Il cane con le ruotine

cieloMocassini bianchi. Nuovi. Comodissimi. Lo constato con soddisfazione sul ciottolato di Asolo. Per il resto un paesaggio quasi toscano, con cipressi e altri sempreverdi, frammisti a qualche vigna. Paesaggio collinare, con casali e castelletti. Gusto retró e odore di cose antiche. Densità umana.
La sera ci accoglie in un albergo, sperduto in una valle che sale da Marostica. Buona cucina, stanza con mobilia d’epoca e rose sul tavolino. La tv, che non manca mai nelle camere d’albergo, ci racconta un po’ di orrori mentre ci vestiamo per la cena. Tutto all’insegna del sovratono e dello scoop. “Viviamo in un’epoca mirabile sotto molti aspetti ma di enorme incontrastata menzogna, di irresistibile alterazione e cancellazione della verità, – scrive giustamente Claudio Magris. – E questo accade in moltissimi settori, dai più banali ai più importanti, tanto che oggi diventa sempre più difficile capire “la consistenza reale – posto che tale aggettivo abbia ancora un senso – di qualsiasi fenomeno”.
Infilo le scarpe e intanto penso alla nostra presunzione di sapere. Bombardati di notizie il senso globale ci sfugge, ci sfuggono le proporzioni e la prospettiva. Nel complesso sappiamo ben poco. E non sono certo conoscenze che aggiungono qualche tassello alla nostra saggezza. In compenso la nostra emotività è sollecitata. Si fa leva proprio su quello. Che ci sia nell’uomo un sotterraneo inconfessato piacere per un’emozione che a rischio zero apporta un po’ di eccitazione nella sua grigia vita?

Al mattino facciamo una breve passeggiata nella piazza davanti al castello, e poi via verso Vicenza. Tra stupori palladiani rivediamo il Teatro. Passiamo nella Pinacoteca con strani mappamondi della fine Cinquecento. Dirottiamo in un sottoportico e ci fermiamo incuriositi a osservare una mostra di biciclette.
Camminiamo. Facciate con troppe statue… negozi… il Palazzo Ducale. Guardo. Mi allontano un po’, seguendo i miei pensieri (e qualche vetrina). Poi il solito fischio mi fa frenare. Io che passo per disubbidiente (credo di aver sempre fatto con molto gusto il contrario di quanto mi si diceva di fare), eppure… se mio marito, lontano trecento metri, fischia… inchiodo. Non so perché mi succeda. Anni fa nella via centrale di Brunico, gremita di folla, mio marito camminava assieme a mio cognato… io ero andata avanti e mi ero allontanata… Il solito fischio… e mi fermo sui due piedi. Mio cognato si stupì molto del fatto. Eppure non ho lo spirito della schiava. Anzi. Chissà perché lo faccio? Alle volte mi arrabbio (oggi no, sono di buon umore) e gli dico: “Ma ti pare il modo di chiamarmi? Guarda che un giorno ti svegli e non mi trovi più nel letto”. Da New York una mia amica mi telefona e mi dice: “Quando lo lasci? Così ce ne andiamo a fare un viaggetto assieme”. Detesta mio marito, e lui contraccambia cordialmente. In realtà non ho affatto voglia di fare un viaggio con un’amica noiosa che mi frastornerebbe le orecchie di parole. Di mio marito apprezzo il silenzio e l’efficienza nell’organizzare. Mi solleva da molti pensieri. In fondo, a me piace andarmene in giro lasciandomi trascinare come una festuca. Assaporo gli odori… guardo le nuvole… mi perdo nei particolari. Ad avere in mente viaggio/ tempi/ tappe mi piace che siano gli altri. Eppure, davanti a questi anni di mia inefficienza, mi chiedo se, forse, non sarebbe meglio che, una buona volta, mi decidessi ad andare da sola in giro. Glielo dico. Dico che mi piacerebbe fare un viaggio da sola. Magari in India. Mio marito non si scompone, al solito non si turba. Probabilmente pensa che non lo farò mai. Poche volte ha realizzato le mie parole come una minaccia. (Ma quelle poche volte è quasi impazzito). Continuo a scivolare tra i miei pensieri e ben presto ho già guadagnato una certa distanza, tra palladiane statue, vetrine e pensieri. Veleggio. Accetto questa libertà relativa. Una volta un amico mi ha chiesto che cos’era per me mio marito. Gli ho risposto: la solitudine attrezzata (ok, ho sempre avuto una discreta propensione per le risposte ad effetto).
Altro fischio. Altra sosta. “Come corri, oggi!” esclama lui. Guardo i paperotti in un’ansa di una sottospecie di corso d’acqua e penso: Perché mi sono fermata? Forse mi piace dargli l’illusione di un potere che non ha… “Il cane con le ruotine”, come mi definisco qualche volta… e scherzo, e dico che oggi me le ha lubrificate troppo, le ruote.
Riprendiamo a camminare. Eh sì, – riprendo le mie meditazioni – ogni coppia in qualche modo crea al suo interno degli equilibri(alle volte perversi)… Noi siamo in una dimensione abbastanza soft. È solo che non si sa mai chi sottrae la libertà e chi è la vittima. È un gioco di equilibri. La verità si vede solo quando gli equilibri si rompono. Ma a quel punto non serve neanche sapere.

Continuo a passeggiare. Cammino in una nebbia che mi sloga i contorni delle cose. In mezzo a una folla di umani, tra banche e un tentativo tardivo di shoppinginsaldo che mi frutta però, a sorpresa, una maglietta in cachemire non male. Felicità: che fare? recita un similibro da una vetrina e, più in là, un sociotuttologo da una copertina elargisce sorrisi e consigli ben pagati. Felici?! Siamo felici? Che dire? L’idea che possiamo morire e non aver realizzato quello che avevamo in mente può renderci molto infelici. L’idea che anche oggi è un giorno che ci è dato, e dipende da noi dargli dimensione e sostanza può renderci molto felici. Ma è un fatto nostro. Privato. Le lezioni di felicità mi suonano stonate. Mi sono sempre suonate male.
Affondiamo nella nebbia. Sono felice? Ricordo che una volta a una festa ci infilammo un anello che avrebbe dovuto svelare il nostro stato d’animo segreto. A me risultò uno splendidosplendente valore massimo. Felicissima, diceva l’anello. Mah. Nell’insieme credo poco alla felicità. Se dovessi elencare i miei desideri non ci metterei certo la felicità. Forse sbaglio. Forse le scelte razionali che ho sempre fatto sono un errore. Forse farei meglio a comperare quello stupido libroricetta o Riza psicosomatica che propone in prima pagina ricette naturali per un pacchetto felicità all included. Ma io sono indisciplinata e, come non credevo alle favole, non credo neppure a quello che mi raccontano adesso. Non è facile ammaestrarmi. Appartengo alla stirpe dei gatti…

Andiamo alla Rotonda, una delle tante ville palladiane nei dintorni di Vicenza.
Bel paesaggio, il solito mix di cipressi e altri sempreverdi. Mentre guardiamo mi viene in mente, non so perché, il campeggio di Amburgo. Ce ne stavamo, dopo aver visitato la città, sdraiati sulle brandine. Era una calda notte estiva. Fine luglio, credo. Io guardavo il cielo e i cipressi sopra le nostre teste. Amburgo m’era piaciuta, ma mi aveva messo anche un po’ di paura. I porti mi inquietano sempre. Marsiglia ne è l’esempio estremo. Ho tentato di andarci tre volte e, arrivata a una decina di chilometri, respiravo una tale violenza che ho dovuto rinunciare (non mi sorprende che Izzo vi abbia ambientato le sue storie di struggente e allampanata violenza). Dunque… ce ne stavamo sdraiati in quell’orrendo campeggio di città. Sopra le nostre teste file di cipressi. “Secondo me…”, disse mio marito. Io lo guardai interrogativa. Lui proseguì: “È chiaro. Questo doveva essere stato il precedente cimitero. Poi l’hanno spostato dall’altra parte della strada. L’abbiamo visto passando…” “ Non potevi star zitto e dirmelo domani mattina?”(Che sciagura! Tutta la notte ho dormito in mezzo ai fantasmini…)

Ultima tappa. Si va alla fiera. Una piccola concessione alla banalità del nostro mondo. In realtà non mi interessa affatto la Fiera del tempo libero ( già il concetto in sé è per me repulsivo; sono contraria sia al lavoro che al tempo libero, sono per l’otium costruttivo, per fare, fino allo sfinimento, il lavoro che piace…) Ma mio marito insiste… e roulotte, attrezzatura da campeggio e automobili sono nella sua mente – e nei miei piedi – (a quel punto esausti). In catalessi mi perdo in mezzo a una iperfolla che mi travolge. Perché tutti si affannano tanto pensando a cosa fare nel tempo libero? È un problema sociale questo…

m.t.t. da Viaggi a due nell’Europa di questi anni