Riguardo a Montale si è detto di tutto e di più. Si sono susseguiti congressi, tavole rotonde, mostre. Sono stati scoperti risvolti inediti, sono state ridette idee scontate. Ci si è spinti un po’ a lato della grande produzione poetica, allungando gli occhi anche sulle prose di “Farfalla di Dinard” e sull’enorme mole della sua pubblicistica. Aggiungere qualche cosa a tutto ciò sarebbe presuntuoso. Eppure mi è rimasta una piccola insoddisfazione, l’idea che le proporzioni talvolta non vengono rispettate. Quando si parla di rapporti tra la grande poesia italiana del Novecento e il mondo classico il nostro pensiero corre subito a Quasimodo, ai suoi miti di “Acque e terre”, alle sue traduzioni dei lirici greci. Nulla di analogo per Montale. Eppure mi sembra che Montale paradossalmente sia più vicino al mondo classico – a livello di pensiero e di filosofia di vita – rispetto a Quasimodo.
“Bene non seppi tranne che il prodigio/che schiude la divina indifferenza” sono versi tratti da “Spesso il male è di vivere” che tutti ben conosciamo. Ci si sofferma poco, forse, a considerare la forza, la perentorietà di quel “bene non seppi”. Nessun altro bene è concesso all’uomo tranne il miracolo che consente lo sbocciare della “divina indifferenza”, della capacità cioè di guardare le cose dal di fuori, con l’impassibilità di una statua, di una nuvola o di un falco. Prodigio quindi, dono divino, che talvolta gli uomini hanno di vivere in mezzo al male e di non esserne coinvolti, riuscendo ad osservare la vita con aristocratico distacco. L’influsso dello stoicismo, dell’atarassia di matrice storica, dell’indifferenza percepita come un acre bene, l’unico che l’uomo si può prefiggere di raggiungere, mi sembra chiarissimo.
Montale ama sostenere verità sgradite, ama concepire la poesia come il tramite per sollevare il velo delle cose e scoprire la loro essenza. Molte apparenze si annullano, molte realtà si dimostrano fasulle. Rimane poco, ma ciò che rimane dà serenità a chi lo sa scoprire.
Perché in fondo la poesia di Montale è una poesia rasserenante, com’era rasserenante anche la filosofia degli antichi e quel vuoto che sembra additarci in realtà può essere riempito da mille cose: un angelo nero, il porcospino a cui piace la pasta al ragù, qualche sorriso, il ricordo della moglie morta. Mai compare la disperazione, mai l’urlo sconsolato. Non esiste in Montale come d’altronde neppure negli antichi filosofi greci, la disperazione, lo sconforto. Quella chiave trovata per comprendere la realtà dà un piacere intellettuale che consola comunque.
Montale sorride, sopra il grande caos della vita, e, dopo aver descritto in mille modi attraverso i suoni fortemente dissonanti di “Ossi di seppia” l’asprezza dell’esistere e il nostro non poter attingere il bene se non a livello di ipotesi, di tensione verso, conclude con la leggerezza dei paradossi di “Satura”, dove ogni cosa non è che un piccolo frammento, un momento di una grande giostra insensata.
In un mondo come il nostro di grande demagogia, di finto equalitarismo, Montale ha il coraggio di dire che è compito del poeta vedere oltre. L’uomo preferisce illudersi, preferisce credere che la storia abbia un senso, che il domani sia migliore. A queste false speranze risponde Montale con le parole de “Il raschino”: “Credi che il pessimismo/sia davvero esistito? Se mi guardo/d’attorno non ne è traccia/Dentro di noi, poi, non una voce/che si lagni. Se piango è un controcanto/per arricchire il grande/paese di cuccagna ch’ è il domani./Abbiamo ben grattato col raschino/ogni eruzione del pensiero. Ora/tutti i colori esaltano la nostra tavolozza,/escluso il nero.”
m.t.t