Da: L’amore secondo Francesca

(pp. 139-142)

Il maschio Kinder bueno

Supermercato di Trieste. Carrelli metallici sfrecciano. Lì s’incontrano anime che vagano per approvvigionarsi di tutto il superfluo necessario per vivere. Le mani si allungano sugli scaffali in una spasmodica e compulsiva ricerca. Dovunque cibo inodore. Ah! la vita dei souk con i suoi afrori, pensa Francesca correndo dietro al suo carrello. E sfreccia in mezzo a spolverate casalinghe o a single in cerca di affettati e precotti. Dovrei telefonare a Monica. Le racconto che sono di partenza. Il problema di trovare yogurt e latticini per un po’ assorbe la sua mente. In molti s’affollano nella zona frigo. Le mani si incrociano. – Lo prenda lei. – D’accordo. Mannaggia, era l’ultima confezione di latte fresco. La ricerca prosegue, e ogni tanto si riaffaccia nella mente di Francesca l’idea di prendere il telefonino e di cercare l’amica. Ma improvvisamente Monica si materializza davanti a lei. Appare come dipinta in uno specchio. Le lunghe gambe, i capelli tiziano, il pull sempre un po’ troppo scollato. Francesca non le somiglia affatto. Bionda. Piccolina. Sembra fatta d’aria. Anche Monica ha il suo carrello pieno di birre e di surgelati. È un classico del venerdì sera.
– Stavo per telefonarti, dice Francesca mentre continuano a sfrecciare per il supermercato. Carrelli a prua e loro, dietro, a chiacchierare. – Sono quasi di partenza, aggiunge e le racconta della Patagonia. Faremo uno studio su guanaco, ouraka, tero-tero.
Davanti alla macelleria e ai poveri animali squartellati Francesca si ferma per fare la solita tirata a favore delle galline infelicissime, costrette a una vita contraria ai loro desideri, che sono semplici: un po’ di spazio, terreno per razzolarci su e un mangime adatto. Pochi desideri, eppure inappagati! Ed ecco dunque la loro vendetta: uova e carne che valgono pochissimo. Garanzia di pessima salute per noi che le mangiamo. Per non dire dei poveri maiali! Continua a parlare mentre prende in mano e osserva le confezioni, poi chiede voltandosi verso Monica: – Hai notizie di Giulio?

Monica: – Sì. È a Trieste. Voleva telefonarti.
Francesca: – Ah, bene.
Monica: – Non capisco cosa cerchi da lui.
Francesca: – Dovrei cercare qualcosa?
Monica: – Ognuno è alla ricerca di qualcosa.
Francesca ride. Di solito Monica non è così sentenziosa. Che cosa cercava? Davvero non lo sapeva neanche lei. Risponde stando allo scherzo: – Cosa cerco? L’amore secondo Francesca.
Monica: – E che cosa sarebbe?
Francesca: – Secondo me i maschietti non sanno fare l’amore. Non rispettano i tempi. Forse gli orientali sono degli amanti migliori.
Monica: – Gli orientali?
Francesca: – Dicono che gli orientali sanno aspettare. Gli indiani, ad esempio, quando sposano una ragazza aspettano giorni prima di fare l’amore.
Monica: – Si tratta di bambine inesperte. Non mi risulta che tu sia vergine.
Francesca ride e mette nel carrello due confezioni di tonno: – Mio marito qualche volta ritorna dopo mesi. Sarebbe bene ricominciare tutto daccapo. Come se ci fossimo appena conosciuti.
Monica: – È un’idea strana. Ma tu gliel’hai mai chiesto?
Francesca: – Non credo che mi ascolterebbe. Lui va sempre di fretta. E poi arriva e riparte.
Un’orda di famigliole corredate di pargoli passa vicino vociando.
Monica riprende: – Ma Giulio cosa c’entra?
Francesca: – Mi sembra che potrei educarlo. In fondo sono già passati tre mesi e non abbiamo ancora fatto l’amore.
Monica: – Giuro che non ti capisco. Cosa vorresti insegnare a Giulio?
Francesca: – Te l’ho detto, vorrei insegnargli altri ritmi.
Monica (facendo posto nel carrello per aggiungere delle bottiglie): – Mi sa che tu non conosci gli uomini. Sai il mio giudizio su di lui? Ti racconterò la storia del maschio “Kinder bueno”. Prende in mano una merendina da un asettico scaffale e comincia a pontificare: Hai presente la pubblicità della Ferrero? (Qualcuno si ferma a guardarla). Lei continua imperterrita: La Ferrero non potrebbe sostenere che lo snack in questione non fa ingrassare. È infatti egregiamente e cospicuamente calorico, più o meno come una pastasciutta. Allora che cosa fa? Lo fa supporre. Fa sì che siamo noi a trarne le conclusioni. Se una dice: non voglio ingrassare, prenderò solo un Kinder bueno, è chiaro quel che noi ne deduciamo. (Una signora un po’ grassoccia annuisce compiaciuta e butta via dal carrello quattro o cinque barattoli di marmellata). Intanto Monica prosegue: Il maschio Kinder bueno che cosa fa? (La signora oversize, in evidente imbarazzo, si allontana). Francesca ride mentre Monica continua: Non dice, ma fa supporre. Lui non racconta bugie. Sei tu che hai fatto le tue illazioni. Sei tu che hai tirato delle somme improprie. Lui non intendeva. O intendeva, ma. Cosa fare nel caso? Mangiare ugualmente lo snack truffaldino? (Se piace…) Buttarlo via e preferire una più ecologica pastasciutta? Anche se lo scuoti o lo scotenni comunque lui non ammetterà. Tu sei cattiva. E lui è bueno.
Francesca ride: – Pensi davvero così male degli uomini?
– E tu?
– No. Io penso che dovrebbero essere un po’ educati.
– Vorresti educare Giulio?
– Non lo so. Dici che è un’impresa?
– Secondo me disperata.

(omissis)

(pp. 145-152)

Allegretto andante per trio

Giulio suona e aspetta davanti al portone della casa di Monica.
Monica scende (vestito iperscollato, tacchi alti, una gonna lunga con uno spacco sul fianco. Sopra, una mantellina striminzita per sfidare le brume di novembre).
– Sempre sobria, tu.
– Non ti piace il mio look?
– Mi piace. Qualche volta mi piace anche troppo. Ma oggi non dobbiamo andare da Francesca?
Monica ride e gli fa strada.

Arrivano. Campanello che suona. Ricampanello. Monica cerca in un’enorme borsetta le chiavi, al solito introvabili. Finalmente arriva Francesca. Indossa una lunga camicetta di foggia maschile, bianca, con tanti bottoncini. Mentre si muove, lascia intravedere il suo corpo sottile. Si pulisce le mani usando uno strofinaccio tirolese e li fa entrare. – Ero alle prese con un pesce, dice e li precede nella cucina. Devo fare un po’ di pulizia nel frigo, prima della partenza. Il pesce, eccolo qua (e mette in forno un enorme scorfano) lo dobbiamo per forza mangiare, la verdura anche. Giulio, mi aiuteresti a tagliare i pomodori? E tu, Monica, metti su una pastasciutta.
– Non ci hai neanche chiesto se avevamo altri progetti.
– Avevate altri progetti?
– Forse.
– Intanto aiutatemi ad apparecchiare!
Rumore di piatti e di mascelle. Pasta al peperoncino. Scorfano e patatine autogestiti in un forno molto compiacente ed estremamente collaborativo. Cruditées sottilmente affettate.
– Francesca, sei un po’ troppo frugale come gusti alimentari. A noi piace la libidine gastronomica, commenta Giulio.
– Ognuno ha i suoi gusti. E poi si trattava anche di spazzolar via i resti dal frigo. Domani parto.
– Sì, me l’ha detto Monica. Ma tu pensa! Passiamo assieme tutta la serata, sembra persino che stia per giungere il gran momento e tu mi lasci nella notte da solo e non mi dici neppure che sei di partenza.
– Te l’avrei raccontato oggi. Oggi poteva essere un giorno significativo. A dire il vero pensavo che saresti venuto da solo.
– È il mio destino, fa Giulio passandole a pelo. Tutte le cose mi sfuggono. Come foglie secche d’autunno mi girano attorno. Volteggiano e io non riesco ad afferrarle.
Monica ride. Francesca invece bofonchia: – Il solito letterato. Tutto per te diventa parola. Compiaciuto godimento orosemantico.

Giulio è un uomo di quarant’anni che lavora in una ditta di import-export a Verona. Ha la passione di scrivere. In un’Italia dove tutti sono scrittori, anche lui lo è. Ma Giulio è un letterato fino al midollo. Uno disposto persino a usare la vita per trovare spunti per scrivere. Uno che non riesce ad amare che le sue parole. È fatto così. Orbene, uno scrittore potrebbe anche piacere. Essere attraente per le donne. Ma non per donne come Francesca e Monica. Sono troppo smaliziate per cadere vittime della fascinazione affabulatoria. Francesca poi è alla ricerca di qualcosa che le sembra mille miglia lontano dalla parola. Di qualcosa di autentico. Però si è innamorata di Giulio.

Monica si alza e comincia ad ammassare a terra dei cuscini. Si toglie le scarpe commentando: – Non ho potuto resistere quando le ho viste in vetrina, ma sono di una scomodità incredibile. Si sdraia a terra. Francesca si siede anche lei vicino e si appoggia al dorso di una poltrona. Giulio si stende nel mezzo. Francesca comincia a carezzargli le spalle e il collo.
– Che godimento, cinguetta Giulio. Mi ci voleva proprio questo massaggio.
Francesca prosegue baciandogli il lobo di un orecchio, poi continua lungo la linea del collo mentre le mani scendono sul dorso. Giulio intanto declama: – Ce ne stavamo seduti ieri a mangiare e a lanciarci languidi sguardi mentre il cameriere ci girava intorno, zelante, oh quanto zelante! e ci avvinghiava con nuovi piatti, con coppe e bicchieri decisamente inutili e sovrabbondanti, finché la musica che ci stordiva ci indusse a dire basta e a cercare un’uscita che ci mettesse in strada, che ci avviasse a quello che doveva essere l’esito inevitabile e ovvio della serata.
– Ma è la nostra serata di ieri, esclama Francesca. Farabutto. Ti sei scippato la serata e ne hai fatto parole.
– Quello che so fare.
– Parole. Quando la vita è, niente. Prenderne le distanze. Poi, quando si dissecca, quando la puoi impagliare, quando la puoi configgere con uno spillo, come una farfalla, e spiaccicarla sul muro, e così conservarla e guardarla, allora sì, anche la vita ti va bene.
Giulio si alza e si mette a girare per la stanza, poi esclama sconsolato rivolto a una finestra: – Non è sempre facile vivere.
Francesca si alza anche lei e lo segue incalzando: – Ed essere se stessi.
Giulio: – E non farsi del male.
Francesca: – E rischiare di dire le proprie parole. E smettere di recitare un copione vuoto. Un vuoto guscio d’esistenza.
Giulio: – Il solo che io sappia indossare.
Francesca: – Il solo che tu voglia indossare.
Si guardano muti per un attimo come due attori che, finite le battute del copione, non abbiano più niente da aggiungere.
Devi sapere, caro lettore, che disquisizioni di questo tipo non erano infrequenti tra loro. E non approdavano quasi mai a nulla. Francesca rimaneva sempre delusa. Le sembrava che Giulio sfuggisse a qualsiasi confronto. Ed effettivamente era così. Giulio non gradiva quei discorsi. Anche adesso infatti si rifugia provocatoriamente vicino a Monica e, mentre Francesca continua a chiedersi perché non riescano a comunicare, lui ridendo sta dicendo all’amica: – Poche volte ho goduto di un panorama così bello! Adoro le scollature molto profonde. E anche quello che c’è sotto. Seni enormi, da perdercisi dentro. Come un bambino che succhia il latte.
Francesca si avvicina. Si sdraia sui cuscini e comincia ad accarezzare i capelli di Giulio. Lo guarda e commenta perplessa: – Ma non dicevi che ti piacevano i miei seni piccoli e sodi, che ti piacevano le camicette accollate da sbottonare piano piano? Allora raccontavi bugie?
– Non ho mai detto bugie. Mi piacciono queste e quelle. Che colpa ho io se tutte le donne sono diverse? Se ce ne fossero di un solo tipo me ne basterebbe una sola. Così invece sono nell’imbarazzo.
Francesca scuote il capo e si alza perplessa:– Quando devo partire sono sempre preoccupata. Vado a vedere cos’ho dimenticato. D’altronde sembra che non abbiate bisogno di me.

Nella sua stanza fruga tra le cose che ha già sistemato. Intanto arriva Giulio e si appoggia allo stipite della porta. In silenzio la guarda armeggiare nella valigia, poi commenta: – Dunque domani parti!
– È il lavoro, farfuglia Francesca laconica, senza sollevare la testa.
Giulio gira qua e là per la stanza poi, passandosi una mano tra i capelli, prosegue con un certo imbarazzo: – Ieri sera ho perso un’occasione?
Francesca non gli risparmia un gelido: – Se è per questo anche oggi.
Giulio insiste: – Un’occasione che può non ripetersi?
Francesca sorride: – Questo non lo so.
Giulio la guarda: – Mi è difficile capire le condizioni che poni.
– Io non pongo condizioni.
– E invece ho la sensazione che tu le ponga. Ho questa sensazione. E mi preoccupo. Mi sento inadeguato.
– Inadeguato? Forse. Tu vuoi solo le cose più semplici. E ti proteggi con le parole. Spogli le cose della loro vita perché solo così le riesci ad afferrare. Un uccello impagliato. Una farfalla trafitta. La notte dell’inautentico.
– Francesca, che idee hai di me!
Entrambi, lanciati in un inesorabile botta e riposta, continuano a fiorettarsi con le parole.
Francesca: – No, voglio dirti quello che penso. I colori del giorno ti acciecano. Stringi tra le mani luce e ne fai tenebra. Stringi tra le mani cose e ne fai spezzoni di teatralità. Sei fatto di parole e di celluloide.
Giulio: – Francesca, non sei gentile!
Francesca: – La gentilezza non ha mai fatto bene alla salute. Lasciami dire. Noi parliamo lingue diverse. Se anche ci avvicinassimo sarebbe come avvicinare due stelle di qualche chilometro. Resterebbe sempre una distanza di anni luce.
Giulio: – Ti dev’essere restato sullo stomaco il peperoncino.
Francesca: – Vorrei cambiarti ma non posso. Nessuno riesce a cambiare nessuno.
Giulio: – Quali sono le tue condizioni?
Francesca: – Non credo tu sia ancora maturo.
Giulio: – Maturo non sarò mai, casomai marcio.
Francesca: – Potresti trovare strade nuove.
Giulio: – Gli spazi iperurani mi spaventano. Sono un terrestre. Diciamo che è la mia dimensione.
Francesca: – Ci sono anche altre dimensioni. Se restituiamo i colori alla realtà, se ci mettiamo nudi… Le cose migliori si fanno quando si è nudi nel corpo e nell’anima.
Giulio: – Nudi si è indifesi. Non sono sicuro che la mia anima ti piaccia.
– Hai paura? chiede (e afferma) la voce di Francesca alle sue spalle.
Giulio continua a contemplare il buio al di là della finestra, poi sussurra: – Forse. Nella vita le cose sfuggono sempre.
– Nella vita cominci e non sai dove vai a finire. È la vita che sfugge di mano.
È il massimo che Francesca abbia mai ammesso. Sorride, e riprende a trafficare con la sua valigia.

La stanza di Francesca è grande e luminosa. Due ampie finestre con tendine ricamate la fanno somigliare alle stanze del Nord assetate di luce. Un letto e un divano completano l’arredamento. A terra una gran quantità di tappeti e cuscini. Francesca passa dalla stanza all’attiguo guardaroba selezionando gli indumenti e fermandosi ogni tanto pensierosa.
Sulla porta Giulio continua a osservarla senza parlare. Lei lo guarda e gli si avvicina carezzandolo. – Quand’ero piccola avevo un orsacchiotto che si chiamava come te. L’orsacchiotto Giulio. Era il mio preferito.

Giulio: – E cosa facevi con l’orsacchiotto Giulio?
Francesca: – Niente. Dormiva vicino a me. Di solito.
Giulio: – Perché di solito?
Francesca: – Talvolta prendevo altri orsacchiotti.
Giulio: – E l’orsacchiotto Giulio?
Francesca: – Lo facevo sedere vicino alla finestra. Però tra tutti gli orsacchiotti era il mio preferito. L’unico a cui non ho tolto mai la testa per vedere che cosa c’era dentro.
Giulio: – Perché, avevi quest’abitudine?
Francesca: – Sì, mi piaceva vedere cosa c’era dentro le bambole o negli orsacchiotti. Ho sempre avuto una particolare inclinazione per la conoscenza.
Giulio: – Anche a costo di rompere i giocattoli?
Francesca: – Anche a costo di rompere, tout court.
Giulio: – Spero di non fare la fine dei tuoi orsacchiotti!
Francesca: – Tu sei l’orsacchiotto Giulio.
Giulio: – Sono lusingato. (Sorride e la aiuta a piegare un maglione).

Francesca esce dalla stanza e raggiunge l’amica: – Ti prego, ho un sonno tremendo. Lasciatemi andare a dormire. Domani non riuscirò a svegliarmi.
– Tuo marito quando ritorna? – chiede Monica.
– Ci vedremo a Kiruna, penso. Adesso è a Buenos Aires per un convegno.
Si avvicinano alla porta. Monica abbraccia l’amica e le raccomanda di lasciare acceso il telefonino. Giulio si infila il soprabito e la abbraccia. La porta si chiude ed escono. Scendono le scale. Monica, rivolta a Giulio, chiede: – E noi adesso che cosa facciamo? Hai voglia di andare al mare?
Decidono di andare a Grado.

(omissis)

(pp. 207-209)

All’improvviso il sole

A pensarci bene la maggior assurdità di queste vite che pretendiamo di vivere è il loro falso contatto. Orbite isolate, ogni tanto due mani che si stringono, cinque minuti di chiacchiere, un giorno alle corse, una notte all’opera, una veglia mortuaria davanti alla quale tutti si sentono un po’ più uniti, ed è vero, ma tutto finisce nel momento della saldatura. E intanto uno vive convinto che gli amici siano lì, che il contatto esista, che gli accordi o i disaccordi siano profondi e duraturi.
Come ci odiamo tutti quanti senza sapere che l’affetto è la forma presente di quest’odio come la ragione di quest’odio profondo è questo decentramento, questo spazio incolmabile tra te e me, tra questo e quello. Ogni affetto è un colpo d’artiglio ontologico, un tentativo di appropriarsi dell’inappropriabile.

da “Il gioco del mondo” di Cortazar

Temporale, quella notte, a Marostica. Lampi e fulmini. Sandro affacciato alla finestra rimane a lungo a guardare. Le luci vanno e vengono in una danza spettrale. La sigaretta in bocca, un bicchiere mezzo vuoto nella mano, Sandro pensa a una vita arrischiata, a un’esistenza in cui l’emozione faccia da padrona. Non così nella sua vita. La routine è la condizione naturale, la noia il pane quotidiano; la suspense la trova solo nell’artificiale. Emozioni virtuali, scariche di adrenalina che una pellicola sopra le righe gli elargisce, per lasciarlo poi al quieto passare senza sussulti del tempo, al lento traghettarsi per un cammino senza curve e imprevisti.
La notte trascorre così. Anche Zark soprassiede ai suoi eccessi e si acciambella sotto il tavolo. Sandro decide di mettere una coperta in più sul suo letto, perché nella sua casetta il freddo di fine dicembre comincia a pungere per davvero.
Nella tarda mattinata un sole stupendo riesce infine a bucare la fitta coltre di nuvole e promette per un po’ bel tempo. Un suono di clacson, insistente, allegro, eccessivo. Sandro si affaccia alla porta. L’aria è fredda e perfettamente nitida, lavata dal temporale della notte. Davanti a lui la BMV metallizzata di Monica.
– Dove la posso parcheggiare? grida Monica aprendo la portiera e facendo vedere un ampio tratto di gambe sbucate tra la pelliccia aperta e una minuscola gonna di pelle.
– In una cassaforte, fa Sandro avvicinandosi all’automobile. Ma perché non sei venuta in moto?
– Con questo freddo? E poi l’automobile ci potrà servire.
Sandro prende il bagaglio di Monica e le fa strada. – Ti dovrai accontentare, Monica. Questo non è il tuo appartamento.
Monica entra e comincia a guardarsi in giro. – È una casa graziosissima. Piccola ma deliziosa. E quante piante! Adoro le piante grasse.
Sandro un po’ impacciato fa gli onori di casa e in cuor suo vorrebbe che la sua casetta fosse molto più grande e più bella per accogliere lo splendido sorriso che Monica gli sta elargendo.
Monica intanto s’è seduta sulla poltrona, s’è tolta la pelliccia, rimanendo con un piccolo cardigan rosso allacciato in vita e la sua microgonna nera.
– Avrai freddo, sentenzia Sandro.
– Mi cambierò più tardi, soprassiede Monica, prima vorrei riposarmi un po’. Calcia le scarpe, si rannicchia, accarezza il gatto che si è avvicinato in perlustrazione, chiede a Sandro di prepararle del tè. – Hai pensato a dove si potrebbe andare? chiede poi.
– No, risponde Sandro dalla cucina.
– Vista la stagione, direi le Maldive, che te ne pare? In agenzia mi trovano di sicuro un pacchetto anche all’ultimo minuto, e per di più scontatissimo.
– Non se ne parla nemmeno, fa Sandro deciso. Se devo essere sincero, l’idea di prendere un aereo e di catapultarmi in un mondo diverso mi angoscia.
– Davvero?
– Ti dirò di più, continua Sandro incoraggiato dal trovare Monica stranamente comprensiva. Intanto sono un professore squattrinato, e poi, quando mi hai parlato di un viaggio, non ti ho detto di no, ma in cuor mio speravo che ti fermassi a casa mia.
– Ma perché? Il mondo è bellissimo.
– Proprio per questo. È troppo bello. Mi farebbe del male. Troppa luce, troppi colori. A me basta poco per essere felice.
– E sei felice?
– Uno può essere definito felice solo alla fine della sua vita, dicevano gli antichi. Nell’attesa però, adesso che ti vedo, mi sembra di avvicinarmi abbastanza a quella condizione.
– Sono contenta di farti quest’effetto, Sandro.
Sandro con le tazze di tè in mano e due fette di torta si avvicina. Si ferma per qualche istante impacciato, non sapendo dove mettere il tutto, ma Monica interviene pronta, prendendogli di mano le tazze e appoggiandole su un piccolo tavolino d’angolo. Sandro si accoccola sul tappeto vicino alle gambe di Monica.
– Ehilà! Che confidenze! Esclama Monica allontanando la mano di Sandro che si sta inerpicando come per caso sulle sue gambe.
– Pensavo che dopo quella volta…
– Quale volta? chiede Monica. Non mi ricordo.
– A San Floriano, continua ingenuamente Sandro.
– Perché, è successo qualcosa a San Floriano? Non ricordo che sia successo nulla di significativo.