(pp. 38 -41)
– Passavo di qui, – disse Sandra entrando.- Ti ho portato un po’ di ratatouille.
– Cosa farei senza di te? È fuor di dubbio che sono l’ex più viziato del mondo, sorrise Charles facendole strada nell’appartamento.
Sandra si fermò davanti alla grande vetrata e guardò giù: – Hai una vista stupenda!
Charles: – La casa che avevamo assieme era meglio.
Sandra: – Questo è un rifugio di scapolo che ti invidio.
Charles: – Non sono uno scapolo. Sono un mammo. Ho un ragazzino di diciassette anni di cui occuparmi. Ti pare poco? Sono io che invidio la tua condizione.
Sandra: – Ti sembro così felice?
Charles: – Hai un marito, una famiglia.
Sandra: – E un figlio di due anni… Non sai quanto dia da fare!
Charles (triste): – Un marito forse migliore di me.
Sandra (ridendo): – Non è detto.
Charles (alzando lo sguardo): – Ero migliore io?
Sandra (pensierosa): – Non so. Con te era diverso. Con te ho fatto l’amore nella mente prima di tutto. Ho amato l’idea che m’ero fatta di te. Talvolta è così: ci innamoriamo di un’idea e non la vogliamo lasciare, anche se la persona non le corrisponde.
Charles: – Non è colpa mia. Non ho fatto nulla per mimetizzarmi. Penso di essere sempre stato sincero.
Sandra: – Secondo me ti camuffavi bene. Ti rendevi amabile. La tua natura era seduttiva.
Charles: – Non potevo farne a meno. Avevo bisogno di qualcuno che mi amasse. Per sopportare il male di vivere non c’è che l’amore…
Sandra (ridendo): – Dovevi stare proprio male! Ti buttavi a pancia in su come un cucciolo…E non si poteva non amarti. Poi veniva fuori che non eri un cucciolo indifeso, almeno non solo. Era come se in te ci fossero tante persone… ora una, ora l’altra… Perché mi sono innamorata? Mah…forse a un certo punto della vita si ha voglia di innamorarsi, e chiunque si presti… Non è stata abilità la tua. È solo che ne avevo bisogno.
Charles: – Non credo che ti saresti innamorata di chiunque.
Sandra: – Forse no…
Charles: – Non dire così! Non strapparmi una delle mie poche certezze.
Sandra: – Non voglio strapparti nulla.
Charles: – Strappami, strappami!
Sandra: – Che cosa?
Charles: – Magari qualche indumento.
Sandra: – Non scherzare, Charles.
Charles: – Sono anni che non facciamo l’amore! Perché te ne sei andata così in fretta? A un certo punto non ti ho trovata più. Non sono mai riuscito a capire.
Sandra: – Ero arrivata a un punto di sofferenza grande.
Charles: – Come mai non me ne sono accorto?
Sandra: – Ti avrò pur dato qualche segnale…
Charles: – Non l’ho visto.
Sandra: – Non avrai voluto vedere.
Charles: – Ma adesso sei felice?
Sandra: – Sono più tranquilla.
Charles: – E lui sa sedurti?
Sandra: – Non ha bisogno di sedurmi. Lui è. Tu non eri.
Charles: – Che cosa significa?
Sandra: – Tu non esistevi. Ogni volta ti creavi. Ma poi sparivi e io restavo sola. Avrei fatto qualunque cosa per essere con te davvero. E invece avevo sempre la sensazione che ti avrei perduto.
Charles: – E invece ti ho perduto io.
Sandra: – Ci siamo perduti a vicenda.
Charles: – A un certo punto ti ho trovata lontana e distante. Non mi volevi più…
Sandra: – Forse volevo scuoterti.
Charles: – Ma io non capivo.
Sandra: – Volevo che mi desiderassi di più.
Charles: – Io ti desideravo.
Sandra: – Solo che non me lo facevi capire.
Charles: – Non volevo insistere.
Sandra: – Forse in questo hai sbagliato.
Charles: – Dimmi, Sandra, se avessimo avuto un figlio sarebbe stato diverso?
Sandra: – Forse. Ma io ti amavo solo con la mente. Era come se il mio corpo non fosse preparato ad accettarti.
Charles: – Perché?
Sandra: – Non lo so. Non posso spiegati quello che neanch’io riesco a capire.
Charles: – Qualche volta però è stato diverso. Eravamo solo noi. Era come un magico luogo. Niente ci poteva fare del male.
Sandra: – Era bello, ma non capitava spesso.
Charles: – Resti a cena?
Sandra: – Ah, sei buffo! Non c’è niente nel frigo!
Charles: – La tua ratatouille, oppure possiamo cenare al ristorante…
Sandra: – No, devo scappare. Passerò domani e ti porterò qualcos’altro. Come sta Micael?
Charles: – Bene.
Sandra: – Dov’è?
Charles: – Da amici.
Sandra: – Bacialo per me. E tu come stai? Mi sembri un po’ giù.
Charles: – Mi ha telefonato Manuela. È preoccupata.
Sandra: – Perché?
Charles: – Ha ricevuto una strana e-mail da un pazzo. Ho paura che sia in pericolo.
Sandra: – Credi? Non sarà che leggi troppi romanzi?
Charles: – I pazzi che uccidono senza motivo esistono anche nella realtà.
Sandra (uscendo): – Dille di avvertire la polizia.
Charles: – Gliel’ho già consigliato, per quanto…non credo che si sprechino molto.
Sandra: – Non credere…
Charles: – Grazie di tutto, ti senti sempre un po’…
Sandra: – Come la tua mamma… Non posso sopportare l’idea che ti trascuri.
La porta chiusa dietro al profumo di Sandra lasciò Charles nel più grande vuoto mentale. Era stata troppo breve la sua presenza. Troppo poco gli aveva dato. Sempre gli aveva dato troppo poco. Anche negli anni del loro matrimonio. Era come se non fosse riuscito mai a possederla.
(omissis)
( pp. 49 – 51)
– Ah, sei tu! fece Monique meravigliata, aprendo la porta del suo negozio a Charles. Charles infilò di sbieco il suo grande corpo tra porcellane e oggettistica varia e le sorrise.
– Che piccolo questo negozio! – commentò.
– Non ci sono spazi a Vence, anche un buchino così costa una fortuna, – commentò Monique. E aggiunse: – Sono contenta di vederti. Come mai da queste parti?
– Avevo voglia di chiacchierare con te.
– Notizie di Jean-Claude?
A dir il vero non sapeva neanche lei se desiderava sentire qualche notizia, o se preferiva in qualche modo rimuovere un pensiero che, se richiamato alla mente, le causava un acuto dolore.
– Non ho ancora nessuna notizia, – rispose Charles.
– Sono un po’ giù…
– Io sono uno specialista nell’esser giù!
Monique rise e lo guardò interrogativa.
– Ti riassumo la mia vita, se vuoi. Lavoricchio come giornalista mal pagato ad Antibes, scrivo libri destinati a rimanere nel mio pc, passo il tempo a pensare che la mia vita è la quintessenza del fallimento. Ho avuto una moglie che mi ha lasciato per oscuri motivi. Ho una cara amica che non viene a vivere con me per rispettare la nostra libertà e… dato recentissimo… mi sono innamorato di una donna che ama solo la danza…
– Piuttosto solo, direi…
– Solo no… ho molti amici, e poi faccio il mammo…
– Hai un figlio?
– Non proprio. Vive con me il figlio diciassettenne di una donna di colore che era la governante di mia madre.
– È faticoso occuparsi da soli di un ragazzino?
– No, anzi è bellissimo…salvo che…talvolta mi parla in una lingua che mi risulta incomprensibile … chiede autonomia ma anche attenzione…sembra adulto, e in un certo senso lo è, ma qualche volta fa tenerezza come un bambino, poi però all’improvviso diventa ruvido e si chiude a riccio…
Monique rise. – Raccontami invece di te, – la incoraggiò Charles.
Monique tamburellò con le dita: – Ho una vita normalissima. Due figlie un marito un lavoro… Sono sempre vissuta a Vence. Jean-Claude è stata l’unica follia della mia vita. Per questo mi manca… Tu che lo conosci da anni, cosa pensi di lui?
Charles rimase per un po’ in silenzio. Era difficile definire Jean-Claude. Erano tante le sue contraddizioni. Ci provo, pensò. – È una persona in un certo senso indifesa. Ha dentro qualcosa di candido, di infantile e quindi anche di feroce. Sa fare del male con la stessa indifferenza con cui lo fanno i bambini. Si crede il centro dell’universo…
– Detti così sembrano più difetti che pregi…
– Non sono difetti in lui. Ti viene da considerarli normali. Come le sue fughe …
Monique lo guardò meravigliata : – È abituato a sparire?
– Sì. Ricordo, anni fa…
Monique accostò una piccolissima panca e gli sedette vicino: – Sai, Charles, conoscerlo per me è stata un’esperienza esaltante. E allo stesso tempo anche terribile… (Rimase in silenzio per qualche istante e pensò: Assieme a lui ho scoperto zone della mia anima che mi erano ignote. Per questo lo ho amato, per avermi aperto dei mondi che mi erano sconosciuti. Per avermi consentito di gettare uno sguardo sulle mie vertigini…) Era come se una parte di me che non conoscevo affiorasse… era come se mi scoprissi a me stessa…Quello che scoprivo non era solo bene… c’erano anche lati oscuri… aspetti che avrei voluto rinnegare, eppure mi sembrava che solo approfondendoli avrei avuto qualche frammento in più di conoscenza e che, per averlo, valeva la pena di affrontare qualsiasi sacrificio e dolore. (Sorrise quasi svegliandosi da un’ipnosi). Scusa, a te tutto questo dirà poco, probabilmente…
– Una persona speciale qualche effetto lo produce sempre, – commentò Charles.
Monique lo guardò: era alto e abbastanza robusto, le lunghe mani appoggiate alle cosce e i capelli un po’ scompigliati. – Sei una persona simpatica. Mi piace chiacchierare con te. E poi sembri così allegro…
– Te l’ho detto, non è che me la passi benissimo. Anzi. Ho una storia che non decolla…
(omissis)
(pp. 83-85)
Le cime dei monti aguzze come pinnacoli, l’aria che arrivava di sera… Se le ricordava, André, quelle estati nei campeggi di montagna… Luce, luce… tanta luce. Certo, era luglio. Giornate lunghissime. Tende, picchetti, sacchi a pelo stesi al sole. E sua madre che gli metteva davanti la colazione pane burro marmellata muesli dolci di mandorla. E lui che non voleva mangiare. – Sei troppo magro, André, diceva sua madre.
Sua madre… Avrebbe avuto anche lui le sue madeleines alla Proust… Ma non sarebbe stato capace di raccontarle così bene. Pazienza! Forse il sole, quel sole eccessivo di quelle estati in montagna, lo aveva spinto per il resto della sua vita ad amare i luoghi bui.
Un albero rovesciato, con le radici all’aria… Sembra una scultura, – aveva pensato.- Cosa c’è di più bello di un albero? Quell’anno in montagna gli era nato l’amore per la natura. E anche le rocce rosse …- Come si chiamano queste rocce? aveva chiesto. Ma nessuno gli sapeva dare una risposta. Allora aveva deciso che avrebbe studiato scienze naturali.
La rugiada su una ragnatela faceva complicati ricami. Da passarci ore a guardarla. E le formiche?
– Cosa fai là per terra André? – chiedeva sua madre. – Vieni qui!
I ragazzi correvano sui pattini. – Me li comperi i roller? – aveva chiesto André. Ma sua madre non glieli aveva comperati.
All’improvviso, niente più estati così. A rivangare nella memoria non trovava la ragione. Qualche problema di famiglia, forse. Le estati seguenti le avevano trascorse sulla costa a quattro passi da casa.
– Non mi piace lo zenzero!
– Perché? – aveva chiesto sua madre. – È un vero peccato, a me piace speziare.
– Non voglio mangiare – aveva detto André. – Non mi piace lo zenzero.
E così la madre aveva iniziato il suo lamento, e André si era sentito molto incompreso. Avrebbe voluto che la mamma buttasse via zenzero carne e altri cibi a cui dedicava tanto del suo tempo, e lo prendesse in braccio come quand’era piccolo. Niente da fare…- Hai già quindici anni! – diceva sua madre. – Sei un uomo!
Non poteva chiedere a sua madre di prenderlo in braccio. Per tutta la vita avrebbe desiderato che sua madre quella sera, mentre teneva in mano un barattolo di spezie e tirava fuori dal frigorifero dei pezzi di carne puzzolente, buttasse via tutto e lo prendesse in braccio.
– Perché non mangi? – continuava invece a ripetere. E lui, come risposta, continuava a non mangiare, per sentirselo dire ancora, perché gli sembrava che solo in quella preoccupazione assurda e maniacale di sua madre per il suo appetito ci fosse un po’ di quello che lui desiderava: attenzione e un amore completo.
Nella vita poi non li aveva mai ricevuti, amore e attenzione. Almeno non come avrebbe voluto. Col tempo, però, aveva imparato a non desiderarli neppure. I problemi s’erano risolti e lui aveva vissuto un’esistenza quasi normale, aveva sposato una donna, aveva sperato che lo amasse con quell’attenzione totale di cui lui aveva bisogno; ma così non era stato. Poi aveva avuto una figlia e l’aveva anche perduta. Era stata affidata a sua moglie, la sua bambina, e se n’erano andate via entrambe portandosi dietro brandelli della sua carne… E anche se aveva compiuto da pochi giorni i quarant’anni, ancora gli rimaneva dentro quella sera, e sua madre con un pezzo di carne in mano e il frigorifero aperto e il suo querulo e delizioso perché non vuoi mangiare, André?
– Guarda dentro di me, ascoltami! – aveva gridato André senza parlare. Ma sua madre si puliva le mani nel grembiule e borbottava qualcosa sulla sua sorte.
– La vita è come il mare… Sarai un Ulisse, andrai lontano, – così diceva la mamma quando André aveva dieci anni… – Nelle onde ci andrò… E la mamma ripeteva è come una conchiglia… la porti all’orecchio, ascolti… la vita è una conchiglia, ma bisogna ascoltare bene… – E cosa c’è dentro questa conchiglia? – chiedeva il bambino.- La vita che ribolle. Il sangue che scorre. E, dentro, le molecole che vibrano. E, dentro ancora, gli atomi, e dentro ancora…
Il bambino ascoltava e gettava sassi nell’acqua. – Andiamocene via, – diceva. – Io e te. Mare onde tuoni la faccia del bagnino… – Cosa ci facciamo qui? Torniamocene a casa! – Ma, André ! Siamo appena arrivati in vacanza!
La sua bambina… Aveva dieci anni … No, undici… La vedeva così raramente! Giulia diceva che lui non era in grado. Diceva: In quell’appartamento, io non la mando!
E lui replicava: – Ma, Giulia! Chiedi a nostra figlia che cosa preferisce. Magari vorrebbe venire… – Che cosa credi che capisca? – replicava lei, irritata. – È solo una bambina.
Come aveva potuto sposare Giulia? Era così insensibile. Certo, sua figlia era solo una bambina. Ma sentiva, capiva. Anche lei un giorno si sarebbe ricordata. Senza volerlo sarebbe rimasta inchiodata a qualcosa per sempre.
– Per la bambina basto io, diceva sua moglie.
D’altronde le avevano affidato la bambina, e André doveva accontentarsi di mozziconi di tempo. Qualche volta andavano a mangiare un gelato o al cinema. Una sola volta Giulia gliel’aveva lasciata per una vacanza (ma solamente perché doveva fare un safari con un amico e non voleva portarla).
Accartocciato nelle sue ubbie, André non era stato in grado di fare molto. Avevano passato una vacanza noiosa e miserabile in una pensioncina vicino a Cagnes. Al mattino lui scriveva nel parco e la bambina giocava. Si sentiva stupido e inadeguato. Il desiderio, che tante volte aveva provato, di starsene solo con la bambina, si era trasformato in un sottile disagio. Cosa dirle? Come intrattenerla? Come farla giocare?
– Vuoi dei pattini? – le aveva chiesto, perché si ricordava che alla sua età li desiderava. Ma la bambina non voleva dei pattini.
Per fortuna si arrangiava da sola e aveva trovato degli amici. André però si sentiva ugualmente in colpa e le parole di Giulia che lo condannavano a essere inadeguato gli risuonavano nella mente.
Quando erano ritornati a casa, era stato contento e s’era convinto che sua moglie avesse ragione: lui non era adatto ad avere una figlia, era meglio che continuasse da solo la sua esistenza balorda.
Mare, sabbia negli occhi, rumore delle onde. Notte, e non aver niente da dire.
(omissis)
(pp. 149 -152)
Philipe, come ogni medico, non andava volentieri dal medico. Solo in caso di necessità, quando proprio non ne poteva più. Ma c’era un maledetto dente che da cinque mesi lo tormentava. Era un dolore acuto, che a intervalli spariva, e, ogni volta che spariva, lui si metteva il cuore in pace, e fantasticava su come il dolore fosse correlato alla mente e su come quel dolore fosse indicativo di qualche suo malessere interiore. Ad ogni buon conto andrò dal dentista, concludeva. Ma non si decideva mai. – Un nuovo dentista ti ci vuole! Devi andare nello studio dove vado io. C’è un dentista molto bravo, – gli aveva detto una sera Marcel.
Alla fine si era deciso e gli aveva chiesto un appuntamento.
– Apra la bocca, – aveva detto il dentista dopo aver sprecato non più di quattro secondi per un impersonale e asettico saluto.
Un attimo, avrebbe voluto dire Philipe. Non ti conosco neanche! Diciamoci due parole almeno per familiarizzare. Come posso aprire la bocca a uno sconosciuto?
E invece per il dentista il tempo era denaro, e la bocca fu aperta. Philipe sospirò.
Il braccio peloso che gli entrava nelle fauci e un’ esclamazione, sfuggitagli più che altro per chiedere una pausa, bastarono perché il dentista lo rimproverasse brusco: – Deve stare fermo. Altrimenti non la finiamo più.
Non la finiamo più? Ma se abbiamo appena iniziato! pensò Philipe, e continuò a guardarlo.
A così breve distanza vedeva il suo braccio abbronzato (come mai i dentisti sono sempre abbronzati?) vedeva i suoi occhi un po’ sporgenti (starà bene, avrà digerito, sarà di buon umore ?)
Il dentista trapanava veloce. Trrr Trrr… Rumore infernale.
Philipe continuava a pensare. Magari ha litigato con la moglie…Magari è un mese che non fa l’amore… E io sono nelle sue mani…
Il dentista trapanava. Che rumore orrendo, pensò Philipe. Come si può vivere felici trapanando i denti del prossimo?
Eppure l’assistente, una bella ragazza mora, sorrideva.
– Isolde! Passami…(E Isolde sorrideva e passava…)
– Non si risciacqui, non occorre. Ha due aspiratori in bocca.
Effettivamente. Gli succhiavano la saliva. Aveva la gola secca. Ma pure desiderava sputare e sciacquarsi, almeno per prendere un po’ di tempo.
– Ahhii! – gli sfuggì. Subito si pentì di quello che aveva fatto. Quel gridolino aveva indotto il dentista a munirsi di ago e…
– Dovrò precedere con l’anestesia.
– Ma come! – cercò di borbottare Philipe. Non ho mai fatto l’anestesia.
– Solo una punturina… Ecco fatto!
– Non avevo mai… ( Non riuscì a finire che aveva di nuovo la mano del dentista in bocca).
– Adesso cosa sentirò? – chiese con gli occhi e qualche mezza parola.
– Non sentirà niente. Qualche formichina. Sente qualcosa?
– Niente .
– Adesso?
– Niente.
– E adesso?
– Ahiii!
– Ancora?
– Solo un po’.
– Allora dovrò farle un’altra anestesia. Sul palato. Dalla radiografia sembra che il nervo sia compromesso. Vediamo cosa si può fare.
– Cosa? Cosa?
– Lei non deve parlare!
Sono nelle mani di un pazzo, pensò Philipe sgomento. Mai visto uno così! Per fortuna che me l’ha raccomandato Marcel! Guarda che braccio peloso! Guarda che baffi!
Trrrr
– Ahi!!
– Si rilassi. La sento un po’ teso.
– Eh!…
– Non parli!
– E non sputi, – aggiunse l’assistente.
Povero me! Non ho mai avuto problemi col mio dentista. Ma lui era diverso. Mi raccontava della barca. Mi parlava. Mi chiedeva sempre del mio lavoro. Metteva la mia musica preferita. Questo qui, invece…
– Temo che glielo dovrò togliere, – fece il dentista dopo aver armeggiato un po’.- Così non risolviamo niente.
Tra schizzi uscì un meravigliatissimo: – Il dente?
– Certo. Il dente.
– Ma che cos’ha ?
– Una carie profonda. Non lo possiamo salvare.
– Ma è sicuro? (La bocca di nuovo tappata).
– Facciamo in un attimo, vedrà.
– Mai tolto nessun… (Di nuovo la mano in bocca)
– Capisco, c’è sempre una prima volta.
– Ma è sicuro? (quasi con le lacrime)
ZAC !
– Ecco fatto!
– Garza!
– Ecco!
– Tamponi! Tenga così.
– Oh!
– La garza così per mezzora, poi un gelato, non beva cibi caldi, non mastichi. Arrivederci.
– Aarr…
– E non parli.
– I…
– Vada, vada
(omissis)