Archivi autore: Marina Torossi Tevini

Informazioni su Marina Torossi Tevini

scrittrice e pubblicista

Da: Socrate e le donne

(pp. 9-11)

Parte prima
Meno Uno

Alessandro: – Perché quando ci avviciniamo troppo, poi scappi?
Alice: – Perché ho paura di perderti.
Alessandro: – Non capisco la tua logica.
Alice: – Non è questione di logica. Non riesco a non agire così.
Alessandro: – Io sono meno complicato, Alice.
Alice: – Semplificato come tutti i maschietti.
Alessandro: – Non riusciamo a capirci, ho la sensazione che ti perderò di nuovo.
Alice: – Non è detto. Dipende da te.
Alessandro: – Che cosa dovrei fare?
Alice: – Se te lo dicessi non avrebbe valore. Sei tu che devi capire.

Hai detto: – Dobbiamo fare qualcosa. – Ma che cosa? Potremmo raccogliere fiori blu o camminare in un deserto, succhiarci il cuore o inumidirci le dita, costruire un cielo o sprofondare nella poltrona. – Dobbiamo fare qualcosa. – Ma che cosa? Potremmo invertire il corso delle stelle o ripetere una parte scontata, potremmo cavalcare le nuvole o ammuffire in un giorno di sole, potremmo ascoltare i grilli o sprofondare in una squallida dissonanza. – Dobbiamo fare qualcosa. – Qualcosa. Ma vorrei che gli occhi fossero di cristallo, che la pelle si lasciasse penetrare, che il mento ti tremasse un po’. – Dobbiamo fare qualcosa. – Proporrei di inventare la notte, di far tramontare il sole a mezzogiorno, di non sciacquarci la bocca con false promesse, di avvicinarci di sbieco e di scalarci fino in fondo, di raccogliere alghe e distillare succhi dal bosco, di frullare le stelle e di metterle nel freezer per l’inverno. Ascolta, le zagare profumano di più in un giorno di pioggia.

Uno

Mentre Alice passeggiava dalle parti dell’Acropoli, le si avvicinò un cane. Era fulvo, con due grandi orecchie e una coda arcuata che continuava ad agitare festosamente. Lei gli regalò qualche carezza sul muso affusolato e pensò che, se avesse voluto prendere un cane, quello sarebbe stato il suo cane. L’animale prese a camminarle a fianco. Il suo muso giallino le faceva strada per la via che saliva dal Dipilon al Partenone. Assieme passarono per l’Odos Apostolou Pavlou, tra la Pnice e l’Areopago, e poi ancora zigzagando ritornarono verso il teatro di Dioniso nel lato meridionale dell’Acropoli.
Non erano ancora le nove, ma faceva già caldo. Il cane si fermò per una sosta all’ombra e Alice sedette su un muretto. – Ti piace quest’Atene piena di traffico e di turisti, quest’Atene di souvenir e di copie, di cartoline e di falsi? gli domandò. Era chiaro che la conversazione non avrebbe dato molti frutti. L’animale si allontanò e mentre lei lo seguiva con lo sguardo si diresse verso i resti di un tempietto della zona dell’Agorà. Ben presto ricomparve in compagnia di altri due. Alice tirò un sospiro di sollievo. Temeva di averlo perso. Ripresero a vagabondare tra l’Agorà e il teatro. In fondo si ergeva l’Acropoli. La massa di pietra contornata dal verde sorgeva netta come un grosso molare e il tempietto di Athena Nike si delineava nitido. Il suo cane stava in mezzo agli altri due. Quando riprese la strada tutti tre la seguirono. Alice pensò che avevano fame. Entrò da un macellaio e comprò una buona razione di carne per tutti. Poi ritornò verso la casa di Irakis.

(omissis)

(pp. 24 – 27)

Sei

Il cane Sirmio (così l’aveva battezzato) la accompagnava ogni mattina mentre gironzolava per il Ceramicos, il quartiere dove abili artigiani un tempo creavano vasi e anfore in stile geometrico, splendidi con le loro figure nere e rosse. Passando lungo le vestigia delle grandi mura fatte costruire da Temistocle aveva osservato che nella zona archeologica c’era una vera e propria colonia di cani e s’era presa l’impegno di rifocillarli ogni mattina. Poi proseguiva col suo. Si fermavano a rinfrescarsi sotto un albero e Alice si metteva a leggergli qualcosa. – Senti che cosa racconta Platone!i gli diceva e apriva il mio librino. – Ogni azione non è di per sé né bella né brutta, dipende dal modo in cui viene compiuta, dallo scopo che ci si prefigge. Lo stesso vale per l’amore: non ogni amore è bello, ma solo quello che ci spinge ad amare in modo bello. Il cane guardava il suo piede e seguiva le ombre sul selciato. Alice continuava a leggereii: – L’amore che si accompagna ad Afrodite volgare è volgare e agisce come capita. Questo è l’eros proprio degli uomini che valgono poco. Innanzi tutto questi amano donne non meno che giovanetti. E poi amano i corpi più che le loro anime. E per giunta amano le persone che sono prive più possibile di intelligenza, mirando solamente a fare ciò di cui hanno voglia e non preoccupandosi affatto se agiscono in modo bello o no. Perciò avviene che agiscano come capita senza discriminare il bene dal male.
Alice carezzò il muso spennacchiato che la guardava e continuò a parlare: – Per l’uomo greco il concetto di bello si unisce a quello di bene: è il caloncagazon, il bello e buono. Il concetto di bello non ha un valore solo estetico, ma anche etico. Nella nostra società manca questo concetto. Anzi, potremmo paradossalmente affermare che va di moda compiacersi del brutto e del cattivo.
Gli aveva parlato con molta convinzione e il cane si alzò sulle zampe posteriori. Alice sorrise e gli passò una mano sul dorso: – Vedi, Sirmio, quando si scrive una storia ambientata nel mondo classico, la difficoltà maggiore è costituita dalla diversa mentalità. Per i greci l’amore con la A maiuscola è quello tra maschi. Il maschio è considerato più intelligente, più coraggioso, depositario di tutte le virtù spirituali; la donna invece è mera materialità. Quindi l’amore verso la donna è considerato di natura inferiore. I migliori amanti sono quelli che amano i maschi, amando per natura ciò che è più forte e più intelligente, dice Platoneiii.
Il cane non aveva una particolare opinione sull’argomento, ma forse s’era fatto per caso qualche maschietto. Scodinzolò a sproposito. – Noi avremmo qualche riserva da fare, – proseguì Alice, – ma, a parte il deciso maschilismo, da maschietti che hanno il potere e se lo godono, ho sempre pensato che il mondo greco avesse una visione giusta dell’amore. L’amore come piacere, l’amore come conoscenza. Poi sono venuti tempi peggiori; tempi in cui l’amore è stato considerato un dovere, oppure uno sport da praticare. Platone dicevaiv: I migliori non si innamorano di ragazzi se non quando cominciano ad avere intelligenza e questo si accompagna al momento in cui cominciano a mettere la barba. Si chiese a quanti anni crescesse la barba. Verso i quindici anni, più o meno. Certo per noi un quindicenne sarebbe considerato minorenne, quindi non un soggetto erotico. Noi condanneremmo ampiamente un rapporto di questo tipo. Era interessante però considerare che i greci si preoccupavano che il ragazzo “cominciasse ad avere intelligenza”: nel mondo antico dunque l’accento era posto anche sulla dimensione spirituale, un rapporto era valido se si realizzava tra persone pensanti, e veniva concepito persino come un rapporto di educazione, cosa che a noi potrebbe sembrare decisamente strano. Riprese a leggerev: Quando l’amante e il ragazzo amato mirano alla stessa cosa, il primo a servire il giovane che gli ha corrisposto l’amore e l’altro a prestare assistenza a chi lo rende sapiente e buono… Il cane le sbadigliò in faccia. Alice concluse carezzandolo: – Lontanissimo dal nostro modo di pensare, non trovi, Sirmio? Mescolare sesso e sapienza, educazione e sessualità. L’idea che i ragazzi nell’età della pubertà abbiano un amico più vecchio che funga non solo da educatore, ma anche da amante oggi ci lascia perplessi, ma a quel tempo era così… Il cane mostrava evidenti segni di irrequietezza. Ripresero a passeggiare. Fiancheggiarono sulla destra l’Agorà romana con la struttura a botteghe e magazzini e una vasta piazza delimitata da una doppia fila di colonne ioniche. Era il centro dei commerci nel tempo in cui Atene era divenuta romana. Poi scesero per Odos Adrianou e attraversarono la Plaka tra ristorantini e negozi di souvenir scegliendo le stradine meno affollate e i vicoli a scalinata. Atene era stata sotto la dominazione turca per quattrocento anni e lo dimostrava: negli edifici, in una certa incuria che serpeggiava dappertutto, nella clientelare burocrazia. Sirmio la seguiva, non troppo persuaso, nelle strade trafficate; lui preferiva svicolare tra i mozziconi di colonne e gli alberi, scegliendo le zone meno affollate dell’Atene antica.

(omissis)

Parte quarta
Uno

(omissis)

(pp. 76 – 78)

– Sai come sono gli uomini, sentono qualcosa, lo ripetono, si convincono delle loro stesse parole. La fama cresce. Non ha importanza se è lontana mille miglia dalla verità. Insomma temo che le idee di Aristofane circolino un po’ troppo a briglia sciolta ad Atene. Mi ha messo alla berlina con troppa intelligenza quel mascalzone.
Mirò gli carezzò i lunghi capelli. – Ti avevo avvertito. È pericoloso lasciare che la fama cresca senza metterle un freno. Bisogna vigilare. Contano anche le apparenze, non solo la sostanza. Tu ami la verità, lo so, ma gli uomini non vedono la verità. Vedono solo ombre.
– Mirò cara, non ricordarmi quella che è la tragedia dell’uomo. Sono già abbastanza di cattivo umore. Hai sentito ieri sera i nostri discorsi?
– Qualcosa. Ma vuoi che ti dica sinceramente quello che penso? Potevi evitare di tirarla tanto per le lunghe e mettere Aristofane alle strette con le tue argomentazioni. Sai che lui non è un uomo di spirito.
– Cosa avrei dovuto fare? Starmene zitto? Lui può crocifiggere chi vuole con le sue battute e invece io dovrei tacere? Sai di cosa discutevamo?
– Di letteratura, m’è sembrato.
– Discutevamo se un autore tragico possa essere anche comico o se si sia per natura portati a un genere o a un altro.
– Secondo me o si è portati alla tragedia o alla commedia.
– E invece no, secondo me chi ha del genio riesce in entrambi i campivi.
– I tuoi soliti paradossi, Socrate.
– Ne abbiamo discusso tutta la notte, e alla fine Aristofane si è addormentatovii.
– L’avrà fatto apposta per non dartela vinta. Lascialo perdere, è meglio.
– Vuoi che ti dimostri la mia tesi?
– Socrate, risparmiami, l’argomento non mi interessa affatto.
Socrate sorrise. Gli faceva sempre piacere discutere con una donna intelligente come Mirò. E anche con Aristofane, in fondo. Era un uomo acuto. Originale. Aveva delle idee fantasiose. Si sarebbe detto che pensava per immagini. Le sue polemiche si strutturavano in visioni fantastiche: uccelli, vespe, nuvoleviii. Certo, i loro rapporti si erano deteriorati negli ultimi tempi, e c’era una sorta di odio-amore tra loro, ma continuavano a cercarsi per discutere, per controbattere, per aggiungere qualcosa alle loro eterne polemiche. Ultimamente però era Aristofane a prevalere, ad avere la meglio e ad ottenere più consensi.
– Sarai più prudente? ripeté Mirò. C’è anche Filosseno…
– E chi è Filosseno?
– Un ambizioso, come tanti ad Atene. Anche lui ce l’ha con te.
– E perché mai?
– Perché gli fai ombra. E stai sulle palle anche a quelli che educano i giovani alla vecchia maniera: ignoranza, sberle, palestra.
– Sbaglio? Io penso soltanto che la ragione debba essere la nostra unica guida, che l’educazione come ogni altra cosa si debba basare sulla ragione.
– Giustissimo, amico mio, ma non è detto che sostenere la verità procuri vantaggi. Gli uomini, lo sai bene, non vedono la verità. Fissi alle loro opinioni temono chi osa dirla, la verità, e odiano chi vuole metterli in discussione.
– Io conto sugli amici. Ci sono tanti ad Atene che mi vogliono bene. Insorgerebbero se qualcuno osasse toccarmi.
– Metti in conto però che gli uomini sono per natura dei voltagabbana. Nessuno difende nessuno se ci vede anche solo un piccolo rischio.
– Mirò, non essere così pessimista.
– Socrate caro, io guardo la realtà e non mi faccio troppe illusioni.
– Non darti pensiero per me. Gli amici sono amici fidati.

(omissis)

(pp. 80-84)

Tre

Aspasia era la concubina più importante di Atene, visto che divideva il letto di Pericle, ma gestiva anche una scuola per cortigiane dove imparavano i dettami dell’ars amatoria le principali etere di Atene. Socrate frequentava volentieri la sua casa.
– Guarda chi sta entrando! – esclamò Teopompo ridendo, e indicò alle sue amiche Socrate che puntava diritto verso di loro. Aspasia si alzò dal letto dove stava impartendo qualche istruzione alle sue ragazze per salutare l’amico.
– Ti salutiamo, Socrate, cantilenarono in coro le quattro ragazze continuando i loro giochi.
– Fermati con noi, lo invitò Aspasia, indicando con un gesto della mano il letto.
Socrate sedette carezzando il seno scoperto di Teopompo. – Cosa stai facendo, dolce miele?
– Sto imparando, rispose Teopompo, continuando i suoi esercizi.
Aspasia sorrise.– Sono bambine, ne devono imparare di cose. Socrate caro, dato che sei qui, penso che ci potresti essere utile.
– In che senso? chiese Socrate stupito. Che cosa potrei fare di utile io, vecchio uomo impolverato, in mezzo a queste bellezze profumate?
– Mi è venuta un’idea. Ti potremmo testare. Potresti darci un piccolo saggio delle reazioni maschili. Così le bambine capirebbero meglio quello che stavo spiegando loro.
Socrate scosse il capo perplesso: – Credo che vi sarò di scarsa utilità. Ragazze, io non ho un obolo.
– Lo sappiamo. Non ti preoccupare, dimmi invece, che cosa faresti se ti trovassi davanti a una bella ragazza come Teopompo con i seni scoperti e una corona sui capelli?
– Cosa farei? Per un po’ converserei con lei. Le chiederei che cosa stima di più nella vita. Aspasia diede uno strattone a Teopompo che si sbellicava dalle risate. – Rispondi, mia cara. Che cosa stimi di più nella vita? Teopompo corrugò lievemente le sopracciglia meditabonda: – La bellezza e il denaro, rispose ridendo. Cos’altro?
– Teopompo, vuoi che ti dimostri che valgono molto poco? obiettò Socrate.
– Sì, dimostracelo, risposero in coro le quattro ragazze.
– Sarò sintetico. Tu, Aspasia, cosa temi di più?
Aspasia sedette vicino a lui e lo circondò con un braccio ingioiellato.– Caro Socrate, io temo quello che temono tutti: la vecchiaia, la povertà e la morte.
– Innanzitutto, cominciò a dire il filosofo, come ho tante volte dimostrato, – con te, Aspasia cara, ho conversato spesso, – la morte non è da temere. È indubbio che se lei c’è non ci siamo noi e viceversa. Come possiamo temere qualcosa che non incontreremo mai?
Teopompo rise a sproposito mentre cercava di togliergli il mantello.
– Che cosa mi vuoi fare, piccola? Devo ancora dimostrare che non si deve temere la povertà. Ma anche le altre ragazze l’avevano circondato e cominciavano a tempestargli la nuca di baci. – In questa posizione mi è difficile filosofare, protestò Socrate. Ho dimostrato molte teorie passeggiando o standomene sdraiato nei banchetti, ma disteso su un letto con quattro belle ragazze che mi baciano, questo non l’ho mai fatto. Temo che mi farete perdere la concentrazione, fanciulle. Sorrise poi, con un certo sforzo, riprese ad argomentare: – La povertà non è nostra nemica. Anzi, per certi aspetti potrebbe essere considerata un’amica. Ma subito si interruppe perché Teopompo stava scendendo nel sottombelico. – La ragazza ci sa fare, direi che è quasi perfetta, commentò Socrate dopo un po’, rivolto ad Aspasia.
– Sì, ma proprio perché è quasi perfetta, come anche tu riconosci, – Teopompo cara, non montarti la testa, ha detto “quasi” – ha un suo costo, un costo che tu non ti potresti permettere. Vedi dunque che la povertà non è un bene.
– Ma che ragionamenti sono questi, amica mia! Me l’hai messa tra le braccia tu per fare un esperimento. Evidentemente la mia povertà ha qualche forza.
Teopompo continuava imperterrita, ripassando mentalmente le lezioni che aveva imparato scrupolosamente.
– È una fanciulla deliziosa, mi sta facendo impazzire.
– Bene, disse Aspasia. L’esperimento è finito. Fermati, Teopompo.
– L’esperimento sarà anche finito, mugugnò Socrate, ma io non…
– Per proseguire occorrerebbero i quattrini che tu non hai. Come vedi avevo ragione io. La ricchezza è importante e la povertà non è un bene. Penso che sia il momento che tu prosegua nella tua passeggiata. Non vogliamo trattenerti.
– Aspasia cara, io sono stato il primo tra i greci ad affermare che “la natura femminile non è naturalmente inferiore a quella maschile salvo che manca di saggezza e forza fisica”ix. Non c’è greco che sia stato così gentile con le donne. E adesso guarda un po’ che riconoscenza! Teopompo cara… Per fortuna sono paziente. Volete che vi spieghi quanta importanza ha la pazienza nei giochi d’amore?
– Questo mi sembra un argomento interessante, acconsentì Aspasia già sulla soglia.
– Diccelo diccelo, garrirono le ragazze.
Socrate sorrise, e dall’uscio disse: – Per essere un buon amante un uomo deve saper aspettare, far crescere il desiderio nella donna e mantenerlo proporzionato al suo.
– È un’osservazione acuta, ammise Aspasia. Teopompo, annotatelo con cera e stilo!

Socrate si ritrovò all’aperto. Diede un’aggiustatina al mantello e si rimise a camminare mentre brontolava tra sé: Il denaro, ecco quello che vogliono gli uomini. Solo il denaro. Ma il denaro è ben poca cosa. Com’è triste constatare i limiti della mente umana. L’ombra di quest’albero nessuno me la può togliere. Non potrei goderne di più se fossi ricco. Non potrei rinfrescarmi di più se fosse mio. E le terme? E la palestra? Sono servizi gratuiti che la polis offre a qualsiasi cittadino. E la vista di questi monumenti? Chi mi potrebbe impedire di goderne? E i banchetti a cui vengo invitato perché so conversare piacevolmente e in modo intelligente? E gli spettacoli di teatro? E la luce delle stelle? E il panorama che posso vedere dal Licabetto? Chi mi potrebbe sottrarre tutti questi piaceri? E il bacio di un ragazzo o di una donna che io sia riuscito a far innamorare? Le cose più belle della vita non hanno prezzo. Non serve il denaro per acquistarle. Con il denaro si acquistano solo gli scarti del mondo, i beni senza valore. Perché darsi tanto da fare per inseguirli? Perché vendere l’anima per averli? Gli unici veri beni che andrebbero sempre perseguiti sono la libertà, la serenità, la forza, l’amicizia degli uomini migliori. Solo questi, credo.

Da: L’amore secondo Francesca

(pp. 139-142)

Il maschio Kinder bueno

Supermercato di Trieste. Carrelli metallici sfrecciano. Lì s’incontrano anime che vagano per approvvigionarsi di tutto il superfluo necessario per vivere. Le mani si allungano sugli scaffali in una spasmodica e compulsiva ricerca. Dovunque cibo inodore. Ah! la vita dei souk con i suoi afrori, pensa Francesca correndo dietro al suo carrello. E sfreccia in mezzo a spolverate casalinghe o a single in cerca di affettati e precotti. Dovrei telefonare a Monica. Le racconto che sono di partenza. Il problema di trovare yogurt e latticini per un po’ assorbe la sua mente. In molti s’affollano nella zona frigo. Le mani si incrociano. – Lo prenda lei. – D’accordo. Mannaggia, era l’ultima confezione di latte fresco. La ricerca prosegue, e ogni tanto si riaffaccia nella mente di Francesca l’idea di prendere il telefonino e di cercare l’amica. Ma improvvisamente Monica si materializza davanti a lei. Appare come dipinta in uno specchio. Le lunghe gambe, i capelli tiziano, il pull sempre un po’ troppo scollato. Francesca non le somiglia affatto. Bionda. Piccolina. Sembra fatta d’aria. Anche Monica ha il suo carrello pieno di birre e di surgelati. È un classico del venerdì sera.
– Stavo per telefonarti, dice Francesca mentre continuano a sfrecciare per il supermercato. Carrelli a prua e loro, dietro, a chiacchierare. – Sono quasi di partenza, aggiunge e le racconta della Patagonia. Faremo uno studio su guanaco, ouraka, tero-tero.
Davanti alla macelleria e ai poveri animali squartellati Francesca si ferma per fare la solita tirata a favore delle galline infelicissime, costrette a una vita contraria ai loro desideri, che sono semplici: un po’ di spazio, terreno per razzolarci su e un mangime adatto. Pochi desideri, eppure inappagati! Ed ecco dunque la loro vendetta: uova e carne che valgono pochissimo. Garanzia di pessima salute per noi che le mangiamo. Per non dire dei poveri maiali! Continua a parlare mentre prende in mano e osserva le confezioni, poi chiede voltandosi verso Monica: – Hai notizie di Giulio?

Monica: – Sì. È a Trieste. Voleva telefonarti.
Francesca: – Ah, bene.
Monica: – Non capisco cosa cerchi da lui.
Francesca: – Dovrei cercare qualcosa?
Monica: – Ognuno è alla ricerca di qualcosa.
Francesca ride. Di solito Monica non è così sentenziosa. Che cosa cercava? Davvero non lo sapeva neanche lei. Risponde stando allo scherzo: – Cosa cerco? L’amore secondo Francesca.
Monica: – E che cosa sarebbe?
Francesca: – Secondo me i maschietti non sanno fare l’amore. Non rispettano i tempi. Forse gli orientali sono degli amanti migliori.
Monica: – Gli orientali?
Francesca: – Dicono che gli orientali sanno aspettare. Gli indiani, ad esempio, quando sposano una ragazza aspettano giorni prima di fare l’amore.
Monica: – Si tratta di bambine inesperte. Non mi risulta che tu sia vergine.
Francesca ride e mette nel carrello due confezioni di tonno: – Mio marito qualche volta ritorna dopo mesi. Sarebbe bene ricominciare tutto daccapo. Come se ci fossimo appena conosciuti.
Monica: – È un’idea strana. Ma tu gliel’hai mai chiesto?
Francesca: – Non credo che mi ascolterebbe. Lui va sempre di fretta. E poi arriva e riparte.
Un’orda di famigliole corredate di pargoli passa vicino vociando.
Monica riprende: – Ma Giulio cosa c’entra?
Francesca: – Mi sembra che potrei educarlo. In fondo sono già passati tre mesi e non abbiamo ancora fatto l’amore.
Monica: – Giuro che non ti capisco. Cosa vorresti insegnare a Giulio?
Francesca: – Te l’ho detto, vorrei insegnargli altri ritmi.
Monica (facendo posto nel carrello per aggiungere delle bottiglie): – Mi sa che tu non conosci gli uomini. Sai il mio giudizio su di lui? Ti racconterò la storia del maschio “Kinder bueno”. Prende in mano una merendina da un asettico scaffale e comincia a pontificare: Hai presente la pubblicità della Ferrero? (Qualcuno si ferma a guardarla). Lei continua imperterrita: La Ferrero non potrebbe sostenere che lo snack in questione non fa ingrassare. È infatti egregiamente e cospicuamente calorico, più o meno come una pastasciutta. Allora che cosa fa? Lo fa supporre. Fa sì che siamo noi a trarne le conclusioni. Se una dice: non voglio ingrassare, prenderò solo un Kinder bueno, è chiaro quel che noi ne deduciamo. (Una signora un po’ grassoccia annuisce compiaciuta e butta via dal carrello quattro o cinque barattoli di marmellata). Intanto Monica prosegue: Il maschio Kinder bueno che cosa fa? (La signora oversize, in evidente imbarazzo, si allontana). Francesca ride mentre Monica continua: Non dice, ma fa supporre. Lui non racconta bugie. Sei tu che hai fatto le tue illazioni. Sei tu che hai tirato delle somme improprie. Lui non intendeva. O intendeva, ma. Cosa fare nel caso? Mangiare ugualmente lo snack truffaldino? (Se piace…) Buttarlo via e preferire una più ecologica pastasciutta? Anche se lo scuoti o lo scotenni comunque lui non ammetterà. Tu sei cattiva. E lui è bueno.
Francesca ride: – Pensi davvero così male degli uomini?
– E tu?
– No. Io penso che dovrebbero essere un po’ educati.
– Vorresti educare Giulio?
– Non lo so. Dici che è un’impresa?
– Secondo me disperata.

(omissis)

(pp. 145-152)

Allegretto andante per trio

Giulio suona e aspetta davanti al portone della casa di Monica.
Monica scende (vestito iperscollato, tacchi alti, una gonna lunga con uno spacco sul fianco. Sopra, una mantellina striminzita per sfidare le brume di novembre).
– Sempre sobria, tu.
– Non ti piace il mio look?
– Mi piace. Qualche volta mi piace anche troppo. Ma oggi non dobbiamo andare da Francesca?
Monica ride e gli fa strada.

Arrivano. Campanello che suona. Ricampanello. Monica cerca in un’enorme borsetta le chiavi, al solito introvabili. Finalmente arriva Francesca. Indossa una lunga camicetta di foggia maschile, bianca, con tanti bottoncini. Mentre si muove, lascia intravedere il suo corpo sottile. Si pulisce le mani usando uno strofinaccio tirolese e li fa entrare. – Ero alle prese con un pesce, dice e li precede nella cucina. Devo fare un po’ di pulizia nel frigo, prima della partenza. Il pesce, eccolo qua (e mette in forno un enorme scorfano) lo dobbiamo per forza mangiare, la verdura anche. Giulio, mi aiuteresti a tagliare i pomodori? E tu, Monica, metti su una pastasciutta.
– Non ci hai neanche chiesto se avevamo altri progetti.
– Avevate altri progetti?
– Forse.
– Intanto aiutatemi ad apparecchiare!
Rumore di piatti e di mascelle. Pasta al peperoncino. Scorfano e patatine autogestiti in un forno molto compiacente ed estremamente collaborativo. Cruditées sottilmente affettate.
– Francesca, sei un po’ troppo frugale come gusti alimentari. A noi piace la libidine gastronomica, commenta Giulio.
– Ognuno ha i suoi gusti. E poi si trattava anche di spazzolar via i resti dal frigo. Domani parto.
– Sì, me l’ha detto Monica. Ma tu pensa! Passiamo assieme tutta la serata, sembra persino che stia per giungere il gran momento e tu mi lasci nella notte da solo e non mi dici neppure che sei di partenza.
– Te l’avrei raccontato oggi. Oggi poteva essere un giorno significativo. A dire il vero pensavo che saresti venuto da solo.
– È il mio destino, fa Giulio passandole a pelo. Tutte le cose mi sfuggono. Come foglie secche d’autunno mi girano attorno. Volteggiano e io non riesco ad afferrarle.
Monica ride. Francesca invece bofonchia: – Il solito letterato. Tutto per te diventa parola. Compiaciuto godimento orosemantico.

Giulio è un uomo di quarant’anni che lavora in una ditta di import-export a Verona. Ha la passione di scrivere. In un’Italia dove tutti sono scrittori, anche lui lo è. Ma Giulio è un letterato fino al midollo. Uno disposto persino a usare la vita per trovare spunti per scrivere. Uno che non riesce ad amare che le sue parole. È fatto così. Orbene, uno scrittore potrebbe anche piacere. Essere attraente per le donne. Ma non per donne come Francesca e Monica. Sono troppo smaliziate per cadere vittime della fascinazione affabulatoria. Francesca poi è alla ricerca di qualcosa che le sembra mille miglia lontano dalla parola. Di qualcosa di autentico. Però si è innamorata di Giulio.

Monica si alza e comincia ad ammassare a terra dei cuscini. Si toglie le scarpe commentando: – Non ho potuto resistere quando le ho viste in vetrina, ma sono di una scomodità incredibile. Si sdraia a terra. Francesca si siede anche lei vicino e si appoggia al dorso di una poltrona. Giulio si stende nel mezzo. Francesca comincia a carezzargli le spalle e il collo.
– Che godimento, cinguetta Giulio. Mi ci voleva proprio questo massaggio.
Francesca prosegue baciandogli il lobo di un orecchio, poi continua lungo la linea del collo mentre le mani scendono sul dorso. Giulio intanto declama: – Ce ne stavamo seduti ieri a mangiare e a lanciarci languidi sguardi mentre il cameriere ci girava intorno, zelante, oh quanto zelante! e ci avvinghiava con nuovi piatti, con coppe e bicchieri decisamente inutili e sovrabbondanti, finché la musica che ci stordiva ci indusse a dire basta e a cercare un’uscita che ci mettesse in strada, che ci avviasse a quello che doveva essere l’esito inevitabile e ovvio della serata.
– Ma è la nostra serata di ieri, esclama Francesca. Farabutto. Ti sei scippato la serata e ne hai fatto parole.
– Quello che so fare.
– Parole. Quando la vita è, niente. Prenderne le distanze. Poi, quando si dissecca, quando la puoi impagliare, quando la puoi configgere con uno spillo, come una farfalla, e spiaccicarla sul muro, e così conservarla e guardarla, allora sì, anche la vita ti va bene.
Giulio si alza e si mette a girare per la stanza, poi esclama sconsolato rivolto a una finestra: – Non è sempre facile vivere.
Francesca si alza anche lei e lo segue incalzando: – Ed essere se stessi.
Giulio: – E non farsi del male.
Francesca: – E rischiare di dire le proprie parole. E smettere di recitare un copione vuoto. Un vuoto guscio d’esistenza.
Giulio: – Il solo che io sappia indossare.
Francesca: – Il solo che tu voglia indossare.
Si guardano muti per un attimo come due attori che, finite le battute del copione, non abbiano più niente da aggiungere.
Devi sapere, caro lettore, che disquisizioni di questo tipo non erano infrequenti tra loro. E non approdavano quasi mai a nulla. Francesca rimaneva sempre delusa. Le sembrava che Giulio sfuggisse a qualsiasi confronto. Ed effettivamente era così. Giulio non gradiva quei discorsi. Anche adesso infatti si rifugia provocatoriamente vicino a Monica e, mentre Francesca continua a chiedersi perché non riescano a comunicare, lui ridendo sta dicendo all’amica: – Poche volte ho goduto di un panorama così bello! Adoro le scollature molto profonde. E anche quello che c’è sotto. Seni enormi, da perdercisi dentro. Come un bambino che succhia il latte.
Francesca si avvicina. Si sdraia sui cuscini e comincia ad accarezzare i capelli di Giulio. Lo guarda e commenta perplessa: – Ma non dicevi che ti piacevano i miei seni piccoli e sodi, che ti piacevano le camicette accollate da sbottonare piano piano? Allora raccontavi bugie?
– Non ho mai detto bugie. Mi piacciono queste e quelle. Che colpa ho io se tutte le donne sono diverse? Se ce ne fossero di un solo tipo me ne basterebbe una sola. Così invece sono nell’imbarazzo.
Francesca scuote il capo e si alza perplessa:– Quando devo partire sono sempre preoccupata. Vado a vedere cos’ho dimenticato. D’altronde sembra che non abbiate bisogno di me.

Nella sua stanza fruga tra le cose che ha già sistemato. Intanto arriva Giulio e si appoggia allo stipite della porta. In silenzio la guarda armeggiare nella valigia, poi commenta: – Dunque domani parti!
– È il lavoro, farfuglia Francesca laconica, senza sollevare la testa.
Giulio gira qua e là per la stanza poi, passandosi una mano tra i capelli, prosegue con un certo imbarazzo: – Ieri sera ho perso un’occasione?
Francesca non gli risparmia un gelido: – Se è per questo anche oggi.
Giulio insiste: – Un’occasione che può non ripetersi?
Francesca sorride: – Questo non lo so.
Giulio la guarda: – Mi è difficile capire le condizioni che poni.
– Io non pongo condizioni.
– E invece ho la sensazione che tu le ponga. Ho questa sensazione. E mi preoccupo. Mi sento inadeguato.
– Inadeguato? Forse. Tu vuoi solo le cose più semplici. E ti proteggi con le parole. Spogli le cose della loro vita perché solo così le riesci ad afferrare. Un uccello impagliato. Una farfalla trafitta. La notte dell’inautentico.
– Francesca, che idee hai di me!
Entrambi, lanciati in un inesorabile botta e riposta, continuano a fiorettarsi con le parole.
Francesca: – No, voglio dirti quello che penso. I colori del giorno ti acciecano. Stringi tra le mani luce e ne fai tenebra. Stringi tra le mani cose e ne fai spezzoni di teatralità. Sei fatto di parole e di celluloide.
Giulio: – Francesca, non sei gentile!
Francesca: – La gentilezza non ha mai fatto bene alla salute. Lasciami dire. Noi parliamo lingue diverse. Se anche ci avvicinassimo sarebbe come avvicinare due stelle di qualche chilometro. Resterebbe sempre una distanza di anni luce.
Giulio: – Ti dev’essere restato sullo stomaco il peperoncino.
Francesca: – Vorrei cambiarti ma non posso. Nessuno riesce a cambiare nessuno.
Giulio: – Quali sono le tue condizioni?
Francesca: – Non credo tu sia ancora maturo.
Giulio: – Maturo non sarò mai, casomai marcio.
Francesca: – Potresti trovare strade nuove.
Giulio: – Gli spazi iperurani mi spaventano. Sono un terrestre. Diciamo che è la mia dimensione.
Francesca: – Ci sono anche altre dimensioni. Se restituiamo i colori alla realtà, se ci mettiamo nudi… Le cose migliori si fanno quando si è nudi nel corpo e nell’anima.
Giulio: – Nudi si è indifesi. Non sono sicuro che la mia anima ti piaccia.
– Hai paura? chiede (e afferma) la voce di Francesca alle sue spalle.
Giulio continua a contemplare il buio al di là della finestra, poi sussurra: – Forse. Nella vita le cose sfuggono sempre.
– Nella vita cominci e non sai dove vai a finire. È la vita che sfugge di mano.
È il massimo che Francesca abbia mai ammesso. Sorride, e riprende a trafficare con la sua valigia.

La stanza di Francesca è grande e luminosa. Due ampie finestre con tendine ricamate la fanno somigliare alle stanze del Nord assetate di luce. Un letto e un divano completano l’arredamento. A terra una gran quantità di tappeti e cuscini. Francesca passa dalla stanza all’attiguo guardaroba selezionando gli indumenti e fermandosi ogni tanto pensierosa.
Sulla porta Giulio continua a osservarla senza parlare. Lei lo guarda e gli si avvicina carezzandolo. – Quand’ero piccola avevo un orsacchiotto che si chiamava come te. L’orsacchiotto Giulio. Era il mio preferito.

Giulio: – E cosa facevi con l’orsacchiotto Giulio?
Francesca: – Niente. Dormiva vicino a me. Di solito.
Giulio: – Perché di solito?
Francesca: – Talvolta prendevo altri orsacchiotti.
Giulio: – E l’orsacchiotto Giulio?
Francesca: – Lo facevo sedere vicino alla finestra. Però tra tutti gli orsacchiotti era il mio preferito. L’unico a cui non ho tolto mai la testa per vedere che cosa c’era dentro.
Giulio: – Perché, avevi quest’abitudine?
Francesca: – Sì, mi piaceva vedere cosa c’era dentro le bambole o negli orsacchiotti. Ho sempre avuto una particolare inclinazione per la conoscenza.
Giulio: – Anche a costo di rompere i giocattoli?
Francesca: – Anche a costo di rompere, tout court.
Giulio: – Spero di non fare la fine dei tuoi orsacchiotti!
Francesca: – Tu sei l’orsacchiotto Giulio.
Giulio: – Sono lusingato. (Sorride e la aiuta a piegare un maglione).

Francesca esce dalla stanza e raggiunge l’amica: – Ti prego, ho un sonno tremendo. Lasciatemi andare a dormire. Domani non riuscirò a svegliarmi.
– Tuo marito quando ritorna? – chiede Monica.
– Ci vedremo a Kiruna, penso. Adesso è a Buenos Aires per un convegno.
Si avvicinano alla porta. Monica abbraccia l’amica e le raccomanda di lasciare acceso il telefonino. Giulio si infila il soprabito e la abbraccia. La porta si chiude ed escono. Scendono le scale. Monica, rivolta a Giulio, chiede: – E noi adesso che cosa facciamo? Hai voglia di andare al mare?
Decidono di andare a Grado.

(omissis)

(pp. 207-209)

All’improvviso il sole

A pensarci bene la maggior assurdità di queste vite che pretendiamo di vivere è il loro falso contatto. Orbite isolate, ogni tanto due mani che si stringono, cinque minuti di chiacchiere, un giorno alle corse, una notte all’opera, una veglia mortuaria davanti alla quale tutti si sentono un po’ più uniti, ed è vero, ma tutto finisce nel momento della saldatura. E intanto uno vive convinto che gli amici siano lì, che il contatto esista, che gli accordi o i disaccordi siano profondi e duraturi.
Come ci odiamo tutti quanti senza sapere che l’affetto è la forma presente di quest’odio come la ragione di quest’odio profondo è questo decentramento, questo spazio incolmabile tra te e me, tra questo e quello. Ogni affetto è un colpo d’artiglio ontologico, un tentativo di appropriarsi dell’inappropriabile.

da “Il gioco del mondo” di Cortazar

Temporale, quella notte, a Marostica. Lampi e fulmini. Sandro affacciato alla finestra rimane a lungo a guardare. Le luci vanno e vengono in una danza spettrale. La sigaretta in bocca, un bicchiere mezzo vuoto nella mano, Sandro pensa a una vita arrischiata, a un’esistenza in cui l’emozione faccia da padrona. Non così nella sua vita. La routine è la condizione naturale, la noia il pane quotidiano; la suspense la trova solo nell’artificiale. Emozioni virtuali, scariche di adrenalina che una pellicola sopra le righe gli elargisce, per lasciarlo poi al quieto passare senza sussulti del tempo, al lento traghettarsi per un cammino senza curve e imprevisti.
La notte trascorre così. Anche Zark soprassiede ai suoi eccessi e si acciambella sotto il tavolo. Sandro decide di mettere una coperta in più sul suo letto, perché nella sua casetta il freddo di fine dicembre comincia a pungere per davvero.
Nella tarda mattinata un sole stupendo riesce infine a bucare la fitta coltre di nuvole e promette per un po’ bel tempo. Un suono di clacson, insistente, allegro, eccessivo. Sandro si affaccia alla porta. L’aria è fredda e perfettamente nitida, lavata dal temporale della notte. Davanti a lui la BMV metallizzata di Monica.
– Dove la posso parcheggiare? grida Monica aprendo la portiera e facendo vedere un ampio tratto di gambe sbucate tra la pelliccia aperta e una minuscola gonna di pelle.
– In una cassaforte, fa Sandro avvicinandosi all’automobile. Ma perché non sei venuta in moto?
– Con questo freddo? E poi l’automobile ci potrà servire.
Sandro prende il bagaglio di Monica e le fa strada. – Ti dovrai accontentare, Monica. Questo non è il tuo appartamento.
Monica entra e comincia a guardarsi in giro. – È una casa graziosissima. Piccola ma deliziosa. E quante piante! Adoro le piante grasse.
Sandro un po’ impacciato fa gli onori di casa e in cuor suo vorrebbe che la sua casetta fosse molto più grande e più bella per accogliere lo splendido sorriso che Monica gli sta elargendo.
Monica intanto s’è seduta sulla poltrona, s’è tolta la pelliccia, rimanendo con un piccolo cardigan rosso allacciato in vita e la sua microgonna nera.
– Avrai freddo, sentenzia Sandro.
– Mi cambierò più tardi, soprassiede Monica, prima vorrei riposarmi un po’. Calcia le scarpe, si rannicchia, accarezza il gatto che si è avvicinato in perlustrazione, chiede a Sandro di prepararle del tè. – Hai pensato a dove si potrebbe andare? chiede poi.
– No, risponde Sandro dalla cucina.
– Vista la stagione, direi le Maldive, che te ne pare? In agenzia mi trovano di sicuro un pacchetto anche all’ultimo minuto, e per di più scontatissimo.
– Non se ne parla nemmeno, fa Sandro deciso. Se devo essere sincero, l’idea di prendere un aereo e di catapultarmi in un mondo diverso mi angoscia.
– Davvero?
– Ti dirò di più, continua Sandro incoraggiato dal trovare Monica stranamente comprensiva. Intanto sono un professore squattrinato, e poi, quando mi hai parlato di un viaggio, non ti ho detto di no, ma in cuor mio speravo che ti fermassi a casa mia.
– Ma perché? Il mondo è bellissimo.
– Proprio per questo. È troppo bello. Mi farebbe del male. Troppa luce, troppi colori. A me basta poco per essere felice.
– E sei felice?
– Uno può essere definito felice solo alla fine della sua vita, dicevano gli antichi. Nell’attesa però, adesso che ti vedo, mi sembra di avvicinarmi abbastanza a quella condizione.
– Sono contenta di farti quest’effetto, Sandro.
Sandro con le tazze di tè in mano e due fette di torta si avvicina. Si ferma per qualche istante impacciato, non sapendo dove mettere il tutto, ma Monica interviene pronta, prendendogli di mano le tazze e appoggiandole su un piccolo tavolino d’angolo. Sandro si accoccola sul tappeto vicino alle gambe di Monica.
– Ehilà! Che confidenze! Esclama Monica allontanando la mano di Sandro che si sta inerpicando come per caso sulle sue gambe.
– Pensavo che dopo quella volta…
– Quale volta? chiede Monica. Non mi ricordo.
– A San Floriano, continua ingenuamente Sandro.
– Perché, è successo qualcosa a San Floriano? Non ricordo che sia successo nulla di significativo.

Le parole blu

copertina le parole blu

Amore slow food e amore nel mondo classico sono gli ingredienti di due racconti “Socrate e le donne” e “L’amore secondo Francesca” che coniugano l’entusiasmo del pamphlet con la vivacità del dialogo, la precisione dei dati storici con l’attenzione per il mondo attuale

PREMIO GOLFO DI TRIESTE 2013

Alcuni racconti

Da: Socrate e le donne
Da: L’amore secondo Francesca

Recensioni

Mary Barbara Tolusso: Parole blu vuol dire donna
Marina Silvestri: Le parole blu di Marina Torossi Tevini
Giovanna Mozzillo: Le parole blu di Marina Torossi Tevini

Presentazioni

Libreria Lovat: Edda Serra, Marina Silvestri
Club lettura Cividale: Giuseppe Raffaelli
FIDAPA: Carla Guidoni, Irene Visintini
Poesia e solidarietà: Gabriella Valera Gruber

Profumi

La nostra natura consiste nel movimento. La quiete assoluta è morte.
Pascal

Lavanda
Ne strappo un ciuffo davanti all’aeroporto di Venezia. Volo per Catania. Ci ammassiamo davanti alla gate. Facce del sud. Scure. Qualche ometto andreottiano. Fokker 100: un giocattolino. Saliamo. Per anni ho avuto paura dell’aereo. Così abbiamo dovuto consolarci vagabondato a zig zag per l’Europa. Ma ora ho deciso. Non avrò più paura. L’aereo gira per la pista, e sfoglio un quotidiano. L’aereo decolla, e non ho paura. L’aereo vola, e io guardo la laguna di Venezia. Prima del viaggio ho deciso di liberarmi da quell’irrazionale fobia. L’aereo vola a 860 km. Bene. Fuori ci sono 50 sotto zero. Bene. Constato con gioia che non ho paura. Il viaggio è breve. Non abbiamo neanche tempo di fare due chiacchiere e siamo già arrivati. Sorvoliamo leggeri l’Etna fumante.

Glicini
La vegetazione attorno a Taormina è rigogliosa. Palme altissime, piante grasse che penetrano nei poggioli del nostro albergo, agavi, fichi d’India che si inerpicano sul roccione che fiancheggia l’ingresso del teatro greco, gerani enormi (veri e propri alberelli), e dappertutto limoni e aranci. E i glicini, tanti glicini, fioriti con ampio anticipo rispetto al nostro Nord stentato.
Dopo cena camminiamo fino a tardi attorno all’albergo. Non mi stanco di sentire quei profumi, che col buio mi sembrano più intensi, e di guardare col naso all’insù il cielo stellato. Un cielo da vertigine.

Bouganvillea
All’improvviso il suo profumo. In una piazzetta, travolta dal profumo di una bouganvillea, vorrei trascorrere lì il resto della mia vita. Mio marito mi induce a proseguire con fondati motivi…)
Cittadina ipercivile, Taormina, con molto turismo, specie nordico, vista la stagione. Bei ristoranti e giardini pensili. Un panorama stupendo. Sullo sfondo, l’Etna.

Castagni
Percorriamo le falde del vulcano. Saliamo attraverso un paesaggio di viti basse, poi ci inerpichiamo in mezzo a brughiere di erbe aromatiche tra ricordi incrociati di Creta a primavera e delle isole del Quarnero in estate, fino a un paesaggio quasi montano spruzzato qua e là da macchie di neve. Il traffico domenicale è altamente disordinato. “Guidano come te”, commenta mio marito, bacchettando i guidatori che usano abbondantemente il clackson, guidano a fantasia e non danno la precedenza. Uomo d’ordine, vorrebbe tutti in fila e disciplinati. Sui pendii si vedono colate di lava. Ci imbattiamo nel famoso castagno dei cento cavalli di S. Alfio. Costeggiamo declivi pieni di viti. Il vulcano mi inquieta e sono ben contenta quando ridiscendiamo. Alla sera cena a buffet in albergo. Assaggiamo un po’ di tutto. Caponata, minestra di lenticchie, olive farcite in tutte le maniere, verdure fritte, filetto in crosta. Canoli e canolicchi si lasciano mangiare anche da chi è sazio.
Ho portato con me il libro di Freya Stark Le valli degli assassini, racconto di viaggio di una donna eccezionale degli anni Venti, che si avventurò da sola nelle valli inospitali come quelle del Luristan o del Mazanderan, in regioni dimenticate dalle carte geografiche, seguendo la sua passione per l’archeologia e un’infaticabile curiosità per il genere umano. Presente e passato si intrecciano. Del passato rimangono cumuli pietre tombe che con difficoltà si riescono a raggiungere, talvolta saccheggiate dagli abitanti del luogo, talvolta provviste ancora di tutti i loro tesori. Freya Stark viaggia per il piacere di viaggiare e confessa lei stessa di non essersi mai domandata “perché fosse lì”. “ Quando mi venivano rivolte con insistenza domande in proposito, l’unica spiegazione che mi veniva in mente era la mia curiosità per la lingua araba…” confessa e aggiunge: “ Arrivai però alla conclusione che chi vuol viaggiare in pace deve trovarsi un pretesto più spirituale del puro godimento. Spesso nel nostro mondo utilitaristico fare le cose per divertimento passa per fatuità, anzi per immoralità. Personalmente credo che il mondo abbia torto, e nel mio intimo sono convinta che la miglior ragione per fare una cosa stia nel fatto che ci piaccia farla; però consiglio a chi non voglia trovarsi davanti i volti corrucciati degli addetti ai passaporti di partire con una qualifica di entomologo antropologo o qualsivoglia ologo che ritenga adatto e propizio”.
Donna di straordinaria intelligenza la Stark, si rivelò capace di adattarsi ai più disparati ambienti umani, e riuscì a non entrare in collisione con mentalità diversissime e a giudicare le miserie umane senza per questo fare l’eremita. C’è in lei un gusto dell’avventura, una gioia di vivere che probabilmente sono la ricetta che le consentì di arrivare ai cent’anni dopo una vita che definire avventurosa è poco. La Stark è curiosa dell’animo umano, del panorama sempre vario e affascinante che l’umanità del presente e del passato offre. La affascinano in particolare le tribù nomadi che vivono secondo dettami primitivi, ma che sembrano talvolta possedere il segreto di una grande serenità. A questo proposito scrive: “Sarebbe facile pensare che quanti di loro hanno conosciuto gli agi della vita cittadina desiderino riprodurli in qualche modo quando tornano alle loro montagne, ma non è affatto vero. Tornano e vivono esattamente come hanno vissuto duemila anni prima. La forza dell’ambiente primitivo è troppo grande e quelle amenità non fanno parte delle cose che sono indispensabili alla vita dell’essere umano, mentre lo sono invece la libertà la religione il dominio e l’ozio”.
Ricercatrice di testimonianze del passato in mezzo alle devastazioni della civiltà moderna come la definisce Cino Boccazzi ne La via dell’incenso, capace di ascoltare ogni cosa perché “ogni cosa parla lungo la via” e di raccogliere elementi per un suo puzzle mentale perché “indizio dopo indizio tutto il passato rivive, rovine, città sepolte sotto enormi dune, graffiti su rocce”, riusciva a vedere “l’avventuroso nel quotidiano e il quotidiano nell’avventuroso”. Ma ciò che accompagna la Stark nei suoi viaggi è soprattutto un solido bagaglio culturale che le consente di vedere nei deserti del Luristan, o tra le gole e le montagne i fantasmi delle civiltà che si sono succedute nei secoli, dal lontano tempo di Dario. “Nel mezzo delle devastazioni della civiltà il Luristan è ancora un paese incantato” scrive la Stark, e noi, pensando alle violenze di cui sono stati testimoni queste regioni negli ultimi decenni, ci soffermiamo con piacere a pensare a un mondo meno angosciante di quello che scorre sui nostri teleschermi. Lo scopo della Stark non è tanto la ricerca di un tesori nascosti, anche se per una buona parte del libro si parla di ciò, o la conquista del trono di Salomone, irraggiungibile su un’alta montagna, ma la descrizione di civiltà antiche decadute che attestano il loro passaggio nella vicenda umana solo attraverso le rovine o le tombe che giacciono qua e là. Uno straordinario equilibrio si respira nelle sue pagine, dove l’amore per la sfida si alterna all’amore per la conoscenza, e l’interesse per la vita si áncora a quello ancora più grande per la rielaborazione della stessa in un’opera che abbia il sapore dell’arte.

Finocchio selvatico
Finocchio e altre erbe aromatiche profumano l’aria attorno a Piazza Armerina. Visitiamo la villa romana del Casale. Magnifici i mosaici del IV-V secolo a.C. distribuiti in una quarantina di ambienti: terme, peristilio, triclinio, palestre. Ammiriamo le danzatrici, la pesca con amorini, un safari africano, le famose fanciulle in bikini, la lotta dei Giganti. Bypassiamo mandrie di turisti inglesi e tedeschi che in questa stagione splendida si godono il sole mediterraneo.

Fa caldo sotto i teloni messi a protezione dei mosaici. Guardo, e intanto mi lascio permeare dal profumo delle erbe che arrivano dalla campagna. I turisti cicaleggiano. Sembrano molto soddisfatti. All’ora di pranzo troviamo refrigerio in una trattoria che offre tavolini ombreggiati da palme giganti. Ci ammanniscono un delizioso vinello, maccheroncini con olive e melanzane, gnocchetti al finocchio selvatico, agnello alla brace, carciofi e caffè. Si riparte con la macchina a noleggio, per fortuna fornita di aria condizionata. Dopo due orette, Agrigento. Fiori rossi e gialli e, in alto, i templi.

Mandorli
La Valle dei templi si stende su una superficie vastissima. In lontananza si vede il tempio di Giunone circondato da mandorli e mimose. Qua e là fichi d’India e gerani giganti. All’origine i templi erano gialli, poi venivano intonacati e colorati. Noi siamo abituati a immaginare i templi antichi bianchissimi e l’idea di una ridda di colori ci turba lievemente. Vediamo qualche piccolo esempio dei colori originali nel Museo.
Anche i templi di Giove, della Concordia e dei Dioscuri hanno il nostro tributo.

Rosmarino
Il quartiere ellenistico-romano mi piace molto. Bisogna lavorare di fantasia, certo, ma i cardi danno l’idea di passeggiate tranquille, e i mozziconi di mura ci suggeriscono l’idea della vita che pulsava all’interno di case e botteghe. Si può immaginare l’esistenza che vi si svolgeva, soprattutto all’aperto, nei patii o nei giardini, si può scivolare con la mente in un passato per molti aspetti allettante.
Il profumo del rosmarino che cresce spontaneo tra le vecchie mura ci accompagna per un lungo tratto.

Patio con limoni
Agrigento non è una bella città. Deturpata da un’edilizia dissennata. Ci avviamo per le viuzze della parte araba che si arrampicano lungo la collina in direzione del Duomo. A dir la verità in quei vicoletti ci ritroviamo per caso.(E vorremmo uscirne al più presto). Ma non c’è una via di fuga. Bisogna salire gradini e gradoni. Case fantasma. Diroccate. Stradine fatiscenti. Poi, all’improvviso, qualche patio, qualche casa che vive, qualche bel giardino chiuso tra mura, protetto dalla vista di tutti. Minuscole oasi per l’estate, da godere tranquilli tra zampilli d’acqua, fuori dal mondo. “Come si fa a vivere qui?” chiede mio marito. Ma io, che sento in quel momento il profumo di quel minuscolo paradiso, penso che certo si può.

Pini marittimi
Ci sono moltissimi pini marittimi lungo la strada che conduce alla casa natale di Pirandello nel quartiere Kaos di Agrigento. Su una pietra sono incisi i versi dell’autore siciliano: “Una notte di giugnocaddi/come una stella/sotto un pino solitario/in una campagna di olivi saraceni/affacciata agli orli/di un altopiano d’argilla azzurra/sul mar d’Africa”.
Pirandello è uno degli autori che segnano il Novecento. Nasce con lui la consapevolezza di quella che potremmo definire la tragedia della parola. “Ma se è qui tutto il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, si­gnore, se nelle parole che io dico metto il senso ed il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, nel mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”
Non è più la parola “alata”, la parola che passa da una bocca all’altra, messaggera imprecisa, ma pur sempre attendibile, messaggera parziale, ma pur importante, perché capace di veicolare contenuti significativi e farsi portavoce dei sentimenti e dalla razionalità umana.
L’uomo nel primo Novecento, attraverso la sensibilità di scrittori capaci di anticipare quelle che sarebbero state le linee guida di un’epoca, abbandona la percezione di sé che aveva nel passato, la psicanalisi attinge i più oscuri strati del suo essere, la filosofia lo concepisce come una monade magmatica a cui la realtà nella sua essenza sfugge. L’arte esprime l’alienazione l’impotenza la solitudine, che le parole o i gesti degli altri non possono infrangere in modo significativo.
Questo senso di tragica solitudine e di rassegnata consapevolezza nei confronti di un destino di incomunicabilità assoluta percorre tutto il Novecento. La parola si frantuma, si sfaccetta, si presenta in una realtà poliedrica e variegata che non lascia sicurezze, non concede facili approdi; non veicola più miti condivisi, perde ogni sacralità, non è il luogo deputato per la ricerca della verità, come nella solidale sapienza antica che si costruiva sull’oralità, tra un maestro e i suoi discepoli che, attraverso la parola, ponevano come fine comune l’approdo a una nuova verità.
Come suona lontano il mondo di Platone con i discepoli che si stringevano accanto al maestro e percorrevano con lui maratone di parole a caccia della verità. Da allora sono passati più di due millenni, e molte civiltà si sono succedute nella lettura della realtà e diversi significati sono stati dati alla possibilità di veicolare contenuti personali o universali attraverso la parola. Ma il secolo che si è appena concluso rimane unico nella sua implacabile e parossistica distruzione del significato e del valore della comunicazione. Certo, dobbiamo però ammettere che è stato anche unico per gli esiti che questo approfondimento comporta. La parola è sì divenuta inattendibile, ma veicola nuovi contenuti, affonda nell’inconscio dell’uomo, ne estrae un magma indistinto e ancora palpitante, dà voce all’universo femminile che fino allora non aveva ancora potuto esprimere se non in modo episodico una propria identità, le classi egemoni lasciano spazio ad altre classi, portatrici di altri valori e di una sensibilità diversa.
“Ah come è difficile trovare una traccia divina in mezzo alla vita che facciamo, in que­sto tempo così soddisfatto, così borghese, così privo di spirito, alla vista di quest’architettura, di que­sti negozi, di questa politica, di questi uomini! Come potrei non essere un lupo della steppa, un sordido ana­coreta in un mondo del quale non condivido alcuna meta, delle cui gioie non vi è alcuna che mi arriva” esclama il protagonista de Il lupo della steppa di Hesse, mettendo bene in luce le inquietudini della borghesia di inizio secolo. L’intellettuale dell’inizio Novecento è un intellettuale contro, la società gli appare ostile, una prigione che impastoia, una società con cui venire a patti, ma sempre sentendosene profondamente estranei e nutrendo la consapevolezza che è, come afferma Svevo, inquinata alle radici. Lo scrittore si chiede che cosa fare delle parole che veicolano così poco del suo autentico mondo e sono destinate a cozzare contro una realtà in qualche modo ostile. L’io non trova rispondenza in ciò che lo circonda e questa frattura individuo/società connota profondamente l’arte. La comunicazione diventa delirio di non comunicazione, le parole sono volutamente insensate e gridano il messaggio negativo del nulla. Da un lato non possiamo disconosce che questa negatività ha in sé anche qualche connotazione positiva: la parola dilaga, ci assorda da radio e televisione, che sempre di più colonizzano case e menti, le dinamiche economiche hanno il sopravvento. Il silenzio stesso e la lallazione possono essere una risposta, una provocazione. Ma affermare il nulla, alla lunga, mi sembra potenzialmente improduttivo. Certo, il mondo che abbiamo dinanzi è per certi aspetti inquietante. Troppo complesso forse, ed è questa la ragione per cui gli intellettuali spesso si rifugiano in comode nicchie senza compromettersi con interpretazioni della realtà. Non sono solo gli scenari inquietanti della politica e dell’economia internazionale, il declino delle ideologie, l’imporsi di un’industria culturale che spingono a questo. La società crea disagio all’intellettuale, in essa non si riconosce, e dunque vi si allontana prendendone le distanze con una tendenza apocalittica che accomuna scrittori di tendenze diverse. Ne deriva in ultima analisi un’assenza di impegno positivo, e il rifugio in una condanna troppo generalizzata per colpire davvero.

I dintorni, a cominciare da Porto Empedocle, fanno paura. Quartieri fatiscenti, case non finite, rimaste lì a deturpare il paesaggio, svincoli enormi rimasti anch’essi interrotti… Quanto spreco di denaro pubblico!
Questo spettacolo si ripete mille altre volte, in particolare nella Sicilia del Sud, intorno a Gela e Ragusa.

Papaveri e papiri
I papaveri abbondano tra le mura diroccate del Castello di Eurialo da dove si vede dall’alto Siracusa. Si mescolano al giallo delle margherite. Il panorama è vasto e bellissimo. In lontananza riusciamo a scorgere l’Etna.
Scendiamo a Siracusa e posteggiamo vicino a un immenso limoneto da cui qualche turista raccoglie limoni di cui succhia poi gli spicchi mentre si avvia alla zona archeologica. Visitiamo il teatro, le Latomie, l’orecchio di Dionisio, e infine, in un’altra parte della città, l’isola Ortigia con la fonte Aretusa. Nell’acqua crescono papiri e persino una palma. .

Dune e mimose
Siamo a Gela, nel profondo Sud. Di fronte l’Africa. Ma il paesaggio di dune sabbiose mi ricorda, non so perché, l’Atlantico. Sarà il mare mosso, o il vento forte che mi costringe a infilare un maglione, ma mi sembra d’essere in Olanda (lo so, è assurdo, in Olanda non ci sono le mimose e neanche le case abusive).
Si susseguono dune sabbiose, coperte di vegetazione bassa, a cespuglio. Abbondano le case abusive rimaste a metà, con il ventre aperto e lo scheletro parzialmente in vista, gli svincoli interrotti, le megaopere non completate.

Aranci, arance, e zagare
Ritorniamo a Taormina. Ci vado soprattutto per risentire un profumo che da un cortiletto mi aveva conquistata qualche giorno prima. Ma la pioggia deve aver lavato via il suo profumo. (E io che avrei passato là tutta la vita!)
Mi consolo in un aranceto un po’ più in là dove gli alberi sono al contempo fioriti e con i frutti. Un profumo inebriante, esaltato dalla pioggia.
(La vita è sempre così. Imprevedibile. Bisogna prendere quello che offre, non cercare quello che immaginavamo).
Ci fermiamo in un ristorantino di pesce. Clientela nordica. Camerieri che si industriano, a dir la verità molto bene, a farsi benvolere dai turisti d’oltralpe nonostante si esprimano in un inglese ostrogoto. I turisti rimangono affascinati ed entusiasti. Molti si fanno fotografare. Scambiano battute e ridono. A metà di un’ordinazione il cameriere deve uscire di corsa per mettere in salvo dai denti di un gatto il pesce esposto. Gli inglesi si sbellicano dalle risate.
Taormina, la sera, è bellissima. Le luci accese, la vegetazione che si inerpica sui pendii, la terrazza panoramica. E ancora profumo di zagare…

Limoni e faraglioni
Aci Reale, Aci Trezza; Aci Castello. I Malavoglia. Ristorante “Ai Malavoglia”. Ancora pesce. Freschissimo. Un’altra caponatina. E verdure fritte. La cassata siciliana? (ottima, ma non vorrei poi dover cambiare il guardaroba!)
I faraglioni si stagliano netti davanti a noi. Rocce vulcaniche scure.

Un volo nella notte ci riporta a casa. Avrei voluto vedere l’Etna, ma il cielo è coperto. Diventa sereno man mano che saliamo. Sotto di noi vediamo nitida la penisola Sorrentina, poi la città di Napoli. Traversiamo la dorsale appenninica e arriviamo sopra Pescara. Un po’ di turbolenze e già, velocissimi, siamo in vista di Venezia.

marzo 2001

Viaggi a due nell’Europa di questi anni

copertina Viaggi a due nell'Europa di questi anni

Una fotografia dell’Europa di questi anni attraverso i viaggi di una coppia che ne coglie le dinamiche delle trasformazioni con un occhio ai paradossi della globalizzazione e una speciale attenzione per la sua identità storica.

PREMIO TRIESTE SCRITTURE DI FRONTIERA 2008 – menzione speciale

Alcuni racconti

Provenza in Primavera (nazioneindiana.com)
Veglia: gli orsi e i Balcani (viadellebelledonne.wordpress.com)
Halloween 2004 (opifice.it)
Profumi

Recensioni

Roberto Dedenaro: Viaggi a due nell’Europa d’oggi con Marina Torossi Tevini
Marina Silvestri: Viaggi a due nell’Europa di questi anni
Roberta Marsi: Viaggi a due nell’Europa di questi anni

Presentazioni

Dante Alighieri: Loretta Marsilli
Circolo della vela di Muggia: Sandra Pecman
FIDAPA: Carla Guidoni
Salotto dei poeti: Irene Visintini
Caffè letterario di Milano Centro: Roberta Masi