Pace violenza e letteratura noir

ancoraÈ diffusa la convinzione che la nostra società sia una società violenta e che la letteratura noir in tutte le sue varianti, fino all’estremo del polar, sia il genere letterario che meglio la rappresenti; ne sia insomma la rielaborazione artistica più adatta. Non ne sono del tutto convinta. Penso che la Londra in cui viveva Shakespeare fosse una città più violenta, una città in cui si poteva incontrare la morte con maggior facilità che nelle nostre metropoli.
La violenza è sempre stata presente nella storia umana in varie forme e indubbiamente il passato prossimo e il passato remoto non ne sono affatto esenti. Ma potremmo riflettere sul fenomeno davvero inusuale nella storia umana, e che ha un suo antecedente solo nella pax romana del II sec d. c., di un periodo abbastanza lungo non attraversato direttamente da guerre, almeno in questo lembo di mondo.
Le ultime generazioni del mondo occidentale sono state eccezionalmente favorite dalla sorte. Chi non ha esperimentato una guerra, e io per prima perché appartengo a una di queste generazioni fortunate, sa poco di cosa significhi vivere nella costante paura di morire.
Per queste generazioni la guerra è un evento visto alla televisione, qualcosa contro cui manifestare, una generica preoccupazione per le sorti del mondo. Non carne e sangue.
Certo, le guerre nell’ex Jugoslavia si sono svolte proprio alle nostre porte, qualcuno di noi le ha viste e raccontate in diretta, la guerra in vari paesi del mondo fanno paura per le conseguenze che ne possono derivare, il terrorismo semina minacce che insidiano i nostri sonni, ma tutto questo, pur nella sua inquietante presenza, mi sembra di minor impatto che la certezza di ritrovarsi sulla testa l’aviazione che sgancia bombe colpendo in prevalenza civili come è avvenuto anche in Europa in un passato non troppo remoto. Gli episodi di violenza e di follia che sentiamo alla televisione, pur nella loro frequenza, mi sembra non siano sufficientemente numerosi per poter giudicare la nostra una società più violenta delle altre che ci hanno preceduto in Occidente.
Oltre a ciò si dovrebbe anche considerare che una parte abbastanza consistente di questa violenza è indotta proprio dalla mancanza stessa di guerre, naturale collettore della violenza umana.
La cattiva coscienza dell’Occidente e la consapevolezza che la sua storia è irrimediabilmente macchiata dal sangue delle vittime di due guerre mondiali e dell’olocausto ci rende estremamente sensibili di fronte alla parola “guerra”, ma non la neutralizza. Gli ultimi decenni hanno visto affermarsi in Occidente un pacifismo abbastanza retorico, che peraltro non ha posto fine alle guerre che imperversano in gran parte del mondo. Spesso la guerra dall’Occidente è stata esportata. Salvo poi strapparsi i capelli e piangere sulla sventura dei popoli che ne sono coinvolti.
La natura umana purtroppo non è una natura pacifica. E la storia non è storia di pace. Come scriveva Montale: “ La storia non si snoda/ come una catena/ di anelli ininterrotta./In ogni caso/molti anelli non tengono./La storia/non contiene/ il prima e il dopo./Niente che in lei borbotti a fuoco lento/… La storia non è magistra/di niente che ci riguardi./Accorgersene non serve/a farla più vera e più giusta”.
Comunque sarebbe inesatto affermare che la violenza è assente dal nostro mondo, direi anzi che abbiamo tutti la sensazione di una sottile violenza che lo percorre dall’interno. L’acuirsi delle differenze sociali, i solchi sempre più profondi tra regioni fortunate e non, tra le zone ricche e quelle povere del mondo e l’accentuarsi delle tensioni intergenerazionali all’interno di una nazione stessa per lo scriteriato modo con cui sono state lasciate proliferare ingiustizie e assurdi privilegi fanno sì che tutti noi sentiamo palpabile una sensazione di sotterranea tensione e abbiamo la sensazione di star seduti comodi, – forse anche troppo comodi! – su una polveriera che da un giorno all’altro esploderà. La violenza è quindi nell’aria, ma si tratta di una violenza implosa, di una violenza che avvertiamo più a livello inconscio che cosciente. In questo senso – certo – si potrebbe anche accogliere l’idea che il thriller sia lo specchio dei nostri incubi e della nostra cattiva coscienza.
Ma forse non è così, forse la letteratura noir, così intrisa di sangue e di delitti, non ci rispecchia profondamente, ma rispecchia paradossalmente l’aspetto ludico e annoiato della nostra società.
Indubbiamente nella giungla c’erano più emozioni. Nelle nostre giungle metropolitane l’esistenza dell’animale uomo è meno inquietante. Il bus che ci porta al lavoro con ogni probabilità raggiungerà la fermata prescelta senza schiantarsi, i colleghi saranno subdolamente pericolosi ma indubbiamente non in grado di mettere a repentaglio la nostra esistenza, le file interminabili negli uffici metteranno a dura prova la nostra pazienza e il nostro umore, ma non ci regaleranno altro che piedi doloranti e arrabbiature, le quotidiane routinarie incombenze ci costringeranno a devolvere molte ore alla ripetitività, ma non ci daranno che scarse scosse di adrenalina. La giornata per molti di noi trascorrerà senza che il cuore abbia significativamente accelerato i suoi battiti. L’abitante delle giungle metropolitane cerca allora qualche succedaneo che lo stimoli, magari senza fargli correre troppi rischi, perché fondamentalmente è un pauroso.
Jeffery Deaver, uno dei più noti scrittori di thriller, ha affermato in un’intervista che l’uomo di oggi predilige la letteratura noir perché ha bisogno di emozioni. La lettura di un buon thriller è un po’ come la ruota di un luna park o una corsa sulle montagne russe. Chi ci va non vuole certo cadere ma soltanto provare il brivido che quella paura artificiale gli procura.
Viene spesso da pensare a quanto sia artificiosa la nostra vita e a quanto poco corrisponda ai nostri bisogni autentici.
Speriamo che nessuno ci regali una vita più vera.

m.t.t.
da Rotte d’Europa (Hammerle, 2015)