In Patagonia (2)

retiAl ritorno si prende l’aereo per Bahia Blanca e poi da lì si prosegue verso Sud. Il viaggio non è faticoso. I bus che percorrono le vaste distese della Patagonia sono comodi, quando si prenota il posto si può persino scegliere tra una cama o una semicama e stendersi a dormire durante i lunghi percorsi. Anche le strade un tempo sterrate sono in buono stato. In compenso però devono attrezzare due campi base, dormire quasi sempre in tende e mangiare servendosi di una cucina da campo.
Il pensiero di sopperire in qualche modo alle necessità più elementari distrae Francesca per qualche giorno. Solo il pensierononpensiero, la sensazione della presenza di Giulio l’accompagna. Le sembra di averlo vicino, gli parla.
Al ritorno sulla costa scrive:
da Francescates@libero.it a giulio.alteg@inwind.it
ore: 21.15
Caro Giulio,
è il 28 novembre, ti scrivo e qui è primavera. Una primavera feroce, di arbusti fioriti e di vento. Bianche rocce ricamano assurdi orizzonti. C’è odore di terra bagnata e di piante. Siamo arrivati al campo base dopo due giorni di viaggio. Strade lunghissime, deserti vulcanici, e pecore, sempre. Anche condor, anche puma talvolta. Non ti ho scritto e non solo perché frastornata dalle strane stagioni, dalla strada e dal vento. Non ti ho scritto, ma mai come in questi giorni ti ho sentito vicino. Ti ho raccontato senza parlare ogni cosa. (Francesca rilegge l’ultima frase, poi la cancella). Devo ancora spiegarti perché la penultima sera è finita come sai. Ci giravamo attorno da tempo. Era tempo, anch’io cominciavo a pensarlo. Ma poi. Non è detto che fossi convinta del tutto. All’ultimo momento ho avuto paura. È difficile dire di che cosa abbia avuto paura. Banale sarebbe dire che non volevo diventare una delle tue tante avventure, non volevo essere quel che è stata Monica per te: tanto e nulla. Banale è anche dire che pensavo ad Antonio. Non è questo. O forse anche questo, ma non questo soltanto. Qui, da questo luogo non luogo, ai confini del mondo, dove la notte guardi su e le stelle sono diverse, e non trovi più le solite rotte nel cielo, qui dove il mondo s’è come per magia rovesciato, qui forse ti potrei raccontare perché quella notte non ti ho voluto. Ma dovresti ascoltarmi in silenzio. E guardarmi negli occhi. E credere a quello che dico.
Intanto non avrei voluto una notte, ma undici notti. Non è facile. Ma se chiedi, può succedere che il prodigio si avveri. La prima notte avrei voluto soltanto carezze. Tutto il corpo carezzato e percorso. Fiato a fiato scoprire il sapore della pelle, il sapore di noi. La seconda notte ti avrei coccolato sul mio seno. Mi avresti raccontato segreti. La terza notte avrei voluto carezze più audaci e baci infiniti. La quarta notte avremmo giocato ai bambini che esplorano un corpo straniero. La quinta notte avrei guardato nel fondo dei tuoi occhi per scoprire tutti i tuoi desideri. La sesta notte avrei voluto che con forza mi chiedessi di farti fare l’amore. La settima notte avremmo fatto l’amore senza darci però tutto il corpo. L’ottava notte avremmo ballato fino all’alba e guardato le stelle. La nona notte avremmo dormito vicino abbracciati. La decima notte col pensiero ti avrei dato ogni luogo della mente e del corpo. E infine sarebbe arrivata l’undicesima notte. La notte in cui avremmo fatto l’amore. Tutta la notte senza residui e difese. Ci avrei speso la mente e il corpo.
Francesca rilegge. Si trova banale. Si sente indifesa. E poi non è il suo tono. Non si riconosce. Anche Giulio sarebbe rimasto stupito. Era meglio tagliare. Sostituire.
Riprende a scrivere: Bahia Blanca è l’ultima città prima del deserto della Patagonia. Darwin poteva definirla un grosso villaggio ma adesso è una città importante, un polo petrolchimico, una città militare, base per la flotta argentina. Non è una bella città. Il campanile è strangolato da un grattacielo, le strade sono diritte e tutto sembra sempre uguale. Ma appena esci verso il deserto e ti avventuri nell’entroterra, il paesaggio cambia. Ho guardato a ritroso il corso del fiume che trasportava le acque delle Ande innevate. Poi l’Oceano, e ancora il fiume, e dietro a quello, il deserto. Nessun suono, tranne quello eterno, fastidioso del vento. Un vento che ti scortica la pelle, un vento da sensi impazziti. Ho pensato che odiavo quel vento. Ho pensato: questo è un luogo che strega. Sono scesa veloce, quasi correndo, poi ho preso una jeep. Strade assurde, quasi miraggi, e sempre, nel vento, la sensazione di sentire rumori. Una volta era il verso del guanaco, quasi un pianto di bimbo, l’ho visto, uno strano animale, la pelliccia arancione, la coda bianca ritta all’insù. Poi ho visto gli uccelli più brutti del mondo, gli ouraka, i tero-tero, i pivieri bianchi. Qui tutto sembra irreale. Ma forse è solo diverso. In albergo ho bevuto matè in un recipiente a forma di pinguino. Di pessimo gusto. Adesso ti lascio. Devo ancora finire parecchio lavoro.
Francesca

(continua)

m.t.t. da L’amore secondo Francesca