

Scortecciando
L’assurdo della vita
Vorremmo
Ritrovare ciò che vale

Atarassia

Non credo
Nella facile felicità
Raggiunta per sorte
O per denaro
Nell’insieme non credo
Alla felicità

Ma in ogni momento
Mi ritrovo consapevole
Di fare qualcosa
Per quella che è sola
La meta
Dell’uomo infelice:
la serena consapevolezza
il capire e il capirsi
il sorriso che nasce
dall’aver superato
le illusioni e le delusioni
da tempo
dal non avere più desideri

Giustizia

E ci arrabbiamo per nulla
Perché all’uomo comunque
Non è concesso
Che il suo frammento di gioia

Più in lui non cape
Seppure avesse davanti
Tutti i beni del mondo

E’ in fondo giustizia
Anche questa

La serena indifferenza

Aspettavo di trovare
Con gli anni
Un senso probabile
Del non senso di vivere
Frugando tra le rabbie e le noie
Frugando tra la vita
E la mia sempre troppo pallida
Idea della vita

Ma forse saggezza
È questa indifferenza serena
Che mi fa sorridere e amare
Sfiduciata eppure tranquilla
Indifferente eppure curiosa
Scettica eppure cordiale
Per prendere tra le dita
Quel poco infinito
Che questa follia ci può dare

Spiragli

Poesia
La ricerca placata
La parola raggiunta
Talvolta corteggiata per anni
Talvolta sgorgata all’improvviso
E poi fissata per sempre
E i moti dell’animo
Attinti fino in fondo
Le facili certezze scortecciate
L’anima nuda
Senza mistificazioni

Nulla mi ha dato
Un’ebbrezza più grande
Il sapore dell’eterno
Il senso dell’immutabile