CHIARA: Continua a stare zitto! Se c’è una cosa che mi fa imbestialire è il tuo silenzio…
MATTEO: Non lo faccio apposta. Soffro… Non so che gusto ci provi.
CHIARA: E tu allora? fai sempre il contrario di quello che vorrei che facessi.
MATTEO: In che cosa sbaglio, Chiara?
CHIARA: Non è che tu sbagli… è che noi siamo sbagliati. Assieme esaltiamo le nostre fragilità.
MATTEO: Bella frase! Ma che cosa vuol dire? Mi sembra caso mai che tu sia troppo forte per me.
CHIARA: Non credo di essere forte, con te proprio no. È proprio la mia debolezza la causa di tutto.
MATTEO: La tua debolezza? O la mia?
CHIARA: Diciamo la nostra. Ci sono dei momenti, ecco… quando ti prometto cose che magari non so se potrò mantenere. Continua a leggere














Platone diceva che l’arte si serve degli uomini anche da poco per realizzarsi. Persone di scarso valore e di discutibili doti umane possono partorire delle opere di grande valore. Questo lo possiamo constatare anche passando in rassegna la vita di alcuni grandi del passato che nell’arte raggiunsero vette insuperate e nella vita furono delle persone di grande banalità. Alcuni furono malvagi o gretti, altri si diedero a tutti quei vizi che nelle loro opere bollavano, altri ebbero vite spericolate e sgangherte, molti morirono suicidi.
ho avuto una vita tranquilla























Intervista pubblicata nella tesi di laurea di Matea Petrovi? su “Donne senza volto” (Zara 2015)
Al suicidio di Pavese è stato dato sempre molto spazio e molti hanno cercato di spiegarlo con motivazioni legate alla sua insoddisfacente vita amorosa o a disturbi di natura sessuale. Per capire l’animo di Cesare Pavese e il percorso che lo portò al suicidio sono di indubbia utilità l’epistolario e il diario Il mestiere di vivere. Sono loro a farci luce sui meandri più oscuri e meno pubblici del suo pensiero e del suo percorso umano. Nel ricchissimo epistolario viene spontaneo andare alla ricerca di quell’incrinatura dell’animo che lo portò a scegliere la morte. Ci sono nelle lettere, e in particolare nelle lettere dell’ultimo periodo, molte interessanti indicazioni; particolari inquietanti che, scritti appena qualche mese e in alcuni casi qualche giorno prima del suicidio, inquietano ancora di più.
Ho giù un aereo al cancello che mi aspetta
La crisi tocca soprattutto noi, ventenni e trentenni, noi plasmati da una società dei consumi noi allevati come consumer-addicted, diceva il Sosia – lo avevamo soprannominato così perché nel suo look ricordava Robert Pattinson, quello di Twilight, – noi tagliati improvvisamente fuori dal sogno di quel miglioramento sociale che hanno sperimentato le generazioni precedenti. Siamo i primi ad essere esclusi. Via, non c’è più posto. Il mondo è saturo e tu sei superfluo. Non è allegro, che dite?
In quarant’anni il nostro impatto negativo sulla biosfera è triplicato, e non smette di crescere. Sembra impossibile. In fondo, non mangiamo il triplo, non viviamo il triplo, non abbiamo che parzialmente migliorato la qualità della nostra vita e in certi settori si vive per certi aspetti peggio. E allora? Come mai?
Giornata grigia. Nebbia sottile che sloga i contorno delle cose. Trieste era famosa per la bora ma ultimamente d’inverno qui dominano pioggia e nebbia. L’appuntamento con Claudio Magris è al Caffè San Marco, sotto le maschere che lo scrittore ha immortalato in Microcosmi, l’opera che vinse nel 1997 il premio Strega. “Non è male riempire i fogli sotto le maschere che ridacchiano e tra l’indifferenza della gente seduta intorno.
Hai una bocca di cartone
A vederlo di notte o in un giorno di bora viene da scambiarlo per un signore che attraversa il ponte del Canal grande. E invece è una delle statue a grandezza naturale che campeggiano a Trieste, opera dello scultore Nino Spagnoli: Joyce col un libro sotto braccio, la giacchetta leggera e un papillon, e in faccia l’aria di andarsene in una delle sue osmizze a bisbocciare.
Quando cadde il muro di Berlino e anche gli altri paesi dell’Europa orientale smisero in fretta i panni dell’utopia comunista, che avrebbe dovuto portar loro giustizia e felicità, quando le roccaforti del comunismo – come Russia e Cina – si abbandonarono nelle braccia del capitalismo consumatore e smisero con gioia i loro panni uniformi per abbracciare i miti di questo Occidente, a sua stessa detta, vuoto di ideali, tutti pensammo che l’utopia che aveva scaldato le menti di tanti, dagli anni Trenta agli anni Ottanta, fosse definitivamente tramontata. I più idealisti possono essersi rammaricati che sia miseramente crollata un’utopia, in fondo di gran livello, che voleva realizzare la giustizia sulla terra – laddove le religioni fino allora avevano proposto una giustizia rinviata all’al di là. Non so se ci si sia adeguatamente accorti di un fatto che abbiamo sotto gli occhi e che proprio per la consuetudine non avvertiamo.
“Il mondo contemporaneo è certamente il più inadatto dei mondi possibili per la poesia, perché è il mondo della chiacchiera, del frastuono, dello svilimento incalzante del senso” sosteneva negli anni Novanta Giancarlo Pontiggia, osservando il divario che si era creato tra i poeti, che molto spesso tendevano ad arroccarsi in piccole consorterie, e il pubblico nel senso più lato.
“Devo pensare a scrivere per sentirmi vivo, posto che la vita che faccio, tra tanta virtù che ho e che mi viene attribuita, e tanti affetti e doveri che mi legano e paralizzano, mi priva di ogni libertà. Io vivo con la stessa inerzia con cui si muore. E voglio scuotermi, destarmi. Scrivere sarà per me misura d’igiene”.
Viaggiare è strappare almeno un po’ le radici da un luogo – abitudini ripetitività conforto che una vita che si ripete fornisce – e lasciarsi scivolare sul mondo – leggo a pagina 39 dell’ultimo libro di Marina Torossi Tevini – Al mattino ti ritrovi in un altro ambiente, ripeti le tue abitudini con delle variazioni, fai la tua passeggiata, fai colazione, cerchi una nicchia per scrivere pensare. Ricorrono in questi venti racconti molti dei temi già affrontati dall’autrice nei precedenti lavori, i mali della società di oggi, i rapporti generazionali, i giovani, la scuola, i viaggi, la classicità intesa come sguardo di paragone.
E Vila e Slataper e cinque bottiglie – guarda là – di Terrano
nelle anse di un fiume
Come dice Alvin Toffler, autore di “Lo choch del futuro” (1970) e “La guerra disarmata” (1994), il potere mondiale è diviso in tre ampie sezioni: paesi agricoli, paesi dell’industria pesante e paesi dell’economia dell’informazione. Tra Oriente e Occidente ci sono anche delle aree “divergenti”, che non seguono le linee guida della società dei prosumer (produttori-consumatori allo stesso tempo) resi schiavi dal mercato.
non nuoterò nella tua solitudine
Mocassini bianchi. Nuovi. Comodissimi. Lo constato con soddisfazione sul ciottolato di Asolo. Per il resto un paesaggio quasi toscano, con cipressi e altri sempreverdi, frammisti a qualche vigna. Paesaggio collinare, con casali e castelletti. Gusto retró e odore di cose antiche. Densità umana.
Non so cosa darti/dirti
mi manca il tempo oscillante
e prima
La Campania è una regione bellissima, ma interessante è anche fare esperienza del carattere dei suoi abitanti che di solito sono confusionari e, se possono, cercano di imbrogliare; però, devo ammetterlo, lo fanno con un certo stile. Il traffico ha un che di tragicamente buffo: mentre le macchinine si rincorrono disordinatamente, rischiando a ogni curva dei frontali, ci sono anche quelli che trascinano tranquillamente cavalli o asini oppure portano in fatiscenti carrozze turisti d’oltralpe.
Sembra un quadro del Settecento Sorrento, con gli alberi abbarbicati al tufo, gli alberghi e le ville che sorgono sulla barriera massiccia di pietra che si leva dal mare. Ma le orde di turisti che si riversano dai pullman e prendono d’assalto motonavi e aliscafi per Capri ci rituffano nel presente. Anche noi saliamo e ci mettiamo a sedere di fronte a due inglesi che parlano fitto.
Non era molto convinto che fosse una grande idea, ma sua moglie insisteva. Ce l’avevano tutte le sue amiche, insomma, in un momento di intimità gli aveva strappato una promessa che ora si sentiva in dovere di mantenere.
ALESSANDRO: – Forse ci potremmo sposare, Manuela?
Luce grigia. Per mesi. Uno strano danzare di ombre sul Sognefjord. La notte d’inverno.
Chissà se poteva uscire dalla stanza. Si guardò intorno. Nel corridoio niente fili di bava. Le lumache non erano ancora passate. In fretta si vestì ed uscì dalla sua stanza. Ma subito, arrivato a metà corridoio, cominciò ad invischiarsi, a scivolare, a retrocedere. Anche là avevano chiuso il passaggio. Tornò sui suoi passi con rabbia.
Il giorno seguente prendono l’aereo per Ushuaia. La montagna sul mare. Ghiacciai, castori, foche e pinguini. Un mondo vastissimo. Incontaminato. Il pensiero della natura e della sua potenza domina la mente di Francesca. Tutti dovrebbero venire una volta o l’altra in Patagonia, pensa, tutti dovrebbero vedere almeno una volta nella vita i geyser dell’Irlanda o un vulcano in eruzione. Perderebbero un po’ della loro presunzione.
Al ritorno si prende l’aereo per Bahia Blanca e poi da lì si prosegue verso Sud. Il viaggio non è faticoso. I bus che percorrono le vaste distese della Patagonia sono comodi, quando si prenota il posto si può persino scegliere tra una cama o una semicama e stendersi a dormire durante i lunghi percorsi. Anche le strade un tempo sterrate sono in buono stato.
L’aereo atterra a Punta Arenas. Una lunga frenata che sembra non voler mai finire. Francesca guarda l’ora. Quasi in orario. Scende e raggiunge i compagni di lavoro. La base è situata in un albergo arroccato sul mare. Spalanca la finestra. Il vento soffia forte. Decide di scendere al mare. Una sciarpa attorno al collo. I corti capelli che si dividono in righe sottili sotto la sferza del vento. In faccia schizzi d’acqua gelata.
Quel pomeriggio Gabriella ritornò a casa in preda ad un’ incredibile tristezza. Assurda se vogliamo. In fondo non c’era nessuna ragione per essere triste. La sua migliore amica le aveva solamente confidato di essere rimasta incinta. Ed allora?
Anna guarda e riguarda la planimetria che l’agenzia immobiliare le ha dato e si perde a sognare i particolari. Quella casa, quella casa in campagna è la casa che ha sempre desiderato. Anche gli altri saranno entusiasti, ne è sicura. Arriva a casa trafelata e travolge la famiglia con una raffica di parole. Verde, fresco d’estate, profumo di campagna. Cosa ci può essere di meglio! Un giardino, un barbecue, un’altalena per Giulio e una cuccia per Pippo.
Schopenhauer in una delle sue migliori metafore scrisse: “Il porcospino, in inverno, ha freddo. Per riscaldarsi si avvicina ad altri porcospini, in modo che avvicinandosi ci si possa tenere caldi a vicenda. Ma nell’istante stesso in cui due o più porcospini si avvicinano, corrono il rischio di ferirsi a vicenda con i loro aculei; e la maggior parte delle volte così succede. Feriti, i porcospini si allontanano di nuovo, ma dopo poco il freddo li spinge di nuovo a riavvicinarsi per scaldarsi, pur rischiando di farsi male. Il porcospino odia il freddo…”
In un ristorantino di Vence Marguerite e Micael si sistemano a un tavolino d’angolo e si mettono a chiacchierare davanti a un’assiette di cruditées in attesa dell’agneau…
– Apra la bocca, aveva detto il dentista dopo aver sprecato non più di quattro secondi per un impersonale e asettico saluto.