Luce grigia. Per mesi. Uno strano danzare di ombre sul Sognefjord. La notte d’inverno.
E che altro, in quel poco di luce, se non cercare il caldo di qualche amico, il tepore di un luogo chiuso, l’illusione che la parola può creare? Che altro? Da quel luogo senza luce la natura è ostile e lontana. Meglio stringersi assieme, meglio scaldare le mani con qualcosa di forte, meglio scaldare la mente con insani pensieri.
Così andava Fioni al solito incontro cogli amici nella solita sera di fine inverno. E come al solito nel caldo sopore di quel luogo odoroso di muschio iniziava a narrare.
Si immergeva in racconti di quello che non avrebbe mai fatto. Ma erano sue le parole, più sue che il berretto. Creavano mondi. Agli amici piaceva ascoltare.
Questa è una delle sue storie. Raccontate senza fretta, in attesa che la vita ritorni a pulsare.
Ho sempre pensato che fosse una gran bella cosa, un figlio uguale a me, uguale, perché no?, io non mi dispiaccio, nella vita me la sono cavata anche bene. Un mio clone. A dir la verità, avrei voluto avere un figlio, ma un figlio è un po’ una sorpresa, un salto nel vuoto che non sempre si ha voglia di fare. E poi vivevo con mia madre, ero l’unico figlio e lei, poverina, aveva tanti malanni, dai sessanta ai novant’anni stette sempre male (però quasi centenaria andava ancora da sola in chiesa alla funzione…) insomma, arrivato all’età di cinquant’anni, non m’ero ancora sposato. A quell’età, ebbé non sono più i vent’anni pieni di pruriti, ci si pensa su mille volte, in tutte le donne si trovano molti difettucci. Così non mi decidevo mai . Sul mercato poi non c’era granchè. Poca roba.
Allora mi raccontarono di Tommy, il figlio di Samper. Era un clone, tale e quale il padre. Perfetto.
Caspita! Anch’io mi prenotai nella clinica di Oslo, mi chiamarono, mi clonarono e mi diedero il mio duplicato. Ero felice come un padre e una madre assieme. Lì nella mia casa sul fiordo, finalmente avrei avuto la voce di un bimbo a farmi compagnia. Avrei avuto qualcuno. Nel tempo, con il tempo che travolge ogni cosa, non mi sarei spento del tutto. In lui sarei rivissuto.
Norsco, così lo chiamai, era allegro come un uccello, giocava ed era felice, era un cucciolo,il mio cucciolo stupendo. Mi illusi per anni di aver trovato la più grande delle gioie che agli esseri umani è concessa.
Poi iniziarono i guai. Norsco voleva andare in giro. Era giusto, mi dicevo, io ero troppo vecchio per lui.
Aveva conosciuto nuovi amici e voleva nei fine settimana andare a Leikanger. A Leikanger, come sapete, ci saranno sì e no venti case, ma per Norsco era una metropoli vera, si sentiva eccitato, stravedeva per i suoi nuovi amici, per i loro fantastici giochi. Ogni volta ritornava a casa diverso.
Diverso da com’era stato fino allora. Ma diverso soprattutto da com’ero stato io alla sua età . Mille miglia lontano da quel bambino che correva sul fiordo, si buttava nell’erba, guardava le stelle del cielo e si beava di luce. Era il mio clone, eppure non mi somigliava affatto.
Si dava da fare per cercare di somigliarmi sempre di meno anche nell’aspetto. Si era dipinto sui capelli una cresta, si era tatuato e aveva completato il tutto con qualche abile mossa di piercing. Orecchi, naso e lingua. Una cosa che aborrivo.
Aveva 15 anni e si sentiva già un uomo. Non vedeva l’ora di andarsene .
Anch’io, lo confesso, quando avevo la sua età l’avrei voluto. Correvo fuori di casa e mi beavo di tutte le novità che riuscivo a sapere. Poi ritornavo, risentivo i discorsi, i soliti vecchi triti discorsi, e avevo voglia di scappare di nuovo.
Ma non potevo andare lontano. I vecchi, erano tanti i vecchi a casa nostra allora, mi guardavano con occhio severo .
Adesso il tempo è passato. La nostra famiglia si è ridotta a ben poco e io mi ritrovo da solo. Che fare con questo figlio uguale eppur diverso da me, che vuol percorrere la sua strada, che vuole fare le esperienze e gli errori che io quando avevo la sua età non ho potuto fare?
Mentre continuavo a pensare, Norsco aveva già deciso.
Una notte di settembre prese tutto quello che avevo. Scappò via e non diede notizie.
Ho saputo da un amico che vive a New York, che è diventato qualcuno. Suona in una band famosa. Non mi ha mai mandato neppure una lettera. Non mi ha mai cercato.
Ho pensato. Lo vado a trovare. Lo cerco . È pur sempre mio figlio.
L’indirizzo l’ho scoperto facilmente. Ma poi, quando ho incontrato i suoi amici, e ho sentito parlare di lui e ho capito com’era la sua vita, ho pensato che non sarei stato capace di parlargli davvero. Eravamo troppo diversi. Mi bruciava ancora il suo furto. Il suo sparire senza dirmi nulla. Il suo tradimento.
Per ore girai intorno alla casa, senza decidermi. Prendere l’aereo e scappare? Ritornarmene a casa sconfitto? Oppure farmi vivo, farmi prendere in giro? O buttargli le braccia al collo, supplicarlo di darmi quel poco di bene che poteva? Per me sarebbe stato abbastanza.
Non ho fatto niente di tutto questo.
Ho solo percorso le scale. Poi, ho lasciato un messaggio sulla porta.
«Vivi, se puoi, felice la tua vita – gli ho scritto – Sii te stesso. E non pensare a me. Quel che potevo ti ho dato. Quello che non dovevi, te lo sei preso da solo. La vita è tua. Vedi di farne un buon uso».
m.t.t da Il migliore dei mondi impossibili