Profumi

La nostra natura consiste nel movimento. La quiete assoluta è morte.
Pascal

Lavanda
Ne strappo un ciuffo davanti all’aeroporto di Venezia. Volo per Catania. Ci ammassiamo davanti alla gate. Facce del sud. Scure. Qualche ometto andreottiano. Fokker 100: un giocattolino. Saliamo. Per anni ho avuto paura dell’aereo. Così abbiamo dovuto consolarci vagabondato a zig zag per l’Europa. Ma ora ho deciso. Non avrò più paura. L’aereo gira per la pista, e sfoglio un quotidiano. L’aereo decolla, e non ho paura. L’aereo vola, e io guardo la laguna di Venezia. Prima del viaggio ho deciso di liberarmi da quell’irrazionale fobia. L’aereo vola a 860 km. Bene. Fuori ci sono 50 sotto zero. Bene. Constato con gioia che non ho paura. Il viaggio è breve. Non abbiamo neanche tempo di fare due chiacchiere e siamo già arrivati. Sorvoliamo leggeri l’Etna fumante.

Glicini
La vegetazione attorno a Taormina è rigogliosa. Palme altissime, piante grasse che penetrano nei poggioli del nostro albergo, agavi, fichi d’India che si inerpicano sul roccione che fiancheggia l’ingresso del teatro greco, gerani enormi (veri e propri alberelli), e dappertutto limoni e aranci. E i glicini, tanti glicini, fioriti con ampio anticipo rispetto al nostro Nord stentato.
Dopo cena camminiamo fino a tardi attorno all’albergo. Non mi stanco di sentire quei profumi, che col buio mi sembrano più intensi, e di guardare col naso all’insù il cielo stellato. Un cielo da vertigine.

Bouganvillea
All’improvviso il suo profumo. In una piazzetta, travolta dal profumo di una bouganvillea, vorrei trascorrere lì il resto della mia vita. Mio marito mi induce a proseguire con fondati motivi…)
Cittadina ipercivile, Taormina, con molto turismo, specie nordico, vista la stagione. Bei ristoranti e giardini pensili. Un panorama stupendo. Sullo sfondo, l’Etna.

Castagni
Percorriamo le falde del vulcano. Saliamo attraverso un paesaggio di viti basse, poi ci inerpichiamo in mezzo a brughiere di erbe aromatiche tra ricordi incrociati di Creta a primavera e delle isole del Quarnero in estate, fino a un paesaggio quasi montano spruzzato qua e là da macchie di neve. Il traffico domenicale è altamente disordinato. “Guidano come te”, commenta mio marito, bacchettando i guidatori che usano abbondantemente il clackson, guidano a fantasia e non danno la precedenza. Uomo d’ordine, vorrebbe tutti in fila e disciplinati. Sui pendii si vedono colate di lava. Ci imbattiamo nel famoso castagno dei cento cavalli di S. Alfio. Costeggiamo declivi pieni di viti. Il vulcano mi inquieta e sono ben contenta quando ridiscendiamo. Alla sera cena a buffet in albergo. Assaggiamo un po’ di tutto. Caponata, minestra di lenticchie, olive farcite in tutte le maniere, verdure fritte, filetto in crosta. Canoli e canolicchi si lasciano mangiare anche da chi è sazio.
Ho portato con me il libro di Freya Stark Le valli degli assassini, racconto di viaggio di una donna eccezionale degli anni Venti, che si avventurò da sola nelle valli inospitali come quelle del Luristan o del Mazanderan, in regioni dimenticate dalle carte geografiche, seguendo la sua passione per l’archeologia e un’infaticabile curiosità per il genere umano. Presente e passato si intrecciano. Del passato rimangono cumuli pietre tombe che con difficoltà si riescono a raggiungere, talvolta saccheggiate dagli abitanti del luogo, talvolta provviste ancora di tutti i loro tesori. Freya Stark viaggia per il piacere di viaggiare e confessa lei stessa di non essersi mai domandata “perché fosse lì”. “ Quando mi venivano rivolte con insistenza domande in proposito, l’unica spiegazione che mi veniva in mente era la mia curiosità per la lingua araba…” confessa e aggiunge: “ Arrivai però alla conclusione che chi vuol viaggiare in pace deve trovarsi un pretesto più spirituale del puro godimento. Spesso nel nostro mondo utilitaristico fare le cose per divertimento passa per fatuità, anzi per immoralità. Personalmente credo che il mondo abbia torto, e nel mio intimo sono convinta che la miglior ragione per fare una cosa stia nel fatto che ci piaccia farla; però consiglio a chi non voglia trovarsi davanti i volti corrucciati degli addetti ai passaporti di partire con una qualifica di entomologo antropologo o qualsivoglia ologo che ritenga adatto e propizio”.
Donna di straordinaria intelligenza la Stark, si rivelò capace di adattarsi ai più disparati ambienti umani, e riuscì a non entrare in collisione con mentalità diversissime e a giudicare le miserie umane senza per questo fare l’eremita. C’è in lei un gusto dell’avventura, una gioia di vivere che probabilmente sono la ricetta che le consentì di arrivare ai cent’anni dopo una vita che definire avventurosa è poco. La Stark è curiosa dell’animo umano, del panorama sempre vario e affascinante che l’umanità del presente e del passato offre. La affascinano in particolare le tribù nomadi che vivono secondo dettami primitivi, ma che sembrano talvolta possedere il segreto di una grande serenità. A questo proposito scrive: “Sarebbe facile pensare che quanti di loro hanno conosciuto gli agi della vita cittadina desiderino riprodurli in qualche modo quando tornano alle loro montagne, ma non è affatto vero. Tornano e vivono esattamente come hanno vissuto duemila anni prima. La forza dell’ambiente primitivo è troppo grande e quelle amenità non fanno parte delle cose che sono indispensabili alla vita dell’essere umano, mentre lo sono invece la libertà la religione il dominio e l’ozio”.
Ricercatrice di testimonianze del passato in mezzo alle devastazioni della civiltà moderna come la definisce Cino Boccazzi ne La via dell’incenso, capace di ascoltare ogni cosa perché “ogni cosa parla lungo la via” e di raccogliere elementi per un suo puzzle mentale perché “indizio dopo indizio tutto il passato rivive, rovine, città sepolte sotto enormi dune, graffiti su rocce”, riusciva a vedere “l’avventuroso nel quotidiano e il quotidiano nell’avventuroso”. Ma ciò che accompagna la Stark nei suoi viaggi è soprattutto un solido bagaglio culturale che le consente di vedere nei deserti del Luristan, o tra le gole e le montagne i fantasmi delle civiltà che si sono succedute nei secoli, dal lontano tempo di Dario. “Nel mezzo delle devastazioni della civiltà il Luristan è ancora un paese incantato” scrive la Stark, e noi, pensando alle violenze di cui sono stati testimoni queste regioni negli ultimi decenni, ci soffermiamo con piacere a pensare a un mondo meno angosciante di quello che scorre sui nostri teleschermi. Lo scopo della Stark non è tanto la ricerca di un tesori nascosti, anche se per una buona parte del libro si parla di ciò, o la conquista del trono di Salomone, irraggiungibile su un’alta montagna, ma la descrizione di civiltà antiche decadute che attestano il loro passaggio nella vicenda umana solo attraverso le rovine o le tombe che giacciono qua e là. Uno straordinario equilibrio si respira nelle sue pagine, dove l’amore per la sfida si alterna all’amore per la conoscenza, e l’interesse per la vita si áncora a quello ancora più grande per la rielaborazione della stessa in un’opera che abbia il sapore dell’arte.

Finocchio selvatico
Finocchio e altre erbe aromatiche profumano l’aria attorno a Piazza Armerina. Visitiamo la villa romana del Casale. Magnifici i mosaici del IV-V secolo a.C. distribuiti in una quarantina di ambienti: terme, peristilio, triclinio, palestre. Ammiriamo le danzatrici, la pesca con amorini, un safari africano, le famose fanciulle in bikini, la lotta dei Giganti. Bypassiamo mandrie di turisti inglesi e tedeschi che in questa stagione splendida si godono il sole mediterraneo.

Fa caldo sotto i teloni messi a protezione dei mosaici. Guardo, e intanto mi lascio permeare dal profumo delle erbe che arrivano dalla campagna. I turisti cicaleggiano. Sembrano molto soddisfatti. All’ora di pranzo troviamo refrigerio in una trattoria che offre tavolini ombreggiati da palme giganti. Ci ammanniscono un delizioso vinello, maccheroncini con olive e melanzane, gnocchetti al finocchio selvatico, agnello alla brace, carciofi e caffè. Si riparte con la macchina a noleggio, per fortuna fornita di aria condizionata. Dopo due orette, Agrigento. Fiori rossi e gialli e, in alto, i templi.

Mandorli
La Valle dei templi si stende su una superficie vastissima. In lontananza si vede il tempio di Giunone circondato da mandorli e mimose. Qua e là fichi d’India e gerani giganti. All’origine i templi erano gialli, poi venivano intonacati e colorati. Noi siamo abituati a immaginare i templi antichi bianchissimi e l’idea di una ridda di colori ci turba lievemente. Vediamo qualche piccolo esempio dei colori originali nel Museo.
Anche i templi di Giove, della Concordia e dei Dioscuri hanno il nostro tributo.

Rosmarino
Il quartiere ellenistico-romano mi piace molto. Bisogna lavorare di fantasia, certo, ma i cardi danno l’idea di passeggiate tranquille, e i mozziconi di mura ci suggeriscono l’idea della vita che pulsava all’interno di case e botteghe. Si può immaginare l’esistenza che vi si svolgeva, soprattutto all’aperto, nei patii o nei giardini, si può scivolare con la mente in un passato per molti aspetti allettante.
Il profumo del rosmarino che cresce spontaneo tra le vecchie mura ci accompagna per un lungo tratto.

Patio con limoni
Agrigento non è una bella città. Deturpata da un’edilizia dissennata. Ci avviamo per le viuzze della parte araba che si arrampicano lungo la collina in direzione del Duomo. A dir la verità in quei vicoletti ci ritroviamo per caso.(E vorremmo uscirne al più presto). Ma non c’è una via di fuga. Bisogna salire gradini e gradoni. Case fantasma. Diroccate. Stradine fatiscenti. Poi, all’improvviso, qualche patio, qualche casa che vive, qualche bel giardino chiuso tra mura, protetto dalla vista di tutti. Minuscole oasi per l’estate, da godere tranquilli tra zampilli d’acqua, fuori dal mondo. “Come si fa a vivere qui?” chiede mio marito. Ma io, che sento in quel momento il profumo di quel minuscolo paradiso, penso che certo si può.

Pini marittimi
Ci sono moltissimi pini marittimi lungo la strada che conduce alla casa natale di Pirandello nel quartiere Kaos di Agrigento. Su una pietra sono incisi i versi dell’autore siciliano: “Una notte di giugnocaddi/come una stella/sotto un pino solitario/in una campagna di olivi saraceni/affacciata agli orli/di un altopiano d’argilla azzurra/sul mar d’Africa”.
Pirandello è uno degli autori che segnano il Novecento. Nasce con lui la consapevolezza di quella che potremmo definire la tragedia della parola. “Ma se è qui tutto il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, si­gnore, se nelle parole che io dico metto il senso ed il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, nel mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”
Non è più la parola “alata”, la parola che passa da una bocca all’altra, messaggera imprecisa, ma pur sempre attendibile, messaggera parziale, ma pur importante, perché capace di veicolare contenuti significativi e farsi portavoce dei sentimenti e dalla razionalità umana.
L’uomo nel primo Novecento, attraverso la sensibilità di scrittori capaci di anticipare quelle che sarebbero state le linee guida di un’epoca, abbandona la percezione di sé che aveva nel passato, la psicanalisi attinge i più oscuri strati del suo essere, la filosofia lo concepisce come una monade magmatica a cui la realtà nella sua essenza sfugge. L’arte esprime l’alienazione l’impotenza la solitudine, che le parole o i gesti degli altri non possono infrangere in modo significativo.
Questo senso di tragica solitudine e di rassegnata consapevolezza nei confronti di un destino di incomunicabilità assoluta percorre tutto il Novecento. La parola si frantuma, si sfaccetta, si presenta in una realtà poliedrica e variegata che non lascia sicurezze, non concede facili approdi; non veicola più miti condivisi, perde ogni sacralità, non è il luogo deputato per la ricerca della verità, come nella solidale sapienza antica che si costruiva sull’oralità, tra un maestro e i suoi discepoli che, attraverso la parola, ponevano come fine comune l’approdo a una nuova verità.
Come suona lontano il mondo di Platone con i discepoli che si stringevano accanto al maestro e percorrevano con lui maratone di parole a caccia della verità. Da allora sono passati più di due millenni, e molte civiltà si sono succedute nella lettura della realtà e diversi significati sono stati dati alla possibilità di veicolare contenuti personali o universali attraverso la parola. Ma il secolo che si è appena concluso rimane unico nella sua implacabile e parossistica distruzione del significato e del valore della comunicazione. Certo, dobbiamo però ammettere che è stato anche unico per gli esiti che questo approfondimento comporta. La parola è sì divenuta inattendibile, ma veicola nuovi contenuti, affonda nell’inconscio dell’uomo, ne estrae un magma indistinto e ancora palpitante, dà voce all’universo femminile che fino allora non aveva ancora potuto esprimere se non in modo episodico una propria identità, le classi egemoni lasciano spazio ad altre classi, portatrici di altri valori e di una sensibilità diversa.
“Ah come è difficile trovare una traccia divina in mezzo alla vita che facciamo, in que­sto tempo così soddisfatto, così borghese, così privo di spirito, alla vista di quest’architettura, di que­sti negozi, di questa politica, di questi uomini! Come potrei non essere un lupo della steppa, un sordido ana­coreta in un mondo del quale non condivido alcuna meta, delle cui gioie non vi è alcuna che mi arriva” esclama il protagonista de Il lupo della steppa di Hesse, mettendo bene in luce le inquietudini della borghesia di inizio secolo. L’intellettuale dell’inizio Novecento è un intellettuale contro, la società gli appare ostile, una prigione che impastoia, una società con cui venire a patti, ma sempre sentendosene profondamente estranei e nutrendo la consapevolezza che è, come afferma Svevo, inquinata alle radici. Lo scrittore si chiede che cosa fare delle parole che veicolano così poco del suo autentico mondo e sono destinate a cozzare contro una realtà in qualche modo ostile. L’io non trova rispondenza in ciò che lo circonda e questa frattura individuo/società connota profondamente l’arte. La comunicazione diventa delirio di non comunicazione, le parole sono volutamente insensate e gridano il messaggio negativo del nulla. Da un lato non possiamo disconosce che questa negatività ha in sé anche qualche connotazione positiva: la parola dilaga, ci assorda da radio e televisione, che sempre di più colonizzano case e menti, le dinamiche economiche hanno il sopravvento. Il silenzio stesso e la lallazione possono essere una risposta, una provocazione. Ma affermare il nulla, alla lunga, mi sembra potenzialmente improduttivo. Certo, il mondo che abbiamo dinanzi è per certi aspetti inquietante. Troppo complesso forse, ed è questa la ragione per cui gli intellettuali spesso si rifugiano in comode nicchie senza compromettersi con interpretazioni della realtà. Non sono solo gli scenari inquietanti della politica e dell’economia internazionale, il declino delle ideologie, l’imporsi di un’industria culturale che spingono a questo. La società crea disagio all’intellettuale, in essa non si riconosce, e dunque vi si allontana prendendone le distanze con una tendenza apocalittica che accomuna scrittori di tendenze diverse. Ne deriva in ultima analisi un’assenza di impegno positivo, e il rifugio in una condanna troppo generalizzata per colpire davvero.

I dintorni, a cominciare da Porto Empedocle, fanno paura. Quartieri fatiscenti, case non finite, rimaste lì a deturpare il paesaggio, svincoli enormi rimasti anch’essi interrotti… Quanto spreco di denaro pubblico!
Questo spettacolo si ripete mille altre volte, in particolare nella Sicilia del Sud, intorno a Gela e Ragusa.

Papaveri e papiri
I papaveri abbondano tra le mura diroccate del Castello di Eurialo da dove si vede dall’alto Siracusa. Si mescolano al giallo delle margherite. Il panorama è vasto e bellissimo. In lontananza riusciamo a scorgere l’Etna.
Scendiamo a Siracusa e posteggiamo vicino a un immenso limoneto da cui qualche turista raccoglie limoni di cui succhia poi gli spicchi mentre si avvia alla zona archeologica. Visitiamo il teatro, le Latomie, l’orecchio di Dionisio, e infine, in un’altra parte della città, l’isola Ortigia con la fonte Aretusa. Nell’acqua crescono papiri e persino una palma. .

Dune e mimose
Siamo a Gela, nel profondo Sud. Di fronte l’Africa. Ma il paesaggio di dune sabbiose mi ricorda, non so perché, l’Atlantico. Sarà il mare mosso, o il vento forte che mi costringe a infilare un maglione, ma mi sembra d’essere in Olanda (lo so, è assurdo, in Olanda non ci sono le mimose e neanche le case abusive).
Si susseguono dune sabbiose, coperte di vegetazione bassa, a cespuglio. Abbondano le case abusive rimaste a metà, con il ventre aperto e lo scheletro parzialmente in vista, gli svincoli interrotti, le megaopere non completate.

Aranci, arance, e zagare
Ritorniamo a Taormina. Ci vado soprattutto per risentire un profumo che da un cortiletto mi aveva conquistata qualche giorno prima. Ma la pioggia deve aver lavato via il suo profumo. (E io che avrei passato là tutta la vita!)
Mi consolo in un aranceto un po’ più in là dove gli alberi sono al contempo fioriti e con i frutti. Un profumo inebriante, esaltato dalla pioggia.
(La vita è sempre così. Imprevedibile. Bisogna prendere quello che offre, non cercare quello che immaginavamo).
Ci fermiamo in un ristorantino di pesce. Clientela nordica. Camerieri che si industriano, a dir la verità molto bene, a farsi benvolere dai turisti d’oltralpe nonostante si esprimano in un inglese ostrogoto. I turisti rimangono affascinati ed entusiasti. Molti si fanno fotografare. Scambiano battute e ridono. A metà di un’ordinazione il cameriere deve uscire di corsa per mettere in salvo dai denti di un gatto il pesce esposto. Gli inglesi si sbellicano dalle risate.
Taormina, la sera, è bellissima. Le luci accese, la vegetazione che si inerpica sui pendii, la terrazza panoramica. E ancora profumo di zagare…

Limoni e faraglioni
Aci Reale, Aci Trezza; Aci Castello. I Malavoglia. Ristorante “Ai Malavoglia”. Ancora pesce. Freschissimo. Un’altra caponatina. E verdure fritte. La cassata siciliana? (ottima, ma non vorrei poi dover cambiare il guardaroba!)
I faraglioni si stagliano netti davanti a noi. Rocce vulcaniche scure.

Un volo nella notte ci riporta a casa. Avrei voluto vedere l’Etna, ma il cielo è coperto. Diventa sereno man mano che saliamo. Sotto di noi vediamo nitida la penisola Sorrentina, poi la città di Napoli. Traversiamo la dorsale appenninica e arriviamo sopra Pescara. Un po’ di turbolenze e già, velocissimi, siamo in vista di Venezia.

marzo 2001