La sfinge del Montasio (2)

Sfinge MontasioLa fune aveva ripreso a scorrere verso l’alto. Altri colpi di martello echeggiarono sulla parete, altra delusione. Il ferro penetrando nella fessura non vibrava ancora rassicurante. Anche quel chiodo, da un momento all’altro, poteva abbandonare la roccia in cui era penetrato e segnare la fine della loro avventura.
Era il tempo in cui molti giovani affrontavano i rischi dell’arrampicata ricchi soltanto della loro passione appena sbocciata, anche se poveri d’esperienza e di mezzi. Una sola corda grossa e pesante, un breve cordino, delle pedule di pezza, qualche chiodo ed era tutto ciò che potevano usare per vincere le aspre pareti, raggiungere le vette, spesso ancora inviolate. Inoltre ognuno doveva essere dotato di uno zaino in cui, oltre ai viveri, venivano riposti i pesanti scarponi. E nello stesso zaino venivano affardellati gli indumenti, allora del tutto inadatti a riparare dalla pioggia, dal vento e specialmente dal freddo durante i bivacchi notturni. E uno zaino così carico aggravava qualsiasi difficoltà per il suo volume e il suo peso. Ma all’inadeguatezza dei mezzi, all’insufficienza di esperienza e di notizie, quei giovani sapevano quasi sempre supplire con il loro coraggio, il loro entusiasmo e soprattutto con la loro forza e l’abilità acquistate nei lunghi allenamenti invernali sulle brevi ma impegnative pareti della Valle Rosandra. Quella valle vicinissima alla loro città, amata e intensamente frequentata, che già aveva dato al mondo alpinistico degli uomini d’eccezione.
E a quel gruppo di appassionati, che della Val Rosandra avevano fatto la loro palestra, appartenevano anche Paolo Valle e Marcello Serra in quel giorno decisi a conquistare la vetta dello Jalouz lungo un percorso scelto del tutto a caso.
La corda aveva ripreso a scorrere e un altro chiodo battuto con rabbia mandava un suono cupo. Schegge di roccia caddero dall’alto per disperdersi nel baratro. Una sorda imprecazione li seguì nella loro caduta. Paolo irrigidito fissava l’orlo giallastro del tetto. Se il suo compagno proseguiva era segno che non aveva più altra scelta. Tutto dipendeva ormai dalla saldezza dei suoi nervi e delle sue dita, contratte su labili e quasi inconsistenti appigli. Forse le punte delle sue pedule aderivano appena alla roccia levigata.
– Come va, Marcello!, gridò a un tratto il Valle incapace di contenere il bisogno di parlargli, di sentire la sua voce, di persuadersi che sussisteva ancora una via d’uscita. L’amico non gli rispose. Si allungò invece sulla parete trasferendo il peso del corpo sulla punta delle pedule.
Una fessuretta rassicurante stava sopra il suo capo. Distese verso quella le braccia una alla volta, vi cacciò dentro le dita, inarcò il corpo: le pedule trovarono subito un altro appoggio. Paolo continuava a fissare come ipnotizzato l’orlo del tetto che gli precludeva ogni altra vista. In quella un altro chiodo vibrò sotto i colpi del martello. Era finalmente il suono atteso. Tutto quel silenzio freddo sembrò invaso dal vibrare rassicurante del metallo.
– Ci siamo!, gridò il Serra e la sua voce era esultante. L’incubo vissuto, già dimenticato. Non rimaneva più che la gioia della bella conquista.
Marcello Serra in un attimo si era assicurato su di un punto di sosta sicuro e comodo e voltando le spalle alla roccia si passò la fune sulla spalla disponendosi ad aiutare l’amico nella salita.
– Molla il cordino dal chiodo e assicura gli zaini. Vieni!
Pochi minuti dopo i due amici si trovarono uniti sulla stessa sporgenza e mentre Paolo recuperava con il cordino i due zaini, il Serra avvolgeva diligentemente la fune ormai inutile.
– È fatta!, esclamò soddisfatto, mentre osservava i pochi metri di roccia facile che li separavano dalla vetta. Il Valle indugiò un istante a guardare con riconoscenza l’ultimo chiodo che aveva tenuto e che forse da solo aveva risolto il grave problema. Gli altri, durante la salita, li aveva estratti con la semplice azione delle dita.
– Anche questa l’abbiamo fatta!, mormorò il Serra sedendosi accanto all’ometto della vetta. L’amico gli si accovacciò accanto in silenzio. Dopo qualche istante di meditazione soggiunse:
– Io non ce l’avrei fatta a superare quel maledetto tetto.
Marcello gli indicò alcune nuvolette sopra il Tricorno che lentamente si dilatavano nella purezza del cielo.
– Tra poco il sole non splenderà più così, disse, e alzatosi in piedi volse la sua attenzione in direzione del versante che precipitava sulla Val Trenta.
– Mi sembra di aver udito delle voci.
Il Valle che pure le aveva udite, esclamò seccato:
– Qualcuno sta arrivando. Maledizione!
Afferrò la fune già accuratamente arrotolata e la fissò sullo zaino. Non amava condividere la vetta con chi saliva per il versante più facile. Si caricò tutto sulle spalle pronto per andarsene.
– Accidenti! Tre ragazze!, esclamò invece Marcello preso da entusiasmo. Cerca di comportarti civilmente: sono donne, lo ammonì conoscendo il carattere misogino dell’amico.
Questi, senza guardare da quella parte, pensò tuttavia che pur essendo donne avevano dimostrato d’essere delle valide alpiniste. La via normale non era poi tanto semplice su quella montagna. Durante la notte per di più, mentre essi riposavano nella rustica baita alla base del monte, si era scatenato un furioso temporale che aveva lasciato sulle cenge non poca grandine e ghiaccio.
– C’è anche Eugenio!, esclamò il Serra, facendo qualche passo verso la cordata in arrivo e lanciando un grido di saluto.
Paolo svogliatamente si tolse lo zaino dalle spalle, lo posò a terra e si avvicinò al gruppo. Incominciarono le presentazioni.
– Da dove diavolo siete saliti?, chiese il giovane che aveva seguito per ultimo le tre ragazze.
– Dalla Val Coritenza, rispose il Serra mentre Eugenio Grandi, aperto in breve lo zaino già andava in cerca degli involti che contenevano lo spuntino indispensabile dopo quella faticaccia.
– Una salita interessante, commentò la ragazza che si era presentata dicendo soltanto il suo nome: Laura. Nello stesso tempo accettava un panino ripieno di prosciutto che il Grandi le porgeva.
– Come avete trovato il cengione?, chiese questi mentre si affrettava a distribuire i panini alle altre due ragazze.
– Lo abbiamo seguito soltanto in parte, intervenne il Valle, sorridendo con sottile malizia mentre faceva circolare il suo bicchiere di alluminio colmo di tè molto zuccherato e corretto con una buona aggiunta di grappa.
– Infatti, aggiunse il Serra. A un tratto abbiamo scoperto un caminetto che ci è sembrato divertente. Lo abbiamo superato facilmente e poi abbiamo seguito una lunga fessura…
– E a questo punto Marcello ha sbagliato come al suo solito, concluse Paolo ridendo.
– Già, fece Marcello senza prendersela, e aggiunse: Abbiamo superato una brutta placca gialla seguita subito da un’altra peggiore, grigia e gocciolante…

(I due post costituiscono l’inizio di un romanzo ancora inedito di mio padre, Lino Torossi)