Arduo compito, dal quale lo vediamo uscire vittorioso, è quello che si è imposto Della Rocca, affrontando la scrittura di un romanzo basato sulla vita di Egon Schiele.
Romanzo familiare? Romanzo sull’arte? Romanzo sul commercio dell’arte? Tutto questo e molto altro s’intreccia in un’intricata trama vitale, risolta con una tecnica narrativa chiara ed efficace. Sono solito sottomettere alla critica i romanzi di questo genere intrattenendomi in un gioco previo che, ovviamente, presenta i suoi rischi, ma che può anche portare a un esito felice. Il gioco consiste nell’inventare altri nomi per i personaggi e vedere se il testo, in quanto romanzo, regge. Così, al di là dei nomi reali, considero questo romanzo come uno stupendo scenario delle grandezze e miserie della vita artistica, non soltanto di quella di Schiele.
Il personaggio che ci presenta Della Rocca è, da una parte, un piccolo borghese che cerca, spesso, come una debolezza, il riconoscimento del mondo che egli stesso disprezza, e dall’altra, un artista ribelle, al quale nulla interessa ad eccezione della sua arte. Servizievole nei confronti di Klimt, suo maestro, fino a quando questi gli serve, ma prepotente dinanzi a quelli che lo adorano, figura angelica o diabolica, tutto quanto egli estrae dalle relazioni che intrattiene entra a far parte delle sue necessità di artista. Rilke consigliava il poeta di dedicarsi alla poesia in maniera asso- luta, di rinunciare a qualsiasi altra vita, “come un organo del quale non si servirà più”. Schiele, al contrario, è l’artista che consuma, senza previo giudizio né tentennamenti, tutte le vite possibili, ma sottomettendole o integrandole alla sua arte in modo spietato.
Il romanzo ha come asse centrale la tormentata relazione tra Schiele e la sorella Gerti, il cui punto scatenante nella narrazione è il primo viaggio che entrambi, adolescenti, fanno a Trieste nel 1907, condividendo la stessa stanza d’albergo, dinanzi allo sguardo morboso del proprietario e alla perplessità dei clienti. Il rapporto tra Schiele e Gerti proseguirà con una sorta di mutua adorazione, nonostante le difficili vicissitudini che entrambi dovranno affrontare.
Cinque anni dopo quel viaggio a Trieste, il pittore Anton Peschka – con il quale Gerti aveva iniziato una relazione
– vuole prenderla in moglie. Schiele si oppone con tutte le sue forze, nonostante Gerti sia incinta. Nascerà una bambina alla quale metteranno il nome della madre e che resterà, secondo la decisione di Egon, dalla nonna, finché Gerti non potrà sposarsi. Chi è, in realtà, il padre? E, d’altra parte, è di quella bambina il ritratto della bambina in rosso? A malapena si parla di lei, ma la sua ombra, proiettata dallo stesso titolo, così come il mistero che l’accompagna, percorrono tutto il romanzo.
Due procedimenti che costituiscono il romanzo si alternano in equilibrio: la narrazione in terza persona e le interviste post mortem dei personaggi più importanti. Sono morti, ma persistono oltre il tempo della loro morte, e in qualche caso, valga il paradosso, parlano di vicende che sono loro sopravvissute.
Gerti è quella più intervistata, assieme alle altre donne importanti nella vita di Schiele. C’è spazio anche per il critico Arthur Roessler, che ha avuto un ruolo rilevante nella vita e nell’opera del protagonista. Sono interviste che hanno una forma particolare: il narratore fa una breve introduzione, nella quale descrive le circostanze delle medesime, e a cui segue, senza interruzione, un piccolo monologo, come una sorta di confessione, dell’intervistato. All’interno del monologo s’inseriscono altre situazioni che vanno a intrecciarsi nell’intricata matassa dei rapporti tra il protagonista e altri personaggi, comprese le sue modelle e amanti. In questa matassa acquisiscono un’importanza sostanziale il rapporto di Schiele con il padre, sifilitico, violento, bravo funzionario, e sempre più vicino alla pazzia, che muore quando il figlio è ancora adolescente, e del quale il protagonista conserverà sempre un buon ricordo, persuaso che avrebbe apprezzato la sua opera; anche il conflittuale rapporto con la madre, e con lo zio, che passerà ad esserne il tutore dopo la morte del padre, oltre a quello decisivo con Klimt, maestro di arte e di vita.
Pavese scriveva che narrare è mono- tono, ma dava a questo aggettivo un valore positivo, quello di un mono-tono che regge la narrazione, sia dal punto di vista strutturale, sia da quello linguistico, e che finisce per costituire lo stile personale di uno scrittore. Questo equilibrio nella prosa è quello che, inoltre, permette a Della Rocca di ricreare un clima di lettura in consonanza con il clima dell’epoca, ma che allo stesso tempo la trascende, iscrivendo il romanzo in quella specie, citata all’inizio, delle grandezze e miserie dell’artista.
Per il lettore curioso delle vicissitudini che hanno accompagnato la scrittura del romanzo, Della Rocca ha scritto una nota finale – la cui frase iniziale è: perché un altro romanzo su Schiele? – nella quale ripercorre i passi principali che hanno dato origine al romanzo, la successiva ricerca del materiale, fa un elenco delle opere saggistiche e di finzione scritte sull’artista austriaco, e ci spiega il momento e le ragioni che lo hanno portato a scrivere sullo stesso, attratto, in primo luogo, dalle figure femminili che hanno circondato Schiele: circostanze queste che hanno portato Della Rocca a costruire un romanzo con una prospettiva veramente differente e proficua.
pubblicato su Il Ponterosso n° 6