A vederlo di notte o in un giorno di bora viene da scambiarlo per un signore che attraversa il ponte del Canal grande. E invece è una delle statue a grandezza naturale che campeggiano a Trieste, opera dello scultore Nino Spagnoli: Joyce col un libro sotto braccio, la giacchetta leggera e un papillon, e in faccia l’aria di andarsene in una delle sue osmizze a bisbocciare. Anni dell’Ulisse e di Trieste “una città mediocre, impura e struggente come la vita…” come scrive Claudio Magris in Microcosmi. “Trieste è un anacronismo e un nebeneinander, una spiaggia affastellata di detriti della Storia, in cui tutto e il contrario di tutto coesistono a contatto di gomito, irredentismo e fedeltà absburgica, patriottismo italiano e cognomi tedeschi e slavi, Apollo e Mercurio. In quel cul de sac dell’Adriatico la Storia è un gomitolo in cui i fili si aggrovigliano. Questa contiguità di gretto e di sublime è l’ibrido della vita che rode il fegato ma anche scalda il cuore, e Joyce diventa poeta di questa calda vita… ”
Per Hermann Bahr Trieste è un “nessun luogo”, un posto in cui sembra di muoversi nell’irrealtà.
Fa freddo stasera e faccio fatica a raggiungere la statua che campeggia in Piazza Hortis, la statua dell’amico di Joyce, Ettore Schmitz, Svevo appunto. La si vede da lontano. Sembra attraversare la strada che, lastricata a cubetti, porta dal giardino alla Biblioteca civica e a un piccolo museo sveviano. In Svevo sono presenti due anime in conflitto: l’artista che vorrebbe perseguire l’arte (e solo l’arte) in modo disordinato e senza tener conto dei limiti che la rigida realtà sociale gli impone e l’uomo, un borghese inserito a tutti gli effetti nella società del tempo, che, come egli stesso afferma, “ha troppa virtù e troppa gli viene attribuita” tanto che si ritrova “legato da affetti e vincoli” che gli consentono una banda molto ristretta di oscillazione. La statua però sembra leggera. Svagata.
Covacich nel suo libro Trieste sottosopra sottolinea la “gaiezza” dei triestini, la loro particolarissima gioia di vivere. “L’edonismo qui è qualcosa di molto più interiore e sentito, non è l’effetto di una moda postmoderna”. È una gioia di vivere particolare. Trieste è per qualche aspetto una città meridionale, “la città più meridionale dell’Europa del Nord”. Il mare è facilmente accessibile, la gente lo frequenta durante tutto l’anno, lo considera un angolo di casa, un fatto privato con cui convivere. Trieste è il qui e adesso.
È sera, via Diaz, a ridosso delle rive, cammino in una nebbia insolita, vado verso il Revoltella, la luce lattea che sale dal mare rende i contorni delle case irreali. E allora decido di salire verso via san Michele e poi via Cereria e via Tigor. I luoghi della mia infanzia. Il giardino san Michele, luogo di pattinaggio di corse e di ginocchia sbucciate. Via Tigor, il collegio delle suore di Sion dove ho trascorso i primi otto anni di scuola, via Madonnina dove da ragazzini ci nascondevamo per fumare. Via Locchi e sant’Andrea. Boschetti e ombre.
L’inizio di Senilità è proprio a Sant’Andrea. È lì che Emilio incontra Angiolina. “Nella mia vita non potrai mai essere più importante di un giocattolo” le dice. Geniale inizio. La vita si incarica di beffare chi si pone questo proposito. E così accade. Ho sempre amato l’ironia di Svevo, la sua capacità di entrare nell’animo umano e di narrare quello che di scorretto tutti pensiamo. Dirlo è già un atto di coraggio.
A Trieste non mancano i caffè e l’arte del perdigiorno è di casa. Bel tempo e si va a Barcola, brutto e ci si imbuca da qualche parte. C’è un caffè a piano che mi piace molto. Quasi silenzio ma si sente il ticchettio dei piatti e delle tazzine. Sottofondo che fa da colonna sonora per parlare. A ruota libera. L’arte del perdigiorno regala ebbrezze metropolitane, fa sbucare in vicoli insospettati, regala scorci e immagini inedite, dona qualche attimo di consapevolezza.
Trieste mille e un volto. Sempre imprevedibile. Meglio non dimenticare mai pull e mantello. In via Dante Saba procede spedito con un pastrano che la bora gli solleva e in bocca la pipa, una nuova dato che la precedente gli è stata sottratta da qualcuno non so se in omaggio a una sorta di rabbia moralizzatrice o per prendersi un improprio souvenir. Saba è l’unico che indossa un cappotto mentre Svevo e Joyce trotterellano con la sola giacchetta, entrambi con un libro sottobraccio. Con Svevo (e a maggior ragione per certi aspetti con Joyce) inizia davvero una nuova era. Nei loro romanzi predominano i paesaggi interiori. Nei romanzi di Svevo appare Trieste con le sue vie e piazze, ma la loro presenza è appena accennata: il Tergesteo la Borsa via Cavana il Giardino pubblico il cimitero… Manca il Carso descritto da Slataper, quell’altopiano asciutto in superficie e percorso da mille fiumi sotterranei, manca Duino col suo castello amato da Rilke, manca Miramare col parco e il castello di Massimiliano, manca san Giusto e il suo castello. Curioso, mancano tutti i castelli. Ma, si sa, anche metaforicamente parlando, l’opera di Svevo è priva di fortificazioni.
E invece, curiosamente, Trieste è una città di fortificazioni, timorosa del presente e protesa verso il passato, aperta sul mare ma circondata alle spalle dai suoi colli, porta verso l’est ma con i occhi rivolti altrove. La Mori ha scritto “è una città a due passi dalla tragedia e sempre un po’ a mezz’aria”, dove “la gente passeggia piano, calma, e sembra lontana, persino indifferente rispetto alle tragedie globali”.
Solo da lontano la vedi. Dall’alto. È l’approccio migliore. Si scende da Basovizza e si vedono i colli, il loro morbido digradare verso il mare, si scorge la costa che si allarga verso i promontori e le penisole dell’Istria e le strade costiere verso Grado, verso la Cona. Scoglio roccia boschi agglomerati urbani, tutto in un arco ristretto di spazio. Tutto a portata di mano. Troppo forse. Per non essere un po’ viziati.
Trieste amata da chi è andato lontano, Trieste che rode chi vi abita per l’indifferenza che la contraddistingue, indifferenza propria di chi ha tutto a portata di mano. A due passi il mare la collina e la montagna, una microdolomite in val Rosandra, stabilimenti balneari a pochi minuti dal centro. E le sue chiese: un panorama di multietnie unico. E poi la splendida piazza Unità, con i palazzi della Prefettura e del Comune che vi si affacciano sul mare. E il suoi caffè mitteleuropei dove i triestini chiacchierano. Trieste è una città di parole.
Ma Trieste è anche una città della scienza e una nuova multietnicità si fa strada, e sono gli indiani e gli africani nei loro abiti sgargianti, scienziati della Sissa, studiosi di chiara fama talvolta a portare le maggiori novità. A Trieste il mondo sta provando i suoi nuovi cocktail. L’Oriente penetra dai camion che le navi vomitano sui nostri moli ma anche dalla presenza di gruppi di punta che portano nel nostro Occidente in bianco e nero un po’ di colorata vitalità. Il mondo sta cambiando a velocità stellare. Le trasformazioni degli ultimi decenni, nel bene e nel male, non hanno pari nella storia.
Da questa nicchia rivolta a Oriente sarebbe bene non dimenticarlo.
m.t.t.